Nota dell'Autrice: questa storia è frutto della
mia
fervida immaginazione e non ha alcuna pretesa di rispecchiare la
realtà,
quanto piuttosto di rivisitare persone ed eventi reali senza alcuno
scopo di
lucro. La storia ha un rating arancione per via di un ricorrente uso di
parole non
esattamente eleganti e futura trattazione di temi di un certo tipo.
È il
seguito ufficiale dell’ormai conclusa Lullaby For Emily,
anche se all’inizio
può non sembrarlo, ma avrete modo con lo svilupparsi della
storia di capire
meglio. Può essere tranquillamente letta per conto proprio, anche se non avete seguito Lullaby, perché anche se riprende da dove avevamo lasciato, è una storia tutta nuova (non so se mi sono spiegata ^^). Per ora vi auguro buona lettura. ;)
A proposito, per tutti coloro che volessero avere un'idea di come la sottoscritta ha concepito l'immagine della protagonista, ve la presento: ecco a voi Vibeke. Per gli altri che vorranno immaginarla personalmente, meglio ancora. ;)
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I wish I could sit
here all alone
Thinking this is okay
Don't need anybody
tonight
Just complete silence and the candle light
And I'd drink my coffee, wouldn't worry at all
I would feel fine, like I always do
I would be smiling, laughing too
Don't need anybody, least of all you
And then I would convince myself it's true
(It’s True,
Lene Marlin)
***
“Vaffanculo!”
strepitò, tirando calci furiosi all’auto con
la punta dei pesanti anfibi. “Vaffanculo, vaffanculo,
vaffanculo!”
Le era successo altre volte che la
sua vecchia Golf la
piantasse in asso a decine di chilometri da casa, ma era la prima volta
che le
capitava sotto una pioggia così maledettamente insistente.
Non era ancora un
acquazzone, ma nemmeno pioggerellina, e per di più era
l’una del mattino inoltrata,
in una strada scarsamente frequentata, dove in ogni caso non
bazzicavano altro
che vip e ricconi snob.
Avrebbe maledetto a vita
quell’idiota di suo fratello Bjørn
– BJ, per lei – per averla invitata (costretta) a
quella disgustosa festa tutta
modelle e sbruffoni palestrati. Si sentiva ancora il rumore pulsante
della
musica provenire da diversi piani sopra la sua testa – e da
appartamenti
diversi – e, vista la mole di alcolici che aveva ingerito per
aiutarsi a
sopportare almeno un paio d’ore di quella noia indecente, la
sua testa
percepiva il tutto amplificato di diverse migliaia di volte.
Oltretutto stava congelando.
Il vestito di pizzo e cotone le
aderiva zuppo al corpo e
stava cominciando ad entrarle l’acqua nelle scarpe, pur
nonostante la suola e i tacchi fossero decisamente
alti. Era gennaio, e anche se la temperatura era non era
particolarmente bassa
e a lei il freddo comunque piaceva, mezza ubriaca com’era,
aveva solo voglia di
arrivare a casa, buttarsi sotto alla doccia e magari rimettere qualcuna
delle
schifezze che si era obbligata a mangiare per reggere tutti quei
Martini, a loro volta scolati per reggere i simpaticissimi presenti.
Forse, in fin dei conti, era un bene
che la Golf fosse in
panne, non era il caso che si mettesse al volante in quello stato.
Avrebbe
potuto chiedere un passaggio a BJ, ma ciò avrebbe
significato ritornare in
quella gabbia di matti ed aspettare fino all’alba prima che
lui si decidesse a
scollarsi dal party.
Era fuori discussione.
Non voleva certo sottoporsi ad un
incubo simile, anche al
costo di farsi venti chilometri a piedi.
