E fu così, che dopo l’ennesima settimana passata
a smadonnare contro autocad ed affini, trovai il
tempo di concludere il capitolo e pubblicarlo.
*applausi*
Scherzi a parte, sto iniziando a sentire la
pressione di Aprile che si avvicina.
Dormo da cani, l’ispirazione per il progetto
scarseggia e come sempre relatore e correlatore si divertono a cambiare le
carte in tavola un giorno sì e l’altro anche.
Ma io resisto. >_<
Nel frattempo, godetevi finalmente il nuovo
capitolo! E, ripeto finalmente, sarà più leggero dei precedenti! ;)
Buona lettura e grazie infinite a tutti voi che
continuate a seguirmi e che mi dite così tante belle, bellissime parole.
Non me le merito. *//*
Un caro saluto,
Marta.
Pietra
- sequel di Betulla -
22.
30 Settembre 3019 T. E.
C’erano caduti
e feriti ovunque.
La sua lhang grondava di sangue e lei faticava
a restare in piedi; il dolore al fianco era lancinante, ma doveva trovare le
forze di rialzarsi e mantenere la posizione, per difendersi e difendere.
Le mura della
Città Bianca parevano infinitamente alte.
Non ricordava
che lo fossero così tanto.
Chinò lo
sguardo sulla sua divisa, ma non indossava l’uniforme che Aragorn le aveva
donato quando l’aveva nominata Prima Guardia del Re. Era nei suoi vecchi abiti
grigi da Dúnadan, la spilla argentata che brillava sulla spalla sinistra, e per
un momento si chiese se si trovasse davvero a Gondor o se fosse tornata al
Nord, sotto le rovine della perduta Annúminas.
La sua
attenzione venne catturata immediatamente dall’Albero Bianco ricamato sulla
tunica di un soldato e riconobbe Boromir, steso sul terreno. Era immobile, con
l’espressione rilassata di chi stava riposando. Ma solo quando gli si chinò
accanto, nonostante il fianco che pulsava incessantemente, che si accorse che
Boromir non stava affatto dormendo, giacché non respirava più.
Tentò di
gridare il suo dolore, di allungare una mano verso l’uomo per riscuoterlo. Ma
nessun suono uscì dalla sua gola, né alcun muscolo volle rispondere al suo
volere.
Eppure un grido
si levò nell’aria. Era terribile e lo conosceva bene.
Il freddo mortale
di quel suono stridulo la fece raggelare sul posto e per un attimo credette che
anche il suo cuore si fosse fermato dalla paura. Tentò di tapparsi le orecchie,
per fuggire a quella tortura, ma la voce riprese a gridare ancora più forte.
Pareva che stesse parlando, ma lei si rifiutava di capire cosa stesse dicendo.
Fu solo quando
il grido fu così assordante da non poter essere più ignorato, che si rese conto
che ciò che udiva non era la voce lacerante di un Nazgûl, ma bensì apparteneva
alla solita, vecchia Ioreth.
«Beneamato Eru,
mia signora!» sbraitò per l’ennesima volta, finché Brethil aprì finalmente gli
occhi appannati, sbattendo più volte le palpebre per mettere a fuoco soffitto
in pietra della stanza. «Si può sapere cosa ci fai qui? Non è la tua stanza, se
ben ricordo; ed è oltremodo indecoroso trovarti nel letto del Sovrintendente!
Suvvia, prendi la tua gruccia e tornatene nella tua camera – e che il Re non mi
punisca se ti lego al tuo letto, per una buona volta! Dovrei proprio farlo,
giacché ogni volta decidi di andartene a spasso quando ti ho chiaramente
vietato di muoverti! Per l’amore dei Valar, neppure quel Nano borioso è
riuscito a fermarti? Che il cielo mi aiuti contro la tua testardaggine!»
Brethil si
stropicciò il viso, ancora assonnata e rintronata dal sogno inquietante e dal
fiume di parole della guaritrice, che non pareva preoccuparsi del suo stato di
shock, né tanto meno poteva conoscere le inquietudini che l’avevano spinta in
quello stesso letto il giorno prima. Infischiandosene della donna, Brethil si
mise a sedere, osservando il volto ora un po’ meno pallido di Boromir. Allungò
una mano verso il naso dell’uomo e si rilassò nel rendersi conto che
respirasse. Continuava a dormire in quel sonno profondo da cui non sembrava volersi
risvegliare e si domandò quanto tempo ancora sarebbe passato prima di potersi
perdere nuovamente nei suoi occhi chiari. Le mancava il suono vibrante della
sua voce, i suoi rari sorrisi, i loro duelli – verbali e non.
