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Autore: kenjina    17/12/2013    4 recensioni
- Betulla sequel -
«Vedo che anche oggi ti sei dato da fare. Trascorri più tempo rinchiuso lì dentro, piuttosto che nella Sala del Trono, mio Re.»
Thorin fece una smorfia ironica. «Sai bene quanto non mi piaccia stare con le mani in mano.»
«Ebbene, non sarò certo io a trascinarti lontano dalla fucina tirandoti per un orecchio!» Balin strizzò un occhio, porgendogli una pergamena. «Ma forse c’è qualcuno, là fuori, che avrà il potere di osare ben oltre.»
L’altro si voltò per guardare l’anziano Nano, che aveva ora tutta la sua attenzione. Prese il rotolo di carta ancora chiuso ed osservò con interesse la cera che lo sigillava: era un albero incorniciato da sette stelle, con una corona alata in alto.
Era lo stemma di Gondor.

(tratto dal secondo capitolo)
Genere: Avventura, Guerra, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Boromir, Nuovo personaggio, Thorin Scudodiquercia, Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Foreste di Betulle; giardini di Pietra.'
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Avete visto Il Film? Lo avete visto? *_*

Beh, avrei molte cose da ridire su mooolti cambiamenti di trama rispetto al libro, ma... nel complesso mi è piaciuto!

Scriverò una recensione sul mio blog dopo che lo guarderò per la seconda volta, giovedì! Stay tuned. ;)

Ad ogni modo, mi scuso ancora per non aver risposto a tutte le recensioni, provvederò entro oggi! >_<

Sappiate che vi amo, tanto tanto tanto.

E ora si va a battagliare nella Città Bianca. Ne vedremo delle belle. ;)

A presto!

Marta.

 

 

Pietra

-  sequel di Betulla -

 

 

 

19.

 

25 Settembre 3019 T. E.

 

Thorin si chiese quanto tempo ancora avrebbero potuto resistere. La prima parte del cancello era crollata facilmente, come si aspettava, mentre ora gli Haradrim parevano avere più difficoltà con la seconda. Fu un pensiero rassicurante, dopo tutto, che la mano dei Nani avesse contribuito a rallentare il peggio. Ma era proprio così che sarebbe andata: avrebbero semplicemente rallentato il tempo, ma non evitato l’inevitabile. Gli Haradrim avrebbero attraversato le mura e non c’era niente, in quel momento, che avrebbe potuto fare per impedirglielo.  

Quando si accorse che i cardini e il frettoloso muro iniziavano a dare segni di cedimento, Thorin agì in fretta e, senza una parola, ordinò ai suoi uomini di nascondersi e agli arcieri di ritirarsi sui tetti degli edifici, sulle torri e ovunque avessero una buona visuale senza essere scoperti. Se era quello il fato di quella giornata, e cioè che gli invasori entrassero a Minas Tirith, allora avrebbero avuto una sorpresa degna del miglior banchetto di benvenuto.

Il cancello in opera si spalancò appena in tempo per permettere ai suoi soldati e a quelli di Gondor di trovare un nascondiglio, e gli Haradrim rimasero interdetti nel vedere la desolazione e la calma dall’altra parte delle mura, invece che un esiguo esercito pronto a riversarsi su di loro come il fuoco di un drago. La fanteria mosse i primi passi all’interno della silenziosa Città Bianca, le scimitarre in posizione difensiva e gli scudi ben alti sul torace, mentre setacciavano le strade con i loro penetranti occhi neri.

Fu solo quando un numeroso gruppo di loro fu completamente all’interno che la potente voce di Thorin spezzò l’irreale silenzio calato sulla città e i Nani si avventarono sugli assalitori con la stessa furia di una valanga, affondando asce e spade contro la carne sotto le loro dorate corazze, mentre gli arcieri scaricavano frecce con destrezza e precisione. Fu così che, dopo non molti mesi dall’ultimo assalto di Minas Tirith, la città venne nuovamente invasa dal clangore della battaglia e altro sangue venne versato sulle strade lastricate di bianco.