Certo, l’indomani mattina
avrebbe avuto un importante
colloquio di lavoro (anche se prettamente simbolico, visto che era
praticamente
già stata assunta) e presentarsi in stato comatoso ai suoi
futuri principali
sarebbe stato azzardato, ma non aveva alternativa: o si metteva
d’impegno per
essere a casa a piedi in un paio d’ore (salvo imprevisti),
oppure aspettava che
Sua Graziosissima Maestà Bjørn Jesper Wolner si
degnasse di ricordarsi di avere
una sciagurata sorella allergica alle volgari festicciole da vip. Avere
per fratello
uno dei più famosi DJ di Amburgo poteva essere terribilmente
oneroso, certe
volte, e lo era particolarmente quando interferiva con la vita di
Vibeke, nello
specifico, quando le impediva di farsi una dormita decente in vista di
un
evento importante come quello che la attendeva.
Ok, non mi
sono
esattamente fatta un mazzo così per ottenere quel posto,
rifletté, interrompendo
per un attimo le percosse al paraurti, ed
ero in debito con BJ per avermi gentilmente raccomandata e
così tolta
dall’abisso nero della disoccupazione, ma trascinarmi in
quella sottospecie di
orgia della techno music è stato veramente crudele.
Era esausta.
Si controllò nel riflesso
del finestrino: il suo viso latteo
era rigato da rivoli di kajal sciolto e gli occhi erano rossi e gonfi,
per non
parlare dei capelli, che si appiccicavano alle guance e alla fronte,
fradici
d’acqua.
Uno starnuto la costrinse a
distogliere lo sguardo,
facendola piegare su se stessa, le tempie pulsanti e doloranti. Le
veniva anche
un po’ da vomitare.
Non mi posso
ammalare.
Assolutamente vietato. È solo la bevuta,
nient’altro. Deve per forza essere
solo la bevuta.
Una coppia starnazzante
uscì dal palazzo a passo decisamente
brillo, ondeggiando di qua e di là mentre scendevano i pochi
gradini tra un
bacio e l’altro, toccandosi ovunque.
Li guardò con disgusto, e
loro ricambiarono senza problemi,
facendo commenti a voce alta sul suo trucco sciolto e le sue calze
smagliate
(peraltro volutamente).
Lei li mandò a quel paese
e sferrò l’ennesimo calcio alla
macchina, incavolata nera.
Vibeke V. Wolner, nata nella ridente
cittadina di Stavanger,
Norvegia, ed attualmente residente ad Amburgo con il proprio fratello
gemello,
non era una ragazza comune, per tre semplici motivi fondamentali:
primo, la
genetica le aveva giocato uno strano scherzo, facendola nascere con un
paio di
peculiarità anatomiche, tra cui un cuore che le batteva a
destra anziché a
sinistra e gli occhi di due colori diversi, uno grigio e uno verde;
secondo, il
suo look era caratterizzato da uno stile gotico decisamente estremo, un
look
che prevedeva un nero quasi totale e quintali di borchie ed argento che
ai
benpensanti andavano facilmente di traverso. Il terzo ed ultimo motivo
era, incredibile
ma vero, il più fastidioso per la gente: mancava quasi
totalmente di fiducia
verso il prossimo, e di conseguenza il suo atteggiamento era quasi
sempre
freddo e scontroso, cosa che dava sui nervi a chiunque al di fuori di
BJ, che
la sopportava da sempre ed era quindi ormai assuefatto al suo cinismo,
e di Rogue,
un approssimativo modello di gatto, bianco, grasso e tozzo, che
possedeva le due
sole, elementari funzioni di dormire e richiedere cibo, ma che lei
amava al di
sopra di chiunque altro.
Aveva tantissimi conoscenti, molti
dei quali la trovavano
una ragazza sveglia e ironica, anche se decisamente originale, ma
pochissimi
amici: uno di questi, il suo migliore amico di sempre, era il gemello
BJ,
con cui condivideva praticamente tutto, compresi la bicromia degli
occhi e i
folti capelli biondi, che erano il vanto di lui e la vergogna di lei.
Erano
ormai quasi undici anni, infatti, che Vibeke aveva tinto la propria
chioma di
nero, aggiungendovi poco dopo qualche irriverente striatura bianca.