Erano vivi
entrambi, ma mai come allora si era sentita così vuota.
«Mia signora.»
riprese Ioreth, con un sospiro. «Immagino che sia in pena per il mio signore
Boromir, ma anche tu hai bisogno di riposare e non di faticare in giro per le
Case di Guarigione. Stai pur certa che sarai la prima persona che avviserò, se
il Sovrintendente si dovesse svegliare.»
«Il
Sovrintendente si sveglierà.» Rimarcò Brethil, passandosi una mano sulla
fronte. «E non mi muoverò da questo letto, neppure se Aragorn stesso me lo
ordinasse. Voglio essere presente quando avverrà.»
Le parole di
replica della vecchia donna furono interrotte da un paio di nocche che
bussarono alla porta e Brethil ringraziò chiunque si nascondesse dietro l’uscio
per il suo tempismo. Poco dopo Rainiel l’aprì, rivolgendo un timido sorriso
alla sua signora e chinandosi lievemente per un saluto. «Chiedo perdono per il
disturbo, ma c’è una visita per te, dama Brethil. Non ti trovavo nella tua
stanza e immaginavo saresti stata qui.»
Brethil annuì
debolmente, sbirciando oltre le spalle della sua ancella; corrugò la fronte
appena si accorse di Ecthirion, che mosse qualche passo dentro la stanza, con
le spalle incurvate dalla stanchezza e forse dalla vergogna. Aveva il petto
completamente fasciato e la spalla ferita perdeva nuovamente sangue, bagnando
le bende candide; era stato accorto, però, ad infilarsi una maglia per
nascondere la macchia rossa agli occhi attenti di Ioreth, ben conoscendo la
donna e avendo poca voglia di udire le sue paternali – che ovviamente quella
non gli risparmiò.
«Varda e Yavanna!
Quale parte di dovete riposare non vi
è chiara? Nemmeno i miei nipoti, che hanno tutti meno di dieci anni e sono più
scalmanati di un branco di cani affamati, è così difficile metterli in riga!»
«Ho un graffio
alla spalla, niente che possa impedire alle mie gambe di muoversi, buona
donna.» borbottò a denti stretti Ecthirion, che prese una sedia e la posizionò
poco distante ai piedi del letto, senza badare ulteriormente alla guaritrice.
Scambiò una veloce occhiata con la Dúnadan, che aveva sistemato un cuscino
contro la schiena, per sdraiarsi nuovamente e non sforzare troppo il fianco.
Nessuno dei due osò parlare, finché Ioreth e Rainiel erano nella stanza. La
guaritrice, che controllò sia lo stato di Boromir che quello di Brethil,
continuò a mormorare improperi contro le loro teste calde, rimpiangendo i tempi
in cui la sua posizione era più rispettata ed autoritaria; se ne andò poco
dopo, seguita dall’ancella, che dovette sorbirsi le sue sgridate e le lunghe
lamentele – come se lei, poi, potesse impedire ad un guerriero come il Secondo
Capitano, o alla sua signora, di rimanere degente in un letto.
Quando la porta
fu chiusa alle loro spalle, la stanza cadde in un pacifico e agognato silenzio.
Godettero dell’assenza della voce gracchiante della guaritrice per parecchi
minuti; il sole era ormai alto e Minas Tirith era nuovamente in pieno fermento
per riparare i danni della battaglia. Brethil si domandò come stesse Trán, se
fosse in compagnia e con la mente occupata e lontana dai cattivi pensieri.
Sperò vivamente che così fosse, anche se sapeva bene che in situazioni come la
sua neppure il miglior giullare sulla faccia della terra avrebbe potuto
risollevarle il morale.
Ecthirion
sospirò pesantemente, riportandola con i piedi sulla realtà. Lo osservò a
lungo, rendendosi conto di come invece lui sfuggisse il suo sguardo, ora sul
pavimento, ora su Boromir. «Il Re mi ha detto che sia fuori pericolo.»