Gli Haradrim si ripresero presto dalla sorpresa e in pochi istanti la potenza difensiva dei Nani e degli Uomini non parve più così invalicabile. Non seppero quantificare quanto tempo trascorse dall’inizio della battaglia, ma parve infinito. Alcuni di loro caddero e ben presto iniziarono ad indietreggiare sotto gli affondi delle scimitarre e la robustezza delle loro corazze, finché Thorin gridò la ritirata al Secondo Cerchio. Chiusero il cancello poco prima che il nemico li raggiungesse e Fili e Kili abbassarono la pesante grata dietro la porta in legno. Con un sorriso, si batterono una testata, per festeggiare il tempismo; ma il momento di gioia fu ben presto soffocato dalla rabbia e dalla frustrazione degli assalitori, che si sfogarono sugli edifici del Primo Livello, saccheggiandoli ed incendiandoli.

Ecthirion avrebbe volentieri saltato le alte mura del secondo bastione, pur di lanciarsi contro chiunque osasse sollevare un solo dito sulla sua città... o per marchiare con la sua lama un sorriso di sangue sul volto disgustoso del suo ormai vecchio sottoposto, che dall’alto della sua sella osservava la distruzione con soddisfazione, nonostante una mano insanguinata fosse premuta sulla ferita. Ma le sue speranze di vendetta vennero stroncate dalla limpida ma energica voce della sua Regina.

«Arcieri!» gridò Arwen, gli occhi spalancati verso un gruppo di Sudroni. «Coprite il cancello, ora!»

Kili corse verso il suo avamposto e, imitato dagli altri, tentò di colpire i soldati che stavano riorganizzando l’attacco. Ne vide alcuni, in particolare, armeggiare con qualcosa che non riuscì a decifrare; erano troppo in alto per poterli vedere chiaramente, ma Káel, al suo fianco, aveva visto bene, proprio come la Regina.

«Che cosa vogliono fare?» domandò più a se stesso che all’altro, sporgendosi dal suo avamposto per osservare meglio. «Sembra che stiano spargendo della sabbia nera lungo il cancello...»

Gli Haradrim si allontanarono velocemente, mentre uno, posizionato a debita distanza, tendeva un arco dalla freccia infuocata.

Káel spalancò la bocca e gridò.

Gridò più forte che poté, anche a costo di perdere l’uso della voce. Quasi non fece in tempo a finire l’avvertimento e a strattonare Kili il più lontano possibile, che il cancello saltò in aria, sgretolandosi come un castello di arenaria sotto un soffio di vento troppo impetuoso. Chiunque fosse nei paraggi venne sbalzato dall’onda d’urto e i poveri malcapitati sbatterono violentemente contro pareti e pavimento, mentre i detriti delle mura e del cancello cadevano come pioggia su di loro: alcuni non fecero in tempo a ripararsi, altri si spostarono giusto in tempo.

Thorin sentì la forza dell’aria muoverlo a decine di piedi di distanza e atterrò brutalmente sulla schiena; per un lungo istante gli parve di essere morto. Non percepiva più il corpo, né i suoni attorno a lui; solo un intenso fischio alle orecchie, causato dall’intensità dell’esplosione, e lo sguardo annebbiato dal dolore e dalla confusione. Osservò vacuo il cielo nuvoloso, cercando di ricordarsi come si facesse a respirare, poiché non era sicuro neppure di riuscire a dilatare i polmoni. Il fastidioso fischio, che pareva penetrargli il cervello, scemò lentamente, sostituito ancora una volta dalle grida degli Haradrim, che partivano all’attacco, approfittando della loro debolezza. Sbarrò gli occhi quando si rese conto del pericolo in cui si trovava; ma riuscì a riacquistare la sensibilità delle braccia e delle gambe solo al terribile pensiero dei nipoti, così vicini al cancello un momento prima dell’esplosione. Il terrore che fossero gravemente feriti, o peggio, gli diede la forza di rialzarsi e di trovare un solido appoggio sull’ascia. Vide Dwalin risollevarsi in tempo per difendersi da un soldato e Balin poco distante da lui, il viso e la candida barba sporchi di sangue. Cercò con nervosismo un qualsiasi segno che potesse indicargli che Fili e Kili stessero bene, ma non li vide.