Tutto poteva dirsi di lei, tranne che
fosse ansiosa di
integrarsi alla massa.
Sospirò, rinunciando
definitivamente al massacro dell’auto.
A questo punto non aveva scelta: doveva tornare a casa a piedi.
Raccolse la propria borsa da terra e
se la buttò su una
spalla, in un tintinnio sommesso di cinghie di metallo, poi
cercò di fare mente
locale sulla direzione da cui era arrivata. Si guardò
intorno: una fila di
alberi e lampioni dalla luce giallastra da una parte, fila di alberi e
lampioni
dalla luce giallastra dall’altra, macchine di lusso
parcheggiate su entrambi i
lati.
Grandioso.
Si portò una mano alla
fronte, la testa che le stava per
scoppiare.
BJ,
questa me la
paghi!
Riuscì a muovere appena un
paio di passi, senza neppure
curarsi di dove stesse andando, ma dopo pochi metri si dovette fermare
ed
appoggiare ad una delle auto parcheggiate lungo il marciapiede, in
preda alle
vertigini. La sbornia stava facendosi seria.
Altroché
se me la
paghi, fratellino.
“Hey, tu, giù le
mani dalla mia macchina!” esclamò la voce
alterata di un ragazzo.
Vibeke si voltò e vide una
figura alta ed imponente
dirigersi verso di lei, stagliandosi scura contro la luce del lampione
che
aveva alle spalle.
Man mano che lui si avvicinava,
diventava sempre più chiaro
che anche lui doveva aver bevuto parecchio, perché la sua
andatura era lenta ed
instabile. Fu solo quando lui entrò nel cono di luce del
lampione successivo
che lei capì che non era l’energumeno che era
sembrato all’inizio: era
sicuramente alto, ma la stazza era un inganno dei vestiti e della
notevole
massa di capelli.
“Non te la rovino
mica,” blaterò Vibeke, la mente un po’
annebbiata. “Mi ci sono solo appoggiata un attimo.”
Lui le venne di fronte, permettendole
così di poter
approssimativamente mettere a fuoco il suo viso.
Era bello –
sorprendentemente bello, in effetti – con dei
lineamenti dolci e morbidi, quasi femminili, e due occhi nocciola che
toglievano
il respiro. A coronare il tutto, un atteggiamento spavaldo e sicuro di
sé che
denotava un autocompiacimento traboccante, anche se forse – forse – giustificato.
Vibeke decise subito che non le
piaceva. Per niente.
“Le macchine come questa si
rovinano solo a guardarle,”
berciò lui, piantandosi davanti a lei arcigno.
“Quindi levati dai piedi, devo
salire.”
Il suo alito sapeva di alcol, segno
definitivo che aveva
bevuto, e anche parecchio.
“La mamma non te
l’ha detto che non si guida in stato di
ebbrezza?” gli fece. “Fai male a te stesso e agli
altri.”
Lui tentò di scansarla e
spingerla da parte, ma lei si
artigliò alla maniglia della portiera.
“Senti carina, sono quasi
le due, domani ho una levataccia all’alba
e una giornata infernale, quindi, scusami,
ma ti devi proprio togliere dai coglioni.”
Era anche più arrogante di
quel che si fosse immaginata.
Cosa credeva, di avere una vita solo lui?
“Allora?”
insisté lo sbruffone, in tono impaziente, ma lei
non si spostò di una virgola, nemmeno quando lui la prese
praticamente in
braccio per spostarla.
“Sei una ragazzina
dannatamente cocciuta!” ringhiò il
ragazzo, mentre lei non ne voleva sapere di mollare la maniglia. La
stava
stringendo così forte che quasi non la faceva respirare.
L’aveva chiamata
‘ragazzina’. Lui, che doveva avere ad
occhio e croce non più di diciotto anni, dava a lei,
ventitre anni da compiere
a breve, della ‘ragazzina’.