«È ciò che ha
detto anche a me.»
L’uomo inspirò
nuovamente, decidendo finalmente di osservarla.
La Sfregiata.
Una donna.
La stessa che
aveva umiliato e deriso per mesi, che gli aveva rubato il posto accanto
all’Elessar, che lo aveva nascosto nell’ombra.
La stessa donna
che gli aveva salvato la vita.
«Come stai, mia
signora?»
Brethil attese
qualche istante prima di rispondergli. Era evidente che il Secondo Capitano
fosse in estremo disagio, ora che la battaglia era conclusa, con tutto ciò che
aveva comportato, e i vecchi asti erano tornati a galla. Nessuno dei due
avrebbe potuto dimenticare i loro trascorsi, gli insulti e i continui litigi,
poiché erano legati da un profondo odio l’uno per l’altra. Eppure Ecthirion
sapeva bene che avrebbe dovuto ingoiare il fastidioso nodo alla gola e mettere
da parte la vergogna, per ringraziarla a dovere e porgerle delle valide scuse.
«Dovrò stare
lontana dall’arena di allenamento per un po’.» borbottò la donna, evidentemente
infastidita dalla sua impossibilità di muoversi liberamente. «La tua spalla?»
«Temo che saremo
in due ad annoiarci.»
Ricaddero
nuovamente nel silenzio imbarazzante di poco prima, poiché Brethil non fece
niente per sollevare una discussione, mentre l’uomo tentava di trovare le
parole adatte.
Ma infine
l’Uomo ci riuscì, con fatica. «Quando il Sovrintendente tornò in città prima
della battaglia del Pelennor–» iniziò, inumidendosi le labbra. «–quasi stentai
a riconoscerlo. Nonostante fosse concentrato sui suoi doveri, spesso mi pareva
con la mente altrove; e quando qualcuno gli chiedeva a cosa stesse pensando,
iniziava a parlare della sua Salvezza,
di quanto avrebbe voluto averla accanto. E quando confidò di essere stato
curato e difeso da una donna, sembrava così sereno eppure tormentato che ebbi
paura. Ebbi paura che la tua comparsa, e successivamente la tua presenza, fossero
una distrazione, che perdessimo il nostro Capitano nel momento in cui ne
avevamo più bisogno.»
Brethil non si
rese subito conto di stringere i denti e i pugni finché non iniziarono a
dolerle per lo sforzo. Si impose però di rilassare muscoli, decisa ad
ascoltarlo fino alla fine con pazienza, come sempre aveva fatto in quell’ultimo
periodo di vita.
«In quel
momento non m’importava che tu gli avessi salvato la vita. Che senso aveva che
fosse ancora sulle sue gambe, se pareva più preoccupato di tenerti a bada,
piuttosto che occuparsi della sua gente?» Ecthirion chiuse gli occhi,
strizzandoseli con due dita, prima di riaprirli e riprendere a parlare. «E
continuavo a chiedermi: cosa può trovare un uomo come lui in una... donna poco
femminile come te, senza dote né bellezza? Una donna che maneggia la spada come
un uomo, tra l’altro.» Rise, senza divertimento. «La verità è che provai
invidia. Una profonda e disgustosa invidia; eri giunta vestita di stracci e
avresti presto indossato la divisa della Prima Guardia del Re. Perché tu e non
me? Perché tu, una donna che ha avuto
la fortuna di crescere con l’erede al trono di Gondor e che non aveva mai
veduto Minas Tirith con i propri occhi, e non un uomo che ha servito questo Regno
per tutta la vita?»
Brethil chinò
il capo. In un certo senso capiva la rabbia e la frustrazione del soldato. Ma
sebbene fosse nata nel lontano Nord, era cresciuta con la speranza di trovare
la via verso la terra dei suoi antenati, combattendo con Aragorn e con il resto
degli esiliati Raminghi. Il servizio che aveva reso a Gondor, sebbene lontano
dai suoi confini, la rendeva meno degna di indossare la sua uniforme?
Lei non aveva
chiesto niente di tutto ciò che le era stato dato.
Non aveva
chiesto di essere nominata Capitano della Guardia Reale.
