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Autore: kenjina    08/02/2014    3 recensioni
- Betulla sequel -
«Vedo che anche oggi ti sei dato da fare. Trascorri più tempo rinchiuso lì dentro, piuttosto che nella Sala del Trono, mio Re.»
Thorin fece una smorfia ironica. «Sai bene quanto non mi piaccia stare con le mani in mano.»
«Ebbene, non sarò certo io a trascinarti lontano dalla fucina tirandoti per un orecchio!» Balin strizzò un occhio, porgendogli una pergamena. «Ma forse c’è qualcuno, là fuori, che avrà il potere di osare ben oltre.»
L’altro si voltò per guardare l’anziano Nano, che aveva ora tutta la sua attenzione. Prese il rotolo di carta ancora chiuso ed osservò con interesse la cera che lo sigillava: era un albero incorniciato da sette stelle, con una corona alata in alto.
Era lo stemma di Gondor.

(tratto dal secondo capitolo)
Genere: Avventura, Guerra, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Boromir, Nuovo personaggio, Thorin Scudodiquercia, Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Foreste di Betulle; giardini di Pietra.'
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E fu così, che dopo l’ennesima settimana passata a smadonnare contro autocad ed affini, trovai il tempo di concludere il capitolo e pubblicarlo.

*applausi*

Scherzi a parte, sto iniziando a sentire la pressione di Aprile che si avvicina.

Dormo da cani, l’ispirazione per il progetto scarseggia e come sempre relatore e correlatore si divertono a cambiare le carte in tavola un giorno sì e l’altro anche.

Ma io resisto. >_<

Nel frattempo, godetevi finalmente il nuovo capitolo! E, ripeto finalmente, sarà più leggero dei precedenti! ;)

Buona lettura e grazie infinite a tutti voi che continuate a seguirmi e che mi dite così tante belle, bellissime parole.

Non me le merito. *//*

Un caro saluto,

Marta.

 

 

Pietra

-  sequel di Betulla -

 

 

 

22.

 

30 Settembre 3019 T. E.

 

C’erano caduti e feriti ovunque.

La sua lhang grondava di sangue e lei faticava a restare in piedi; il dolore al fianco era lancinante, ma doveva trovare le forze di rialzarsi e mantenere la posizione, per difendersi e difendere.

Le mura della Città Bianca parevano infinitamente alte.

Non ricordava che lo fossero così tanto.

Chinò lo sguardo sulla sua divisa, ma non indossava l’uniforme che Aragorn le aveva donato quando l’aveva nominata Prima Guardia del Re. Era nei suoi vecchi abiti grigi da Dúnadan, la spilla argentata che brillava sulla spalla sinistra, e per un momento si chiese se si trovasse davvero a Gondor o se fosse tornata al Nord, sotto le rovine della perduta Annúminas.

La sua attenzione venne catturata immediatamente dall’Albero Bianco ricamato sulla tunica di un soldato e riconobbe Boromir, steso sul terreno. Era immobile, con l’espressione rilassata di chi stava riposando. Ma solo quando gli si chinò accanto, nonostante il fianco che pulsava incessantemente, che si accorse che Boromir non stava affatto dormendo, giacché non respirava più.

Tentò di gridare il suo dolore, di allungare una mano verso l’uomo per riscuoterlo. Ma nessun suono uscì dalla sua gola, né alcun muscolo volle rispondere al suo volere.

Eppure un grido si levò nell’aria. Era terribile e lo conosceva bene.

Il freddo mortale di quel suono stridulo la fece raggelare sul posto e per un attimo credette che anche il suo cuore si fosse fermato dalla paura. Tentò di tapparsi le orecchie, per fuggire a quella tortura, ma la voce riprese a gridare ancora più forte. Pareva che stesse parlando, ma lei si rifiutava di capire cosa stesse dicendo.

Fu solo quando il grido fu così assordante da non poter essere più ignorato, che si rese conto che ciò che udiva non era la voce lacerante di un Nazgûl, ma bensì apparteneva alla solita, vecchia Ioreth.