La paura gli strinse il cuore, così come tanti anni prima, quando erano caduti davanti al suo corpo per difenderlo dalla barbarie degli Orchi, alle porte della loro Montagna. Quel giorno avevano rischiato seriamente la vita e ringraziò il cielo che non fosse cosciente per non vivere l’angoscia di quelle lunghe settimane in cui erano stati costretti a letto, senza riprendere conoscenza.

Con rabbia, affondò l’ascia su chiunque ostacolasse il suo cammino, mentre continuava disperatamente la sua ricerca e gridava i loro nomi a gran voce, nella vana speranza di ritrovarli sulle proprie gambe, accanto al Nano dai capelli rossi.

Poco più lontano, ancora stordito e stupito dall’esplosione, Ecthirion si rimise in piedi, guardando la distruzione intorno a sé. Fino a qualche giorno prima, Minas Tirith pullulava di vita e di entusiasmo per la ritrovata pace; ora tutto sembrava perduto. Si ritrovò a chiedersi persino se non fosse stato solo frutto della sua immaginazione, se la Guerra dell’Anello fosse realmente finita o se la stessero ancora combattendo.

Per la prima volta nella sua vita, l’Uomo si sentì impotente, come un ragazzino alla sua prima battaglia, la spada che tremava tra le mani e la paura di muovere un muscolo. Non servì ricordarsi che avesse combattuto guerre ben peggiori, né che fosse sopravvissuto a ferite profonde, ben più gravi della spalla colpita dalla freccia solo qualche tempo prima. Ma cosa potevano fare lui, i suoi Uomini o tutti quei Nani, di fronte a quella diavoleria che i Sudroni avevano portato?

Tempo addietro Re Éomer aveva parlato loro di un attacco simile al Fosso di Helm, per mano di Saruman; le possenti ed indistruttibili mura della fortezza, che mai erano state invase, erano crollate in un istante.

Digrignò i denti, di fronte alla vigliaccheria del nemico. Quale degno avversario avrebbe ricorso a vili astuzie come quelle, per vincere una battaglia?

Eppure sapeva bene, per esperienza, che non vi fossero regole in guerra.

L’unica che contava veramente era una ed una sola.

Uccidi o lasciati uccidere.

E lui aveva preferito sempre la prima opzione.

«Mia signora!» gridò, alla sua Regina. «Dobbiamo ritirarci alla Cittadella, non è sicuro qui!»

Arwen levò la spada dal cadavere di un Haradrim e il suo sguardo gli fece capire che non fosse del suo stesso avviso: era una donna che sapeva ben difendere se stessa e ora avrebbe dovuto proteggere anche la sua gente, con o senza suo marito. Non si sarebbe rintanata come una codarda nella sicurezza dell’ultima cerchia di Minas Tirith.

Piuttosto sarebbe morta.

«Mia Regina! Ti prego, devi seguirmi!» continuò l’Uomo. «Dama Brethil non è qui a proteggervi, questo compito spetta a me, ora.»

«Mantieni la posizione!» replicò lei, senza ammettere ulteriori discussioni. «Mantieni la posizione con me, Ecthirion, e moriamo per difenderci. Dimostrami che la fiducia del tuo Re è ben riposta.»

Egli inspirò pesantemente e annuì. «Ebbene, così sia. Ma ti prego, stammi vicina, mia Regina. Preferisco che prendano la mia vita, piuttosto che la tua.»

 

 

 

Trán non riuscì a sopprimere un grido di paura quando le vibrazioni e l’eco dell’esplosione raggiunse il Sesto livello, facendo tremare le pareti dell’edificio e le vene ai polsi. Le urla di terrore dei civili giunsero chiaramente nella stanza di Thorin e lei rabbrividì. Solo l’odore del Nano, che impregnava le coperte sotto cui era accovacciata con il fratello, riusciva a darle quel poco di forza che le bastava per non tremare come una foglia. Le dava l’illusione che lui fosse accanto al suo corpo, mentre l’abbracciava con affetto per darle coraggio.