Non aveva
chiesto di innamorarsi del Sovrintendente e di essere ricambiata.
Quali colpe
poteva avere, lei, se non quelle di aver compiuto il suo dovere e di essere
stata se stessa?
«So cosa stai
pensando.» fece Ecthirion, sorridendo tristemente. «Ho creduto che fossi
riuscita ad incantare tutti con un passato tormentato, giacché quelle cicatrici
non porteranno sicuramente buoni ricordi. Ho creduto che ti fossi abbassata a
meri giochi di potere, per raggiungere la tua posizione.» Ecthirion abbassò lo
sguardo su un pugno chiuso, sperando di trovare la forza di riuscire a dire ciò
che stava per pronunciare. «Ma ora so. Ora capisco.»
Brethil lo
osservò con curiosità, le labbra strette in una linea sottile e gli occhi grigi
che lo scrutavano con attenzione.
«Diedi la mia
totale fiducia ad un Uomo che non esitò a colpire me e la nostra gente alle
spalle, nel peggiore dei modi; e non riuscii a darla a te. Ma capii chi tu
fossi realmente quando udii il tuo discorso all’esercito, prima della partenza
verso l’Harad. Lo capii quando ti vidi tornare per difendere le mura di questa
città. Ti ho veduta combattere e... e salvarmi la vita, quando eri ferita.»
«Se non fosse
stato per te, non sarei qui, ora.» fece Brethil, parlando per la prima volta
dopo tanto. «Ci siamo salvati a vicenda, se la memoria non m’inganna.»
Ecthirion
annuì. «E devo ammetterlo, sono in pace per averlo fatto.»
«Lo sono anche
io.»
L’uomo rimase
in silenzio, osservando il volto rilassato del Sovrintendente. Non sarebbe
riuscito a chiederle perdono per il suo comportamento passato, giacché lo aveva
fatto in un momento di dolore e gioia alla fine della battaglia. D’altro canto,
non vi era bisogno di farlo a voce alta. Quel lungo discorso fu sufficiente per
Brethil. Non sarebbero mai stati amici, di quello erano certi entrambi. Ma per
il momento avevano firmato una tregua e la donna sperò che durasse più di
qualche giorno, ora che gli aveva dimostrato di essersi meritata la carica che
ricopriva. Era sinceramente stanca di dover subire i suoi insulti.
Ecthirion si
schiarì la gola e si alzò con lentezza, nascondendo abilmente una smorfia di
dolore per una forte fitta alla spalla. «Sarà meglio che ora vada a farmi
cambiare le bende.»
«Non sentirai
la fine della predica Ioreth, altrimenti.» annuì lei. «Scusami se non mi alzo.»
«Conosco la via
d’uscita.» Si fermò con la mano sul pomello della porta, senza voltarsi. «Prenditi
cura di lui. E... per favore, avvertimi se dovesse risvegliarsi.»
Con un cenno
del capo, Brethil lo osservò sparire dalla stanza e si rilassò nuovamente
contro i cuscini. Ma non ebbe il tempo di rimuginare troppo sulla discussione
che avevano appena intrapreso, perché una voce roca eppure tremendamente
familiare le fece voltare il viso verso il corpo steso sul letto accanto al
suo, e lo fece con così tanta veemenza da farsi venire un crampo al collo. Non
seppe dire se le lacrime che le pizzicarono gli occhi furono di sollievo o di
dolore.
«Un bel...
discorso, direi.»
Brethil scoppiò
a ridere di felicità, vedendo gli occhi chiari del suo Sovrintendente aprirsi
con debolezza e sorriderle. Dimenticando la ferita in via di guarigione, gli si
strinse contro, baciandolo ripetutamente su una guancia ispida, mentre le
lacrime e le sue risate gli solleticavano la pelle.
«Non farlo mai
più.» gli ordinò in un sussurro, nascondendo il viso sull’incavo del collo e
inspirandone il profumo. «Non farlo mai più, Boromir. Ho temuto che–»
«Sono qui.»
l’interruppe lui, cercando di muovere un braccio per accarezzarle il volto
sfregiato. «Sono qui, ora.»