«Beneamato Eru, mia signora!» sbraitò per l’ennesima volta, finché Brethil aprì finalmente gli occhi appannati, sbattendo più volte le palpebre per mettere a fuoco soffitto in pietra della stanza. «Si può sapere cosa ci fai qui? Non è la tua stanza, se ben ricordo; ed è oltremodo indecoroso trovarti nel letto del Sovrintendente! Suvvia, prendi la tua gruccia e tornatene nella tua camera – e che il Re non mi punisca se ti lego al tuo letto, per una buona volta! Dovrei proprio farlo, giacché ogni volta decidi di andartene a spasso quando ti ho chiaramente vietato di muoverti! Per l’amore dei Valar, neppure quel Nano borioso è riuscito a fermarti? Che il cielo mi aiuti contro la tua testardaggine!»

Brethil si stropicciò il viso, ancora assonnata e rintronata dal sogno inquietante e dal fiume di parole della guaritrice, che non pareva preoccuparsi del suo stato di shock, né tanto meno poteva conoscere le inquietudini che l’avevano spinta in quello stesso letto il giorno prima. Infischiandosene della donna, Brethil si mise a sedere, osservando il volto ora un po’ meno pallido di Boromir. Allungò una mano verso il naso dell’uomo e si rilassò nel rendersi conto che respirasse. Continuava a dormire in quel sonno profondo da cui non sembrava volersi risvegliare e si domandò quanto tempo ancora sarebbe passato prima di potersi perdere nuovamente nei suoi occhi chiari. Le mancava il suono vibrante della sua voce, i suoi rari sorrisi, i loro duelli – verbali e non.

Erano vivi entrambi, ma mai come allora si era sentita così vuota.

«Mia signora.» riprese Ioreth, con un sospiro. «Immagino che sia in pena per il mio signore Boromir, ma anche tu hai bisogno di riposare e non di faticare in giro per le Case di Guarigione. Stai pur certa che sarai la prima persona che avviserò, se il Sovrintendente si dovesse svegliare.»

«Il Sovrintendente si sveglierà.» Rimarcò Brethil, passandosi una mano sulla fronte. «E non mi muoverò da questo letto, neppure se Aragorn stesso me lo ordinasse. Voglio essere presente quando avverrà.»

Le parole di replica della vecchia donna furono interrotte da un paio di nocche che bussarono alla porta e Brethil ringraziò chiunque si nascondesse dietro l’uscio per il suo tempismo. Poco dopo Rainiel l’aprì, rivolgendo un timido sorriso alla sua signora e chinandosi lievemente per un saluto. «Chiedo perdono per il disturbo, ma c’è una visita per te, dama Brethil. Non ti trovavo nella tua stanza e immaginavo saresti stata qui.»

Brethil annuì debolmente, sbirciando oltre le spalle della sua ancella; corrugò la fronte appena si accorse di Ecthirion, che mosse qualche passo dentro la stanza, con le spalle incurvate dalla stanchezza e forse dalla vergogna. Aveva il petto completamente fasciato e la spalla ferita perdeva nuovamente sangue, bagnando le bende candide; era stato accorto, però, ad infilarsi una maglia per nascondere la macchia rossa agli occhi attenti di Ioreth, ben conoscendo la donna e avendo poca voglia di udire le sue paternali – che ovviamente quella non gli risparmiò.

«Varda e Yavanna! Quale parte di dovete riposare non vi è chiara? Nemmeno i miei nipoti, che hanno tutti meno di dieci anni e sono più scalmanati di un branco di cani affamati, è così difficile metterli in riga!»

«Ho un graffio alla spalla, niente che possa impedire alle mie gambe di muoversi, buona donna.» borbottò a denti stretti Ecthirion, che prese una sedia e la posizionò poco distante ai piedi del letto, senza badare ulteriormente alla guaritrice. Scambiò una veloce occhiata con la Dúnadan, che aveva sistemato un cuscino contro la schiena, per sdraiarsi nuovamente e non sforzare troppo il fianco. Nessuno dei due osò parlare, finché Ioreth e Rainiel erano nella stanza. La guaritrice, che controllò sia lo stato di Boromir che quello di Brethil, continuò a mormorare improperi contro le loro teste calde, rimpiangendo i tempi in cui la sua posizione era più rispettata ed autoritaria; se ne andò poco dopo, seguita dall’ancella, che dovette sorbirsi le sue sgridate e le lunghe lamentele – come se lei, poi, potesse impedire ad un guerriero come il Secondo Capitano, o alla sua signora, di rimanere degente in un letto.