Normalmente Vibeke non si sarebbe
nemmeno data la pena di rivolgergli
la parola, ma i vari Martini avevano inibito la sua solita insofferenza
verso
le persone, sguinzagliando così la sua meno esibita indole
provocativa.
“Non ti lascio andare a
seminare dolore e morte per le
strade,” farfugliò lei, con una parte del suo
cervello, rimasta miracolosamente
sobria, che le dava dell’emerita cretina. “Io sono
brava e responsabile e non
guido, quindi te ne resti a piedi pure tu!”
Il ragazzo, che ancora la teneva
stretta tra le proprie
braccia, esili ma incredibilmente forti, strattonandola, assunse
un’espressione
feroce e contrariata.
“Va bene, non
guido,” sibilò a denti stretti. “Ma tu
molla
la mia portiera.”
Bastò mezzo secondo di
esitazione da parte di Vibeke perché
lui ne approfittasse per scardinarla dalla sua posizione e spingerla di
lato,
affrettandosi ad aprire l’auto e tentare di fiondarcisi
dentro. Ma lei, con un
rapido scatto, riuscì a recuperarlo prima che lui potesse
chiudersi dentro,
finendogli distesa addosso dentro l’abitacolo.
Il ragazzo lottò, e lei
anche, accapigliandosi come due
gatti arrabbiati.
“Ma che cazzo vuoi da me,
strega?” grugnì lui, quando riuscì
a rialzarsi un po’, bloccandole i polsi a pochi centimetri
dal proprio viso.
Vibeke rise isterica, ritrovatasi a
cavalcioni su di lui in
una posa più che compromettente.
“Prima volevo impedirti di
uccidere qualcuno. Adesso voglio
solo darti fastidio, perché mi stai antipatico.”
Erano entrambi fradici di pioggia e
completamente sbronzi,
semi sdraiati l’uno sull’altra dentro una macchina.
Lui doveva addirittura
sentirsi particolarmente scomodo, dato che la sua schiena poggiava su
due
diversi sedili, ma la sua espressione mutò rapidamente
mentre lei si sentiva
trascinare giù, verso di lui.
Provava un’avversione
istintiva verso questo presunto figlio
di papà con una macchina da milionari e
l’atteggiamento da padrone del mondo,
ma i suoi occhi erano così magnetici da impedirle di dar
retta all’impulso di
opporsi, e infatti, con un ultimo strattone decisivo, lui se la
accostò al viso
e la baciò.
“Che cazzo stai
facendo?” mormorò lei, assecondandolo senza
una volontà precisa.
Lo sentì sorridere, le
labbra ancora impegnate con le sue.
“Se non vuoi che me ne vada
a casa, almeno degnati di
offrimi un intrattenimento alternativo.”
La sua voce si era fatta roca,
sensuale. Non sembrava più
quella di un ragazzino, ma di un uomo, un uomo molto sicuro di
sé.
E che bacia
da dio…
La parte sobria del cervello di
Vibeke, intanto, si stava
rimpicciolendo sempre di più, obliata dagli effetti che la
lingua del ragazzo
stava avendo su di lei.
“Cos’è
quest’odore acre?” le domandò lui ad un
tratto,
vagamente più lucido.
Lei non capì subito di
cosa stesse parlando, ma poi avvertì
anche lei quell’odore pungente e lo connesse subito
all’inchiostro.
Aveva rimosso di avere la sua
preziosa stilografica nel
taschino della giacca che aveva addosso.
“Cazzo!”
imprecò, notando che l’inchiostro era fuoriuscito
ed aveva macchiato sia lei che lui su tutto il petto.
Merda, ho
rovinato la
sua felpa da migliaia di euro!
Chissà quando e se sarebbe
andato via. E, soprattutto,
chissà se gliel’avrebbe fatta pagare.