«Sì, sei qui.»
ripeté Brethil più volte, come se servisse a convincersi che fosse davvero lì,
con lei, lontano dal pericolo. Si sciolse come neve al sole nel sentire i
polpastrelli ruvidi dell’uomo sfiorarle la pelle del viso e gli strinse la mano
nella sua, mentre lui piegava il capo di lato per osservarla e tentare di
metterla a fuoco. Era ancora privo delle minime forze, ma aveva bisogno di
vederla e guardarla, dopo tutto quel
tempo interminabile di lontananza. Ed eccoli lì, dopo numerose strizzate di
palpebre, quegli occhi grigi e profondi che sembravano leggerlo come un libro
aperto; quelle cicatrici orribili che le deturpavano il bel viso e il suo
sorriso... oh, quel sorriso non lo avrebbe dimenticato tanto facilmente, dopo
quel giorno. Poiché Brethil sorrideva raramente e quello fu il più bel regalo
di bentornato che potesse fargli.
Stava per allungare
il collo e catturare le sue labbra in un leggero bacio, quando lei si sollevò
su un avambraccio e lo osservò con preoccupazione. «Sei a digiuno da giorni
interi; te la senti di mangiare qualcosa? Ioreth ha portato del cibo, poco fa.
Sarai disidratato, lascia che ti aiuti.»
Boromir fu
quasi sommerso da tutte quelle parole e non poté esimersi dal sogghignare. Gli
tornarono in mente quei lenti giorni trascorsi sui colli di Amon Hen, quando
lei si prendeva cura delle sue ferite e lo riportava gradualmente in forze. Ma
quando la vide muoversi con fatica, con una mano premuta sul fianco, il sorriso
gli si spense sul volto. «Sei ferita.»
«Non è niente
di grave.» borbottò lei, tentando di mettersi a sedere per poi raggiungere il
vassoio che Ioreth aveva lasciato poco prima sulla cassapanca.
«Brethil, non
dovresti muoverti.» Glielo disse in un sussurro roco, poiché la gola era arsa
dopo così tanto tempo in silenzio e con pochi liquidi in corpo; ma alle
orecchie della donna suonò come un ordine improrogabile e gli lanciò
un’occhiataccia.
«Hai bisogno di
bere, Boromir, e di mettere qualcosa nello stomaco. Non sei morto dissanguato e
non ti lascerò certamente morire di stenti.» replicò, afferrando la gruccia e
avvicinandosi al cibo. «Ho già la vecchia cornacchia alle calcagna, non ho bisogno
anche di te.»
Non ci fu
bisogno di spiegazioni, perché l’uomo capì perfettamente a chi si stesse
riferendo. Tentò di mettersi a sedere e ci riuscì con difficoltà, ma solo grazie
alla sua ostinatezza e non certo ai suoi muscoli addormentati. Non ricordava
come si fosse ridotto in quelle condizioni, ma doveva essere sicuramente
qualcosa di spiacevole e non certo a causa di una pesante sbronza. Accettò
senza ulteriori lamentele il bicchiere d’acqua che Brethil gli fece bere e
dovette calmare la sua sete pur di non finirla in un unico sorso.
«Cosa ti è
accaduto?» le domandò, mentre la osservava riempire nuovamente la coppa.
«È stato un
Haradrim più alto ed imponente di te, che ora è felicemente cenere nell’aria.»
lo aiutò a bere qualche altro sorso, per poi dedicarsi alla zuppa ormai tiepida
e a qualche pezzo di pane fresco.
L’ostinatezza
di Boromir, che gli gridava di non lasciarsi imboccare come un bambino, lo
portò ad afferrare il cucchiaio in legno dalla presa della donna; ma la mano
gli tremava troppo e grugnì di disappunto.
Brethil
sorrise, baciandogli la punta del naso. «Nessuno lo verrà a sapere; te lo
prometto.»
Quasi non fece
in tempo a finire la frase, che la porta si spalancò di nuovo e questa volta
furono Legolas e Gimli, insieme ai gemelli di Imladris, a fare la loro
comparsa, proprio mentre Boromir socchiudeva le labbra per mangiare.
«Beh, se questa
non è un’immagine memorabile.» esclamò Gimli, piantandosi i pugni sui fianchi e
sollevando la fronte, con divertimento. «Direi che supera persino il
fanciullino ubriaco.»