Quando la porta fu chiusa alle loro spalle, la stanza cadde in un pacifico e agognato silenzio. Godettero dell’assenza della voce gracchiante della guaritrice per parecchi minuti; il sole era ormai alto e Minas Tirith era nuovamente in pieno fermento per riparare i danni della battaglia. Brethil si domandò come stesse Trán, se fosse in compagnia e con la mente occupata e lontana dai cattivi pensieri. Sperò vivamente che così fosse, anche se sapeva bene che in situazioni come la sua neppure il miglior giullare sulla faccia della terra avrebbe potuto risollevarle il morale.

Ecthirion sospirò pesantemente, riportandola con i piedi sulla realtà. Lo osservò a lungo, rendendosi conto di come invece lui sfuggisse il suo sguardo, ora sul pavimento, ora su Boromir. «Il Re mi ha detto che sia fuori pericolo.»

«È ciò che ha detto anche a me.»

L’uomo inspirò nuovamente, decidendo finalmente di osservarla.

La Sfregiata.

Una donna.

La stessa che aveva umiliato e deriso per mesi, che gli aveva rubato il posto accanto all’Elessar, che lo aveva nascosto nell’ombra.

La stessa donna che gli aveva salvato la vita.

«Come stai, mia signora?»

Brethil attese qualche istante prima di rispondergli. Era evidente che il Secondo Capitano fosse in estremo disagio, ora che la battaglia era conclusa, con tutto ciò che aveva comportato, e i vecchi asti erano tornati a galla. Nessuno dei due avrebbe potuto dimenticare i loro trascorsi, gli insulti e i continui litigi, poiché erano legati da un profondo odio l’uno per l’altra. Eppure Ecthirion sapeva bene che avrebbe dovuto ingoiare il fastidioso nodo alla gola e mettere da parte la vergogna, per ringraziarla a dovere e porgerle delle valide scuse.

«Dovrò stare lontana dall’arena di allenamento per un po’.» borbottò la donna, evidentemente infastidita dalla sua impossibilità di muoversi liberamente. «La tua spalla?»

«Temo che saremo in due ad annoiarci.»

Ricaddero nuovamente nel silenzio imbarazzante di poco prima, poiché Brethil non fece niente per sollevare una discussione, mentre l’uomo tentava di trovare le parole adatte.

Ma infine l’Uomo ci riuscì, con fatica. «Quando il Sovrintendente tornò in città prima della battaglia del Pelennor–» iniziò, inumidendosi le labbra. «–quasi stentai a riconoscerlo. Nonostante fosse concentrato sui suoi doveri, spesso mi pareva con la mente altrove; e quando qualcuno gli chiedeva a cosa stesse pensando, iniziava a parlare della sua Salvezza, di quanto avrebbe voluto averla accanto. E quando confidò di essere stato curato e difeso da una donna, sembrava così sereno eppure tormentato che ebbi paura. Ebbi paura che la tua comparsa, e successivamente la tua presenza, fossero una distrazione, che perdessimo il nostro Capitano nel momento in cui ne avevamo più bisogno.»

Brethil non si rese subito conto di stringere i denti e i pugni finché non iniziarono a dolerle per lo sforzo. Si impose però di rilassare muscoli, decisa ad ascoltarlo fino alla fine con pazienza, come sempre aveva fatto in quell’ultimo periodo di vita.

«In quel momento non m’importava che tu gli avessi salvato la vita. Che senso aveva che fosse ancora sulle sue gambe, se pareva più preoccupato di tenerti a bada, piuttosto che occuparsi della sua gente?» Ecthirion chiuse gli occhi, strizzandoseli con due dita, prima di riaprirli e riprendere a parlare. «E continuavo a chiedermi: cosa può trovare un uomo come lui in una... donna poco femminile come te, senza dote né bellezza? Una donna che maneggia la spada come un uomo, tra l’altro.» Rise, senza divertimento. «La verità è che provai invidia. Una profonda e disgustosa invidia; eri giunta vestita di stracci e avresti presto indossato la divisa della Prima Guardia del Re. Perché tu e non me? Perché tu, una donna che ha avuto la fortuna di crescere con l’erede al trono di Gondor e che non aveva mai veduto Minas Tirith con i propri occhi, e non un uomo che ha servito questo Regno per tutta la vita?»