Ma Thorin non era lì, con lei.

Mahal, lui non era lì.

Era lì fuori e solo i Valar sapevano cosa stesse accadendo.

Quanto avrebbe desiderato che l’abbracciasse davvero!

Trión le si strinse contro, cercando conforto e cacciando indietro le lacrime di paura, e lei non poté far altro che cullarlo, sussurrandogli che tutto sarebbe finito in fretta e per il meglio.

O almeno, così sperava e pregava, anche se dopo quel tremendo boato, ormai, non credeva più nemmeno alle sue stesse parole.

A centinaia di piedi da lei si stava scatenando l’inferno e l’insicurezza e la paura le serrarono la gola.

Ora che aveva trovato finalmente un bello e sincero gruppo di amici, ora che aveva imparato ad aprirsi con gli estranei e che, soprattutto, aveva trovato qualcuno con cui condividere un sentimento travolgente come l’amore, tutto le parve perduto e si chiese cosa avesse combinato di male per meritarsi tanta sofferenza e tante difficoltà. Non era più sicura di rivedere Brethil, che il Fabbro la proteggesse, e ora persino suo padre, i suoi fratelli, i suoi amici e il suo Re erano in pericolo.

Il terrore di perdere tutto quello che aveva faticosamente guadagnato era devastante.

E non sapeva più cosa fare né pensare.

Se qualche mese prima le avessero detto che sarebbe partita per Gondor, che avrebbe conosciuto l’amicizia e l’amore e si sarebbe trovata invischiata in una guerra, avrebbe riso e scacciato quell’idea come una mosca fastidiosa.

Eppure, nemmeno la paura di quei momenti poté farle rimpiangere la decisione di seguire la sua famiglia in quell’avventura. Che ne sarebbe stato di lei, se non avesse mai varcato la soglia dei Colli Ferrosi? Sarebbe ancora sola con i suoi pensieri, con il suo lutto e con la sua famiglia. Non avrebbe riso con Fili e Kili, né avrebbe potuto contare sulla presenza confortante di Brethil.

E non avrebbe, probabilmente, mai incontrato Thorin.

Quel pensiero fu talmente orribile che sentì il petto dolerle dall’angoscia.

No, neppure la Morte stessa l’avrebbe fatta pentire della sua scelta.

Gettò un’occhiata alla finestra, temendo di avvicinarsi come le aveva proibito Thorin, sia per paura di essere colpita da qualsiasi cosa stesse succedendo là fuori, sia di vedere la distruzione con i suoi occhi. Trán non aveva mai conosciuto la guerra, poiché era stata combattuta lontana dai Colli Ferrosi, e aveva sempre sperato di non vedere gli orrori che i suoi fratelli e suo padre le avevano raccontato.

Così si strinse al fratello, baciandogli la testolina indiavolata e raccontandogli qualsiasi cosa, pur di distrargli la mente... e la sua.

 

 

 

L’esplosione era stata così potente da far imbizzarrire i loro cavalli anche ad una profonda distanza, e ora alte colonne di fumo salivano dalla Città Bianca, mentre il sole scendeva velocemente verso Ovest. Brethil spronò Nerian con rabbia, abbassando la lama di Celeboglinn nel momento in cui raggiunse i primi Haradrim della retroguardia. Lo sforzo e l’euforia di essere finalmente giunti fu liberato in un grido inumano e il Nemico tremò per la prima volta nell’insicurezza. L’esercito di Minas Tirith era di poco superiore al loro, ma era doppiamente motivato ad uccidere ogni invasore respirasse per il solo fatto di aver osato anche pensare di riportare il terrore della guerra entro i confini di Gondor, tra le mura della loro Capitale.

Gimli si lanciò su un gruppo di Haradrim dal cavallo in corsa di Legolas, e quelli caddero sotto il suo peso e la sua letale ascia. «A-ha! Ora si comincia a ragionare!»

«Conteggio onesto, questa volta, mi raccomando!» esclamò Legolas, scagliando la decima freccia in pochi istanti.