Legolas
sorrise, battendogli una mano sulla spalla. «Non fui io a cadere privo di sensi
sul pavimento. Ma non pretendo che te lo ricordi.»
Il viso
colorito di Boromir divenne pallido in un baleno e Brethil non riuscì a frenare
una risata. Era troppo sollevata, troppo contenta e troppo divertita dal suo
imbarazzo per trattenersi. L’Uomo l’ammonì con lo sguardo e borbottò qualcosa
contro il tempismo dei quattro, ringraziando che avesse a disposizione un
cucchiaio e non un coltello da piantargli in fronte; quelli, ovviamente, si
erano richiusi la porta alle spalle e ora lo avevano circondato attorno al
letto.
«Bentornato tra
noi, Capitano.»
«Vedo che thêl si sta prendendo ben cura di te.»
«Come una mamma
col suo bambino, oserei dire, fratello!»
«Sapete.»
esordì Boromir, cercando di ritrovare dignità rizzando la schiena. «Sto quasi
per rimpiangere i miei giorni di incoscienza.»
«Ti conviene
rimetterti in forze al più presto, amico mio.» fece Aragorn, comparendo sul
davanzale della finestra che dava sui giardini. «Perché temo dovrai tagliare un
po’ di lingue, appena si saprà in giro cosa ho visto.»
Il
Sovrintendente si lasciò cadere sui cuscini, mentre una risata stanca e roca
gli rasserenava il viso. «E che la tua sia la prima a cadere, mio Re!»
Aveva dormito poco quella notte.
Se si fosse addormentato in quella situazione, solo qualche
giorno prima, era più che sicuro che avrebbe dormito il sonno più pacifico di
tutta la sua lunga vita. Eppure i continui tremolii di Trán dettati dagli
incubi non gli fecero chiudere occhio. La sentiva sussurrare disperatamente e
muoversi indisposta tra le sue braccia robuste, che non avevano intenzione di
lasciarla andare via; ma neppure il calore rassicurante del suo respiro contro
il viso contrito della Nana avrebbe potuto allontanare il freddo del buio degli
incubi che ora la perseguitavano.
Allora aveva persino deciso di mormorare una ninna nanna,
che soleva cantare ai fratelli quando erano ancora piccoli e spaventati dagli
eventi di Smaug e dalla scomparsa prematura della loro madre; la stessa che
suonava con l’arpa a Fili e Kili per farli addormentare, quando Dís era troppo
stanca per raccontare loro qualche storia. Solo allora Trán pareva rasserenarsi
un poco, sospirando di sollievo e accoccolandosi inconsciamente contro il suo
petto. Ma quando quelle dolci parole terminavano, riportando la stanza
nell’assoluto silenzio, allora le ombre degli incubi tornavano e lei riprendeva
ad agitarsi.
Thorin la osservò per interminabili minuti, ora che il sole
iniziava a sollevarsi sull’orizzonte e i suoi timidi e tiepidi raggi le
illuminavano il volto. Pareva più rilassata, giacché forse la stanchezza
l’aveva finalmente colta in un sonno senza sogni. Le accarezzò lievemente la
linea del naso, sfiorando quelle piccole labbra tentatrici e socchiuse,
studiandola come se fosse l’Archepietra in carne ed ossa e tentando di capire come
potesse essere così bella e vera, lì
tra le sue braccia.
I rumori provenienti dalla cucina, al piano di sotto, gli
suggerirono che qualcuno dovesse già
essere in piedi – e dato il baccano, doveva trattarsi dei nipoti. Da quando lui
e la sua cerchia di amici e lavoratori avevano ripreso le forze, non passavano
che un paio d’ore dopo l’alba prima che andassero a lavorare alacremente per
riparare i danni della battaglia e terminare il lavoro per cui erano giunti da
così lontano. Persino i fratelli della Nana avevano deciso di occuparsi
pienamente delle proprie attività, per scaricare la frustrazione, la rabbia e
il dolore che la perdita del loro padre gli aveva causato.
Quel giorno non era diverso dagli altri, se non fosse per il
fatto che Thorin aveva deciso di portare Trán nel suo alloggio, dato che
Brethil aveva avuto la brillante idea di andarsene in giro per le Case di
Guarigione. Non aveva avuto il cuore di svegliarla per darle la buona novella,
anche se forse avrebbe dovuto farlo; un po’ di luce, in tutto quel buio, non
avrebbe potuto far altro che regalarle un sorriso. Le era parsa troppo stanca e
pallida, per farlo.