Brethil chinò il capo. In un certo senso capiva la rabbia e la frustrazione del soldato. Ma sebbene fosse nata nel lontano Nord, era cresciuta con la speranza di trovare la via verso la terra dei suoi antenati, combattendo con Aragorn e con il resto degli esiliati Raminghi. Il servizio che aveva reso a Gondor, sebbene lontano dai suoi confini, la rendeva meno degna di indossare la sua uniforme?

Lei non aveva chiesto niente di tutto ciò che le era stato dato.

Non aveva chiesto di essere nominata Capitano della Guardia Reale.

Non aveva chiesto di innamorarsi del Sovrintendente e di essere ricambiata.

Quali colpe poteva avere, lei, se non quelle di aver compiuto il suo dovere e di essere stata se stessa?

«So cosa stai pensando.» fece Ecthirion, sorridendo tristemente. «Ho creduto che fossi riuscita ad incantare tutti con un passato tormentato, giacché quelle cicatrici non porteranno sicuramente buoni ricordi. Ho creduto che ti fossi abbassata a meri giochi di potere, per raggiungere la tua posizione.» Ecthirion abbassò lo sguardo su un pugno chiuso, sperando di trovare la forza di riuscire a dire ciò che stava per pronunciare. «Ma ora so. Ora capisco

Brethil lo osservò con curiosità, le labbra strette in una linea sottile e gli occhi grigi che lo scrutavano con attenzione.

«Diedi la mia totale fiducia ad un Uomo che non esitò a colpire me e la nostra gente alle spalle, nel peggiore dei modi; e non riuscii a darla a te. Ma capii chi tu fossi realmente quando udii il tuo discorso all’esercito, prima della partenza verso l’Harad. Lo capii quando ti vidi tornare per difendere le mura di questa città. Ti ho veduta combattere e... e salvarmi la vita, quando eri ferita.»

«Se non fosse stato per te, non sarei qui, ora.» fece Brethil, parlando per la prima volta dopo tanto. «Ci siamo salvati a vicenda, se la memoria non m’inganna.»

Ecthirion annuì. «E devo ammetterlo, sono in pace per averlo fatto.»

«Lo sono anche io.»

L’uomo rimase in silenzio, osservando il volto rilassato del Sovrintendente. Non sarebbe riuscito a chiederle perdono per il suo comportamento passato, giacché lo aveva fatto in un momento di dolore e gioia alla fine della battaglia. D’altro canto, non vi era bisogno di farlo a voce alta. Quel lungo discorso fu sufficiente per Brethil. Non sarebbero mai stati amici, di quello erano certi entrambi. Ma per il momento avevano firmato una tregua e la donna sperò che durasse più di qualche giorno, ora che gli aveva dimostrato di essersi meritata la carica che ricopriva. Era sinceramente stanca di dover subire i suoi insulti.

Ecthirion si schiarì la gola e si alzò con lentezza, nascondendo abilmente una smorfia di dolore per una forte fitta alla spalla. «Sarà meglio che ora vada a farmi cambiare le bende.»

«Non sentirai la fine della predica Ioreth, altrimenti.» annuì lei. «Scusami se non mi alzo.»

«Conosco la via d’uscita.» Si fermò con la mano sul pomello della porta, senza voltarsi. «Prenditi cura di lui. E... per favore, avvertimi se dovesse risvegliarsi.»

Con un cenno del capo, Brethil lo osservò sparire dalla stanza e si rilassò nuovamente contro i cuscini. Ma non ebbe il tempo di rimuginare troppo sulla discussione che avevano appena intrapreso, perché una voce roca eppure tremendamente familiare le fece voltare il viso verso il corpo steso sul letto accanto al suo, e lo fece con così tanta veemenza da farsi venire un crampo al collo. Non seppe dire se le lacrime che le pizzicarono gli occhi furono di sollievo o di dolore.

«Un bel... discorso, direi.»

Brethil scoppiò a ridere di felicità, vedendo gli occhi chiari del suo Sovrintendente aprirsi con debolezza e sorriderle. Dimenticando la ferita in via di guarigione, gli si strinse contro, baciandolo ripetutamente su una guancia ispida, mentre le lacrime e le sue risate gli solleticavano la pelle.