«Onesto? Parli di onestà a me, ragazzino?» replicò scandalizzato il Nano, tagliando di netto il collo ad un soldato che ebbe la sfortuna di ritrovarsi di fronte alla sua indignazione. «Tu, piuttosto, bada bene a come conti, Elfo!»

Legolas rise, saltando dal cavallo e sfoderando i lunghi ed affilati pugnali che teneva sulla schiena, giacché la faretra era ormai vuota. «Mettiamo una posta in palio, dato che a voi Nani piacciono tanto le scommesse.»

I due furono separati per qualche lungo minuto, prima di ritrovarsi schiena contro schiena e riprendere il discorso da dove era stato interrotto.

«E cosa vorresti scommettere, damerino?» domandò Gimli; dovette attendere ancora qualche istante prima che la sua curiosità fosse sedata.

«Se io dovessi vincere–» disse Legolas. «–dovrai tagliarti la barba.»

Il Nano fermò la sua personale battaglia, guardandolo con occhi e labbra sbarrati, sperando di aver udito male. «Appartengo alla Casata dei Lungobarbi! Questo ti suggerisce qualcosa?»

«Oh, lo so bene, mastro Nano. E dato che si parla dell’onore della tua famiglia, allora avanti, combatti! Credo che stia già perdendo, amico mio.» replicò l’Elfo, in un sorriso divertito.

«Aspetta, Orecchie a Punta! Non abbiamo deciso quale sarebbe il mio premio se fossi io a vincere.»

«Ma è ovvio: terrai la tua barba lunga e folta per il resto della tua vita!»

Gimli boccheggiò ancora qualche istante e riprese a combattere con più veemenza, borbottando la conta dei caduti e pensando che avrebbe preferito tagliarsi le dita delle mani piuttosto che sfiorare anche un solo ciuffo della sua adorata barba con una lama.

Poco più avanti, una scia di cadaveri segnava il passaggio delle lame dei gemelli di Imladris, ora non più sorridenti e lieti, ma letali come la Morte stessa. Brethil cavalcò all’interno della città, abbattendo e calpestando nemici, e rimase pietrificata nel vedere lo stesso spettacolo del Fosso di Helm durante la battaglia contro le forze della Mano Bianca, quando era giunta in soccorso con l’esercito di Erkenbrand, tanti mesi addietro. La battaglia era ormai dilagata ovunque lungo i primi tre livelli, paurosamente vicino ai civili, e avrebbero dovuto fermare la loro marcia prima che fosse troppo tardi.

Il viso martoriato dalle cicatrici le si distorse dalla rabbia e combatté con rinnovato vigore. E come lei, nessuno dei suoi soldati sembrò badare alla stanchezza della lunga cavalcata, falciando e uccidendo qualsiasi cosa fosse identificata come il nemico. Non c’era spazio per riprendere il fiato, in quella carneficina. Nani e Uomini avrebbero preferito morire piuttosto che distrarsi dall’affaticamento.

Avrebbero ripulito Minas Tirith dalla feccia che l’aveva assalita e lo avrebbero fatto quel giorno, pensò Brethil, sfilando la lhang dall’addome di un Haradrim. Nel caos non si accorse di un arciere che colpì il suo cavallo e Nerian impennò impaurito e dolorante, rischiando di disarcionarla malamente. Saltò dalla sella prima che il piede le si incastrasse sulla staffa e tentò inutilmente di calmare il suo destriero, che si allontanò al galoppo, impazzito.

«Mia signora!» gridò un soldato, poco distante da lei. «Alle tue spalle!»

Si voltò appena in tempo per vedere un Uomo crollare ai suoi piedi e la possente ascia di Dwalin conficcata sul cranio. La donna sospirò di sollievo e lui ghignò. «Non c’è di che, ragazza.»

Brethil si lasciò sfuggire un sorriso, ma fu ben presto dimenticato, sostituito dalla gravità della situazione. «Gli altri?»

Il Nano non ebbe bisogno di chiederle a chi si rivolgesse, per capirla, e lui non si sprecò certo in parole. «Balin è ancora sulle sue gambe e lo stesso vale per Thorin. Ma non so dove siano i ragazzi.»