Ma era ora giunto il momento di alzarsi e non voleva
lasciarla da sola, in una stanza che non avrebbe riconosciuto subito, appena si
fosse svegliata. Così chinò il viso, baciandola leggermente tra i capelli,
sulla fronte, sulla punta del naso, mentre la chiamava per nome in un sussurro.
La sentì stiracchiarsi, le gambe che accarezzavano le sue mentre si allungavano
intorpidite, e Trán sbatté più volte le palpebre nel dormiveglia, mugugnando
qualche parola di protesta.
«Ancora un altro po’, Káel...»
«Melhekhinh, è
tempo di svegliarsi.» La sentì rabbrividire nel percepire il suo fiato su un
orecchio e fu solo allora che aprì gli occhi. Il sorriso del Nano sparì nel
momento in cui Trán lo osservò a lungo e si rese conto che no, quello non era
suo fratello.
«Brethil... dov’è Brethil?» domandò d’improvviso, mettendosi
a sedere e guardandosi intorno. Nonostante fosse ancora mezzo addormentata,
realizzò più di una cosa, in quel momento: quella non era la stanza dove la
donna riposava e riprendeva le forze, e lei non ricordava di aver abbandonato
il capezzale dell’amica per nessun istante; il corpo che aveva accanto non era
certo quello femminile contro il quale si era addormentata e quando si rese
conto di chi si trattasse, il pallore del suo viso parve scomparire, sostituito
da un rossore imbarazzante.
«Th-Thorin, cosa...»
Il Nano allungò una mano verso il suo volto confuso e la
esortò a sdraiarsi nuovamente. «Brethil sta bene, non devi preoccuparti.»
Trán gli si accoccolò contro, ancora perplessa. «E dove è?
Perché non sono con lei? Ti avevo chiesto di svegliarmi!»
Il Re le asciugò il viso dalle lacrime, che avevano iniziato
a bagnarle le guance senza che se ne accorgesse. «Eri stanca, Trán. E lo sei
ancora, a quanto pare. Ma non volevo lasciarti sola ed è tempo della colazione;
mi accompagneresti o vorresti continuare a dormire?»
«Mi hai... mi hai portata tu qui?»
Thorin annuì. «Non ti ho abbandonata neppure un istante.»
Ponderò a lungo quella risposta, non sapendo se essere
imbarazzata, sollevata o arrabbiata. Anche se, più probabilmente, era tutte e
tre le cose. Deglutì il nodo alla gola per il doloroso ricordo degli incubi e
decise di tranquillizzarsi un poco. Era tra le braccia del suo Re, protettivo e
amorevole come poche volte lo aveva visto, e a quanto pareva Brethil stava
bene.
Ma lei no.
Lei non stava bene.
Anche se tentava di farsi forza, anche se continuava a
convincersi che prima o poi quel vuoto incolmabile si sarebbe affievolito,
sebbene non sarebbe mai scomparso.
«Trán...»
La voce di Thorin la riportò alla realtà, mentre la
stringeva con affetto. L’urgenza di sentire il suo amore, affinché cancellasse
per qualche momento il dolore, si fece così intensa che si rese conto di
baciarlo solo quando lui, colto di sorpresa, iniziò a ricambiare con ardore. La
piacevole sensazione di quelle labbra sulle sue, quella ruvida della barba
contro la sua pelle e il peso di lui che la premette contro il letto la fece
avvampare dello stesso calore che l’aveva colta prima che Fili e Kili li interrompessero,
qualche giorno prima. Per un lungo istante dimenticò persino come si chiamasse,
quando percepì le ruvide dita del Nano accarezzarle la linea dei fianchi. Fu
quando i baci si spostarono sul collo e Trán non riuscì a trattenere un gemito
di piacere, che Thorin tornò con la mente alla realtà e si fermò ad osservarla,
bevendo con lo sguardo le sue palpebre abbassate, le labbra dischiuse e le gote
più rosee del solito.