«Non farlo mai più.» gli ordinò in un sussurro, nascondendo il viso sull’incavo del collo e inspirandone il profumo. «Non farlo mai più, Boromir. Ho temuto che–»

«Sono qui.» l’interruppe lui, cercando di muovere un braccio per accarezzarle il volto sfregiato. «Sono qui, ora.»

«Sì, sei qui.» ripeté Brethil più volte, come se servisse a convincersi che fosse davvero lì, con lei, lontano dal pericolo. Si sciolse come neve al sole nel sentire i polpastrelli ruvidi dell’uomo sfiorarle la pelle del viso e gli strinse la mano nella sua, mentre lui piegava il capo di lato per osservarla e tentare di metterla a fuoco. Era ancora privo delle minime forze, ma aveva bisogno di vederla e guardarla, dopo tutto quel tempo interminabile di lontananza. Ed eccoli lì, dopo numerose strizzate di palpebre, quegli occhi grigi e profondi che sembravano leggerlo come un libro aperto; quelle cicatrici orribili che le deturpavano il bel viso e il suo sorriso... oh, quel sorriso non lo avrebbe dimenticato tanto facilmente, dopo quel giorno. Poiché Brethil sorrideva raramente e quello fu il più bel regalo di bentornato che potesse fargli.

Stava per allungare il collo e catturare le sue labbra in un leggero bacio, quando lei si sollevò su un avambraccio e lo osservò con preoccupazione. «Sei a digiuno da giorni interi; te la senti di mangiare qualcosa? Ioreth ha portato del cibo, poco fa. Sarai disidratato, lascia che ti aiuti.»

Boromir fu quasi sommerso da tutte quelle parole e non poté esimersi dal sogghignare. Gli tornarono in mente quei lenti giorni trascorsi sui colli di Amon Hen, quando lei si prendeva cura delle sue ferite e lo riportava gradualmente in forze. Ma quando la vide muoversi con fatica, con una mano premuta sul fianco, il sorriso gli si spense sul volto. «Sei ferita.»

«Non è niente di grave.» borbottò lei, tentando di mettersi a sedere per poi raggiungere il vassoio che Ioreth aveva lasciato poco prima sulla cassapanca.

«Brethil, non dovresti muoverti.» Glielo disse in un sussurro roco, poiché la gola era arsa dopo così tanto tempo in silenzio e con pochi liquidi in corpo; ma alle orecchie della donna suonò come un ordine improrogabile e gli lanciò un’occhiataccia.

«Hai bisogno di bere, Boromir, e di mettere qualcosa nello stomaco. Non sei morto dissanguato e non ti lascerò certamente morire di stenti.» replicò, afferrando la gruccia e avvicinandosi al cibo. «Ho già la vecchia cornacchia alle calcagna, non ho bisogno anche di te.»

Non ci fu bisogno di spiegazioni, perché l’uomo capì perfettamente a chi si stesse riferendo. Tentò di mettersi a sedere e ci riuscì con difficoltà, ma solo grazie alla sua ostinatezza e non certo ai suoi muscoli addormentati. Non ricordava come si fosse ridotto in quelle condizioni, ma doveva essere sicuramente qualcosa di spiacevole e non certo a causa di una pesante sbronza. Accettò senza ulteriori lamentele il bicchiere d’acqua che Brethil gli fece bere e dovette calmare la sua sete pur di non finirla in un unico sorso.

«Cosa ti è accaduto?» le domandò, mentre la osservava riempire nuovamente la coppa.

«È stato un Haradrim più alto ed imponente di te, che ora è felicemente cenere nell’aria.» lo aiutò a bere qualche altro sorso, per poi dedicarsi alla zuppa ormai tiepida e a qualche pezzo di pane fresco.

L’ostinatezza di Boromir, che gli gridava di non lasciarsi imboccare come un bambino, lo portò ad afferrare il cucchiaio in legno dalla presa della donna; ma la mano gli tremava troppo e grugnì di disappunto.

Brethil sorrise, baciandogli la punta del naso. «Nessuno lo verrà a sapere; te lo prometto.»