Brethil strinse i denti, guardandosi intorno. «Mardil?»

«Quel codardo non si è ancora fatto vedere.» borbottò Dwalin, le cui nocche divennero bianche pensando all’Uomo. «Che venga pure!»

Non spesero altro tempo in chiacchiere e tornarono ai loro posti. Brethil si mosse verso il Terzo Cerchio, cercando traccia dei nipoti di Thorin e soprattutto per controllare la situazione alla porta del Quarto. Trovò Ecthirion con la Regina e un altro manipolo di soldati di Gondor, che difendevano l’ingresso ai civili, e li raggiunse, seguita dai suoi Uomini. Gli Haradrim vennero sopraffatti velocemente e il Secondo Capitano di Gondor non fu mai così sollevato di rivedere il viso sfregiato della donna come in quel momento. Se fosse stato sentimentalista, e soprattutto lei non una donna, l’avrebbe senza dubbio accolta con un abbraccio.

«Credevo dovessi dirigerti all’Harad! Hai perso il senso dell’orientamento lungo il cammino?» le domandò invece, per non perdere l’abitudine e dimenticarsi chi fossero entrambi.

«Chiamalo buon senso; sapevo che lasciare la città in mano tua avrebbe portato solo guai.» replicò a denti stretti; poi si rivolse alla Regina. «Mia signora, la Prima Guardia è nuovamente al tuo servizio.»

Arwen sorrise. «Combattiamo insieme, allora.»

Si gettarono con rinnovata forza sul nemico, in quella battaglia che non pareva aver fine; Elladan ed Elrohir si erano affiancati alla sorella e alla Dúnadan, e, come solevano fare un tempo che pareva lontano intere Ere, i quattro lottarono insieme, difendendosi a vicenda in una danza sincronizzata e letale. Persino Ecthirion ebbe qualche secondo di stupore, guardando i tre Mezz’Elfi e la Sfregiata; ma dovette riprendere subito il pieno controllo della sua attenzione, prima che la sua leggerezza gli costasse caro l’osso del collo.

«Thêl! Quando tutto questo finirà–» stava dicendo Elladan, tra un colpo di spada e l’altro. «–ricordati che abbiamo uno scontro da portare a termine!»

La donna grugnì stancamente qualcosa. «Ultimamente la lista dei miei duelli sta diventando un tantino lunga.»

«Fatti qualche domanda, dunque!» replicò Elrohir, con un sorriso.

Ma Brethil non ebbe tempo per chiedersi perché tutti volessero scontrarsi con lei.

O forse sì, se lo domandò quando si ritrovò un uomo decisamente più alto e massiccio di Boromir che aveva deciso di mirare la sua foga omicida verso di lei. Calò con forza la sua scimitarra sulla donna e Brethil si ritrovò a parare il colpo con fatica e con entrambe le mani sulla spada, rischiando persino di spezzarsi il polso. L’Haradrim la spintonò con forza, facendole perdere l’equilibrio e la presa sulla lama, e cadde sulla schiena, gemendo dal dolore; rotolò su un fianco  giusto in tempo per evitare l’ennesimo affondo e lo calciò sotto le ginocchia, sperando di farlo cadere; ma quello pareva avere i piedi incollati al terreno e ghignò di soddisfazione. Cercò con frenesia l’elsa di Celeboglinn ma non la trovò subito e sentì il terreno mancarle quando l’Uomo la sollevò per i corti capelli. Il pugno che ricevette all’addome poco dopo le troncò il fiato per interminabili secondi e sbarrò occhi e bocca in un grido sordo. Brethil non riuscì a reagire neppure quando sentì la freddezza di una corta lama sul fianco destro e cadde in ginocchio, gemendo dal dolore. Gli occhi appannati dalle lacrime e dalla sofferenza le permisero di vedere la sagoma dell’elsa di un pugnale, conficcato completamente nella carne, che perdeva copiosamente sangue. Poteva quasi sentire la gelida punta del pugnale raschiare contro le ossa del bacino ad ogni movimento. Alzò lo sguardo sull’Haradrim che l’aveva colpita e che aveva tutte le intenzioni di porre fine alle sue sofferenze con un colpo netto della scimitarra contro il collo.