«Perché–» mormorò la Nana, riaprendo gli occhi, non più
appannati per il sonno ma per qualcosa che aveva a che fare con il tremendo
capogiro che i baci di Thorin le avevano procurato. «–perché ti sei fermato?»
«Perché, Habanuh–»
le sussurrò, prima di accarezzarle il naso con il suo e baciarla lievemente
sulle labbra arrossate e umide. «–rischierei di non fermarmi.»
«Oh.»
Il Nano rise piano, nel constatare per l’ennesima volta la
sua tremenda timidezza. «Inoltre, questo letto non è esattamente quello che
vorrei, per un momento importante come quello.»
Trán ebbe timore di chiedergli “E quale letto sarebbe più appropriato, mio signore, fintanto che ci sei
tu sopra?”, ma Thorin capì ugualmente la sua domanda.
«Il baldacchino dei miei alloggi, ad Erebor, è decisamente
più comodo ed adatto ad un Re e alla sua signora.» le sussurrò in un orecchio,
baciandoglielo e facendola rabbrividire. Aveva le orecchie appuntite dei tanto
detestati Elfi, ma sapere che fossero così
sensibili non faceva che intrigarlo oltre ogni decenza. La baciò un’ultima
volta con lentezza sulle labbra, prima di mettersi a sedere e porgerle una
mano. «Dunque, parlavamo della colazione, se non erro.»
La Nana scosse il capo e trovò la forza di ridacchiare –
cosa per cui lui fu più che sollevato. «Mi sto rendendo conto che hai la
cattiva abitudine di distrarmi.»
«Le mie più profonde scuse, dama Trán. Ma non biasimarmi,
giacché anche io vengo facilmente deconcentrato.»
Si alzò, sgranchendosi le gambe e constatando che quella
ferita non facesse più male come i giorni precedenti. «Preferisci continuare a
riposarti?»
Trán scosse con forza il capo, accettando il braccio che lui
le porse poco dopo. «No, c’è del lavoro da fare e ho poltrito abbastanza,
questi giorni. Passerò a trovare Brethil e poi vi raggiungerò alle forge, dopo
colazione.»
Il Nano ne fu oltremodo felice e la baciò tra i capelli, con
il cuore più leggero. Scesero verso la sala da pranzo e furono accolti dal
profumo di pane fresco, uova e pancetta. Balin offrì loro una tazza di the
fumante e fu felice di vedere l’espressione meno crucciata della Nana. Eppure,
quando Trán incrociò lo sguardo di Káel, rimasto solo insieme a lei e Trión
dopo la partenza degli altri due fratelli, il groppo alla gola tornò a farsi
sentire nuovamente e dovette inspirare con pesantezza per ricacciarlo indietro.
Gli si avvicinò per dargli l’abbraccio del buongiorno e Fili e Kili, che fumavano con lui poco
distanti dal caminetto spento, gli furono addosso, apparentemente gelosi di
quello scambio d’affetto, ma in realtà determinati a far tornare il sorriso
sulle labbra dei loro due amici.
Kili sollevò le sopracciglia nel vedere lo sguardo perplesso
del guerriero tatuato, che aveva fermato un cosciotto di pollo a pochi
centimetri dalla bocca. «Avanti, mastro Dwalin!» fece il minore dei fratelli,
agitando un braccio per invitarlo ad unirsi a loro. «C’è spazio per tutti!»
Quello, d’altronde, sbarrò gli occhi inorridito, come se l’idea
di un abbraccio gli causasse una reazione allergica, e riprese a mangiare,
mentre il fratello ridacchiava sotto i baffi candidi. Thorin prese posto a
capotavola e, guardando la sua famiglia,
per la prima volta dopo giorni ebbe la piacevole sensazione che le cose
sarebbero potute solo migliorare.
Sperò vivamente che non si sbagliasse.
*
E finalmente Boromir ritorna in forze! Sì, beh, più
o meno.
Mi mancavano quei due insieme. Aww
ho tante belle cose in mente, per loro. <3
Vi lascio e vi do appuntamento al più presto
possibile – che non ho idea di quando sia in realtà.
Portate pazienza, vi prego.
Prima o poi prenderò il dannato pezzo di carta, sarò
tristemente disoccupata e avrò tanto tempo per scrivere.
Un abbraccio!
Marta.