Quasi non fece in tempo a finire la frase, che la porta si spalancò di nuovo e questa volta furono Legolas e Gimli, insieme ai gemelli di Imladris, a fare la loro comparsa, proprio mentre Boromir socchiudeva le labbra per mangiare.

«Beh, se questa non è un’immagine memorabile.» esclamò Gimli, piantandosi i pugni sui fianchi e sollevando la fronte, con divertimento. «Direi che supera persino il fanciullino ubriaco.»

Legolas sorrise, battendogli una mano sulla spalla. «Non fui io a cadere privo di sensi sul pavimento. Ma non pretendo che te lo ricordi.»

Il viso colorito di Boromir divenne pallido in un baleno e Brethil non riuscì a frenare una risata. Era troppo sollevata, troppo contenta e troppo divertita dal suo imbarazzo per trattenersi. L’Uomo l’ammonì con lo sguardo e borbottò qualcosa contro il tempismo dei quattro, ringraziando che avesse a disposizione un cucchiaio e non un coltello da piantargli in fronte; quelli, ovviamente, si erano richiusi la porta alle spalle e ora lo avevano circondato attorno al letto.

«Bentornato tra noi, Capitano.»

«Vedo che thêl si sta prendendo ben cura di te.»

«Come una mamma col suo bambino, oserei dire, fratello!»

«Sapete.» esordì Boromir, cercando di ritrovare dignità rizzando la schiena. «Sto quasi per rimpiangere i miei giorni di incoscienza.»

«Ti conviene rimetterti in forze al più presto, amico mio.» fece Aragorn, comparendo sul davanzale della finestra che dava sui giardini. «Perché temo dovrai tagliare un po’ di lingue, appena si saprà in giro cosa ho visto.»

Il Sovrintendente si lasciò cadere sui cuscini, mentre una risata stanca e roca gli rasserenava il viso. «E che la tua sia la prima a cadere, mio Re!»

 

 

 

Aveva dormito poco quella notte.

Se si fosse addormentato in quella situazione, solo qualche giorno prima, era più che sicuro che avrebbe dormito il sonno più pacifico di tutta la sua lunga vita. Eppure i continui tremolii di Trán dettati dagli incubi non gli fecero chiudere occhio. La sentiva sussurrare disperatamente e muoversi indisposta tra le sue braccia robuste, che non avevano intenzione di lasciarla andare via; ma neppure il calore rassicurante del suo respiro contro il viso contrito della Nana avrebbe potuto allontanare il freddo del buio degli incubi che ora la perseguitavano.

Allora aveva persino deciso di mormorare una ninna nanna, che soleva cantare ai fratelli quando erano ancora piccoli e spaventati dagli eventi di Smaug e dalla scomparsa prematura della loro madre; la stessa che suonava con l’arpa a Fili e Kili per farli addormentare, quando Dís era troppo stanca per raccontare loro qualche storia. Solo allora Trán pareva rasserenarsi un poco, sospirando di sollievo e accoccolandosi inconsciamente contro il suo petto. Ma quando quelle dolci parole terminavano, riportando la stanza nell’assoluto silenzio, allora le ombre degli incubi tornavano e lei riprendeva ad agitarsi.

Thorin la osservò per interminabili minuti, ora che il sole iniziava a sollevarsi sull’orizzonte e i suoi timidi e tiepidi raggi le illuminavano il volto. Pareva più rilassata, giacché forse la stanchezza l’aveva finalmente colta in un sonno senza sogni. Le accarezzò lievemente la linea del naso, sfiorando quelle piccole labbra tentatrici e socchiuse, studiandola come se fosse l’Archepietra in carne ed ossa e tentando di capire come potesse essere così bella e vera, lì tra le sue braccia.

I rumori provenienti dalla cucina, al piano di sotto, gli suggerirono che qualcuno  dovesse già essere in piedi – e dato il baccano, doveva trattarsi dei nipoti. Da quando lui e la sua cerchia di amici e lavoratori avevano ripreso le forze, non passavano che un paio d’ore dopo l’alba prima che andassero a lavorare alacremente per riparare i danni della battaglia e terminare il lavoro per cui erano giunti da così lontano. Persino i fratelli della Nana avevano deciso di occuparsi pienamente delle proprie attività, per scaricare la frustrazione, la rabbia e il dolore che la perdita del loro padre gli aveva causato.