Aveva visto la Morte in faccia molte, troppe volte durante la sua vita; ma mai quel momento la sua mano pareva così vivida da sfiorarla, per afferrare la sua vita con le lunghe e scheletriche dita.

Brethil trattenne il fiato.

Non ebbe tempo per pensare, per perdersi nei ricordi di un’esistenza fatta di vagabondaggi e battaglie. Accadde tutto così in fretta che quasi non se ne accorse. Ebbe solo il tempo di alzare il mento, per guardare in faccia il suo carnefice e aspettando che la fine giungesse.

Sperò solo che Boromir, dovunque fosse, stesse bene e superasse la guerra anche per lei.

Anche con gli occhi ora chiusi riusciva a vederlo.

Le sorrideva come nelle giornate più luminose, quando le mostrava con orgoglio le vie della sua infanzia e le raccontava la storia di Gondor.

S’imbronciava quando lei faceva valere le proprie ragioni di fronte alla sua sconfinata testardaggine.

E percepiva la morbidezza di quelle labbra sulle sue, prima di lasciarsi andare tra le sue braccia e tra i sogni dell’ennesima notte spesa insieme.

Ma la spada non calò con la velocità che aveva immaginato e sperato.

Riaprì gli occhi grigi quasi con disappunto e vide l’Haradrim cadere senza vita, mentre alle sue spalle si alzava la figura ferita di Ecthirion, la spada grondante di sangue. Brethil tornò a respirare, impiegando qualche secondo prima di rendersi conto che fosse ancora viva. Incontrò lo sguardo del Secondo Capitano, che le porgeva una mano per rialzarsi, e lei l’afferrò con forza, rimettendosi in piedi sulle gambe maldestre e ringraziandolo con un breve cenno del capo. Sfilò con disgusto il pugnale dal fianco, premendo immediatamente una mano sulla ferita che pulsava fastidiosamente, poiché temeva per un’emorragia troppo abbondante e non poteva permettersi di perdere forze nel mezzo di una battaglia. Ecthirion si strappò il mantello, fasciandole il busto con uno stretto nodo, e Brethil tentò di raddrizzare la schiena appena finì. Con un instabile equilibrio, strinse Celeboglinn tra le dita della mano sinistra, controllando la situazione; ma quando incrociò lo sguardo di Mardil, che era giunto al galoppo evitando le spade dei Gondoriani, ed ora era pronto a combattere, si mise in guardia.

Ecthirion, però, le oscurò la vista, frapponendosi tra i due. La sua espressione, perennemente seria e irata, parve ancora più minacciosa del solito. «Lascialo a me. Lui è mio

Brethil sapeva bene che quello non fosse un gesto di cortesia per la sua ferita. No, Ecthirion voleva vendicarsi del suo uomo più fidato, colui che lo aveva tradito senza remore alcuna. E sebbene volesse essere lei ad ucciderlo con le sue mani, si fece da parte, poggiandosi contro il muro di un’abitazione e preparandosi a qualsiasi altro attacco le venisse rivolto.

Ecthirion ringhiò dalla rabbia, mentre stringeva la spada e lo scudo tra le dita.

Eccolo lì, il verme.

Gli sorrideva, come se il caos che si stava scatenando intorno a lui non fosse altro che puro divertimento. E forse lo era davvero, per lui: un gioco di cui aveva scritto personalmente le regole e in cui sapeva di aver vinto.

Ma Ecthirion non gli avrebbe permesso di lasciarsi sconfiggere, un’ulteriore volta. Perché sì, aveva perso come mentore e guida. Che cosa aveva sbagliato, come suo Comandante? Quando era accaduto il cambiamento? Quando l’aveva perso di vista? Erano tutte domande che continuava a porsi da quando aveva scoperto il suo doppio gioco, e il non trovare risposta lo debilitava e lo irritava ancora di più.