“Perché cazzo te
ne vai in giro con una stilografica in
tasca?” le chiese il ragazzo, ma senza troppo interesse,
sfilandosi rapidamente
felpa e maglietta in un colpo solo. Nel buio, Vibeke vide che la sua
pelle
chiara era chiazzata di inchiostro blu, così come il proprio
decolleté, ma a
lui non sembrava importare. Doveva essere talmente bevuto da essersene
a stento
accorto.
“È una lunga
storia,” rispose, le labbra gonfie e bollenti.
“Vedi, è che questa penna per me rappresenta una
parte fondamentale della mia
vita, anche se –”
“Chiudi il
becco.” Le intimò lui, catturando nuovamente le
sue labbra.
Riprese a baciarla, con
più foga, levandole la giacca quasi
bruscamente.
Per Vibeke fu impossibile non
avvertire una certa e ben nota
pressione tra le proprie gambe, e non poteva negare che la cosa la
stimolasse
non poco.
Non era una che soffriva di
solitudine – anzi, cercava
spesso e volentieri l’isolamento totale – e di
ragazzi fissi non ne aveva mai
avuti, quindi l’idea di un’avventura di una notte
non le dava particolari
pensieri, purché adeguatamente gestita. Era squallido
votarsi al sesso
occasionale, ma non era quello il suo caso. Era più corretto
dire che le
piaceva approfittare delle buone occasioni, quando si presentavano, e
quella sembrava
un’ottima occasione. Non
sapeva chi
fosse, né come si chiamasse, ma era meglio così.
Ma
sì, perché no?,
si disse, abbandonata quasi totalmente dalla ragione, sfiorando con la
lingua
il metallo del piercing del ragazzo, le cui mani avevano cominciato a
trafficare con i lacci del suo corsetto, disfacendoli con
un’abilità che
nemmeno lei stessa possedeva, dopo anni che aveva a che fare con quella
roba. E
mentre il suo corsetto finiva gettato chissà dove per
lasciare via libera ad un
paio di grandi mani esperte, Vibeke non poté fare a meno di
pensare che forse
la serata non era stata un disastro proprio completo.
Tanto chi lo
rivedrà
mai più?
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Note:
Eccoci qui, in seguito a svariate minacce, ricatti e coercizioni vari, mi trovo costretta a postare prima del tempo questa nuova storia, con la speranza che sarà accolta con lo stesso entusiasmo della precedente. ^^ Come
avrete visto, questo capitolo è relativamente breve.
Trattandosi di un’introduzione
alla storia, ho preferito che fosse così, ma i prossimi
saranno più lunghi. Come
avevo già annunciato alla fine di Lullaby, il titolo di
questa nuova storia è
tratto da una canzone dei Within Temptation (ascoltateli, non
smetterò mai di
consigliarveli, ne vale assolutamente la pena) e ha un significato ben
preciso,
che la storia svelerà, più avanti. Ultima noticina: il nome della ragazza, Vibeke, è stato preso in prestito dalla cara Lady Vibeke, che mi ha gentilmente concesso di usarlo per questo personaggio (ma che, sia chiaro, nulla ha a che spartire con la Lady, né come aspetto, né come carattere, nè il altri sensi), visto che è un nome che sembra fatto apposta per lei. ^^
Ringrazio anticipatamente chiunque
abbia letto fin qui e, in
particolare, chi recensirà (lo ripeto sempre, ma mai abbastanza: i commenti, soprattutto quelli costruttivi - positivi o negativi che siano - sono sempre molto ben accetti ed importanti). Siete stati un pubblico
fantastico per Lullaby,
spero lo sarete altrettanto per questa mia nuova creatura. ^^
Al prossimo capitolo!
P.S. grazie alle mie pusher personali di citazioni musicali da inserire nelle storie, questa in particolare, ossia Lady Vibeke e CowgirlSara, che hanno sempre l'orecchio pronto a cogliere i parallelismi tra quello che ascoltano e quello che io scrivo. Preciso che la maggior parte delle citazioni sono state scovate dal mio umile cervellino, quindi qualcosa da sola la so fare, ma grazie comunque!
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