Quel giorno non era diverso dagli altri, se non fosse per il fatto che Thorin aveva deciso di portare Trán nel suo alloggio, dato che Brethil aveva avuto la brillante idea di andarsene in giro per le Case di Guarigione. Non aveva avuto il cuore di svegliarla per darle la buona novella, anche se forse avrebbe dovuto farlo; un po’ di luce, in tutto quel buio, non avrebbe potuto far altro che regalarle un sorriso. Le era parsa troppo stanca e pallida, per farlo.

Ma era ora giunto il momento di alzarsi e non voleva lasciarla da sola, in una stanza che non avrebbe riconosciuto subito, appena si fosse svegliata. Così chinò il viso, baciandola leggermente tra i capelli, sulla fronte, sulla punta del naso, mentre la chiamava per nome in un sussurro. La sentì stiracchiarsi, le gambe che accarezzavano le sue mentre si allungavano intorpidite, e Trán sbatté più volte le palpebre nel dormiveglia, mugugnando qualche parola di protesta.

«Ancora un altro po’, Káel...»

«Melhekhinh, è tempo di svegliarsi.» La sentì rabbrividire nel percepire il suo fiato su un orecchio e fu solo allora che aprì gli occhi. Il sorriso del Nano sparì nel momento in cui Trán lo osservò a lungo e si rese conto che no, quello non era suo fratello.

«Brethil... dov’è Brethil?» domandò d’improvviso, mettendosi a sedere e guardandosi intorno. Nonostante fosse ancora mezzo addormentata, realizzò più di una cosa, in quel momento: quella non era la stanza dove la donna riposava e riprendeva le forze, e lei non ricordava di aver abbandonato il capezzale dell’amica per nessun istante; il corpo che aveva accanto non era certo quello femminile contro il quale si era addormentata e quando si rese conto di chi si trattasse, il pallore del suo viso parve scomparire, sostituito da un rossore imbarazzante.

«Th-Thorin, cosa...»

Il Nano allungò una mano verso il suo volto confuso e la esortò a sdraiarsi nuovamente. «Brethil sta bene, non devi preoccuparti.»

Trán gli si accoccolò contro, ancora perplessa. «E dove è? Perché non sono con lei? Ti avevo chiesto di svegliarmi!»

Il Re le asciugò il viso dalle lacrime, che avevano iniziato a bagnarle le guance senza che se ne accorgesse. «Eri stanca, Trán. E lo sei ancora, a quanto pare. Ma non volevo lasciarti sola ed è tempo della colazione; mi accompagneresti o vorresti continuare a dormire?»

«Mi hai... mi hai portata tu qui?»

Thorin annuì. «Non ti ho abbandonata neppure un istante.»

Ponderò a lungo quella risposta, non sapendo se essere imbarazzata, sollevata o arrabbiata. Anche se, più probabilmente, era tutte e tre le cose. Deglutì il nodo alla gola per il doloroso ricordo degli incubi e decise di tranquillizzarsi un poco. Era tra le braccia del suo Re, protettivo e amorevole come poche volte lo aveva visto, e a quanto pareva Brethil stava bene.

Ma lei no.

Lei non stava bene.

Anche se tentava di farsi forza, anche se continuava a convincersi che prima o poi quel vuoto incolmabile si sarebbe affievolito, sebbene non sarebbe mai scomparso.

«Trán...»

La voce di Thorin la riportò alla realtà, mentre la stringeva con affetto. L’urgenza di sentire il suo amore, affinché cancellasse per qualche momento il dolore, si fece così intensa che si rese conto di baciarlo solo quando lui, colto di sorpresa, iniziò a ricambiare con ardore. La piacevole sensazione di quelle labbra sulle sue, quella ruvida della barba contro la sua pelle e il peso di lui che la premette contro il letto la fece avvampare dello stesso calore che l’aveva colta prima che Fili e Kili li interrompessero, qualche giorno prima. Per un lungo istante dimenticò persino come si chiamasse, quando percepì le ruvide dita del Nano accarezzarle la linea dei fianchi. Fu quando i baci si spostarono sul collo e Trán non riuscì a trattenere un gemito di piacere, che Thorin tornò con la mente alla realtà e si fermò ad osservarla, bevendo con lo sguardo le sue palpebre abbassate, le labbra dischiuse e le gote più rosee del solito.