«Perché?» fu tutto ciò che riuscì a chiedergli, quando le loro lame si incrociarono in un clangore di ferro contro ferro.

Mardil ghignò, il viso contorto dalla follia e dallo sforzo dello scontro. «Ero stanco. Stanco di essere la tua ombra e quella del Sovrintendente. Stanco che persino una donna fosse più in alto di me! Mi è stata proposta un’offerta migliore e l’ho accolta con piacere. Potere, quello vero... quello che tu non hai mai avuto, quello che né tu né il tuo amato Re avrebbe potuto darmi.»

Ecthirion gli fu addosso con più vigore, facendolo arretrare ma senza colpirlo. Mardil era un soldato fin troppo ben addestrato per farsi sopraffare da lui.

Il suo maestro.

«È tutto qui? Combatti contro Gondor solo per meri scopi egoistici?»

«No, certo che no. Quale vuoto e scarso cattivo sarei. Ti ho mai accennato al mio albero genealogico e alle mie origini Harad?»

Il Secondo Capitano sgranò gli occhi, preso alla sprovvista dalla domanda e dall’affondo successivo, che lo colpì alla spalla già ferita.

«Oh, sì... mia madre era Haradrim. E Gondor l’uccise.» continuò Mardil, muovendo la lama nella carne, con piacevole sadismo. «Morì esattamente di fronte ai miei occhi di bambino. Riesco ancora a vederla prendere l’ultimo respiro, prima di rimanere immobile; e riesco ancora a vedere il gusto del Gondoriano che si prese la sua vita. Così, spaventosamente simile a te, mio caro amico.» Ecthirion tentò di parlare, ma quello non glielo permise. «Tu hai ucciso la mia famiglia. E io ucciderò la tua, dovesse significare mettere a ferro e fuoco l’intera Terra di Mezzo. Sai, forse tu non la ricorderai, ma mia madre era bella ed una guerriera, come la Sfregiata. Ma le donne, nell’Harad, sono nate per combattere; femmine come l’amante del Sovrintendente sono un insulto alle nostre signore, non trovi?»

Il sorriso si spense solo qualche secondo dopo essersi reso conto che la mano che reggeva la spada non era più attaccata al braccio, che ora perdeva sangue ovunque. Con orrore, spostò lo sguardo sulla donna che aveva appena disprezzato e che reggeva la sua affilata lama elfica.

«E così, sarei un insulto?» ansimò, per lo sforzò che aveva dovuto fare nel correre incontro ai due.

Mardil non fece in tempo a rispondere, perché un freddo mortale dovuto al panico lo immobilizzò sul posto; con un colpo di tosse sputò altro sangue e cadde sulla schiena, ormai senza vita e la spada di Ecthirion affondata fino all’elsa nell’addome.

Con le lacrime agli occhi per il dolore del tradimento, per aver ucciso un uomo che credeva essergli amico e fratello – l’unico che potesse ritenere tale – eppure felice per il sollievo di essere ancora vivo, Ecthirion si rivolse a Brethil, una mano sulla spalla ferita, e cadde in ginocchio accanto a lei, non trovando la forza di sollevare lo sguardo. «Ti chiedo perdono, mia signora.» mormorò, con rabbia. «Perdonami per aver dubitato di te. Perdonami

Brethil lo abbracciò con cautela, ancora troppo scossa dagli avvenimenti per rendersi conto che l’uomo distrutto che aveva tra le braccia era lo stesso che, per lunghe settimane, l’aveva insultata fino all’esasperazione.

Le trombe risuonarono per la città con forza e gioia, e in quel momento niente contava più. Non i loro asti, non i loro sbagli.

Erano vivi.

E Minas Tirith gridava di aver vinto, ancora una volta.

 

 

 

*

 

Ebbene, anche questo è andato!

Mamma mia, che fatica tremenda!

Deve esserci davvero qualcosa di tremendamente sbagliato in me, per farmi amare capitoli come questo. :D

A presto! *-*

E andate a vedere La Desolazione di Smaug! Solo il Drago vale il prezzo del biglietto. <3

Marta.

 

 

   
 
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