«Perché–» mormorò la Nana, riaprendo gli occhi, non più appannati per il sonno ma per qualcosa che aveva a che fare con il tremendo capogiro che i baci di Thorin le avevano procurato. «–perché ti sei fermato?»

«Perché, Habanuh–» le sussurrò, prima di accarezzarle il naso con il suo e baciarla lievemente sulle labbra arrossate e umide. «–rischierei di non fermarmi.»

«Oh.»

Il Nano rise piano, nel constatare per l’ennesima volta la sua tremenda timidezza. «Inoltre, questo letto non è esattamente quello che vorrei, per un momento importante come quello

Trán ebbe timore di chiedergli “E quale letto sarebbe più appropriato, mio signore, fintanto che ci sei tu sopra?”, ma Thorin capì ugualmente la sua domanda.

«Il baldacchino dei miei alloggi, ad Erebor, è decisamente più comodo ed adatto ad un Re e alla sua signora.» le sussurrò in un orecchio, baciandoglielo e facendola rabbrividire. Aveva le orecchie appuntite dei tanto detestati Elfi, ma sapere che fossero così sensibili non faceva che intrigarlo oltre ogni decenza. La baciò un’ultima volta con lentezza sulle labbra, prima di mettersi a sedere e porgerle una mano. «Dunque, parlavamo della colazione, se non erro.»

La Nana scosse il capo e trovò la forza di ridacchiare – cosa per cui lui fu più che sollevato. «Mi sto rendendo conto che hai la cattiva abitudine di distrarmi.»

«Le mie più profonde scuse, dama Trán. Ma non biasimarmi, giacché anche io vengo facilmente deconcentrato.»

Si alzò, sgranchendosi le gambe e constatando che quella ferita non facesse più male come i giorni precedenti. «Preferisci continuare a riposarti?»

Trán scosse con forza il capo, accettando il braccio che lui le porse poco dopo. «No, c’è del lavoro da fare e ho poltrito abbastanza, questi giorni. Passerò a trovare Brethil e poi vi raggiungerò alle forge, dopo colazione.»

Il Nano ne fu oltremodo felice e la baciò tra i capelli, con il cuore più leggero. Scesero verso la sala da pranzo e furono accolti dal profumo di pane fresco, uova e pancetta. Balin offrì loro una tazza di the fumante e fu felice di vedere l’espressione meno crucciata della Nana. Eppure, quando Trán incrociò lo sguardo di Káel, rimasto solo insieme a lei e Trión dopo la partenza degli altri due fratelli, il groppo alla gola tornò a farsi sentire nuovamente e dovette inspirare con pesantezza per ricacciarlo indietro. Gli si avvicinò per dargli l’abbraccio del buongiorno  e Fili e Kili, che fumavano con lui poco distanti dal caminetto spento, gli furono addosso, apparentemente gelosi di quello scambio d’affetto, ma in realtà determinati a far tornare il sorriso sulle labbra dei loro due amici.

Kili sollevò le sopracciglia nel vedere lo sguardo perplesso del guerriero tatuato, che aveva fermato un cosciotto di pollo a pochi centimetri dalla bocca. «Avanti, mastro Dwalin!» fece il minore dei fratelli, agitando un braccio per invitarlo ad unirsi a loro. «C’è spazio per tutti!»

Quello, d’altronde, sbarrò gli occhi inorridito, come se l’idea di un abbraccio gli causasse una reazione allergica, e riprese a mangiare, mentre il fratello ridacchiava sotto i baffi candidi. Thorin prese posto a capotavola e, guardando la sua famiglia, per la prima volta dopo giorni ebbe la piacevole sensazione che le cose sarebbero potute solo migliorare.

Sperò vivamente che non si sbagliasse.

 

 

 

*

 

E finalmente Boromir ritorna in forze! Sì, beh, più o meno.

Mi mancavano quei due insieme. Aww ho tante belle cose in mente, per loro. <3

Vi lascio e vi do appuntamento al più presto possibile – che non ho idea di quando sia in realtà.

Portate pazienza, vi prego.

Prima o poi prenderò il dannato pezzo di carta, sarò tristemente disoccupata e avrò tanto tempo per scrivere.

Un abbraccio!

Marta.

 

   
 
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