“A thousand years, a
thousand more,
A thousand times, a million doors to eternity.
I may have lived a thousand lives, a thousand
times,
An endless turning stairway climbs to a tower
of souls.
If it takes another thousand years, a thousand
wars,
The tower rises to numberless floors in space.
I could shed another million of tears, a
million breaths,
A million names but only one truth to face.
I could
speak a million of lies, a million
songs,
A million rights, a million wrongs in this
balance of time.
But if there was a single truth, a single
light,
A single thought, a singular touch of grace,
Then following this single point, this single
flame,
This single haunted memory of your face…
I still
love you.
I still want you.
A thousand times the mysteries unfold
themselves
Like galaxies in my head.
I’ve kept this single faith, I have but one
belief.
I still
love you.
I still want you.
On and on the mysteries unwind themselves,
Eternities still unsaid
‘till you love me.”
Sting, “A
thousand years”
I will not lose
Non conosce la persona che lo saluta,
portando la mano alla
tempia con uno scatto veloce.
Non riconosce quello sguardo severo e
inespressivo, fisso su
un punto ben preciso del muro, attento a non incrociarsi con i suoi
occhi neri.
Non ha idea di chi sia quella ragazza
dai capelli corti che
muove appena un piede verso sinistra, quando le ordina il riposo.
Sa solo che …. anni sono
passati, anni che sono sembrati
secoli, secoli trasmutati in millenni senza fine, ad aspettare che
quell’incontro avesse luogo.
Ma quella non è la persona
che ha tanto atteso di ritrovarsi
davanti.
Quella non è Riza.
Le somiglia, certo: gli stessi
capelli biondi, gli stessi
occhi color del miele, le stesse mani dalle dita sottili e pallide, lo
stesso
fare rigido e formale.
Ma mentre la sua ragione enuncia la
soluzione di quel
problema – Riza Hawkeye, la figlia del tuo maestro, la tua
unica amica,
l’amante di quei giorni selvaggi – una parte di
sé urla, grida fino ad
assordarlo che non è lei, non può essere lei, non
sarà mai uguale a lei, lei
con
i suoi sorrisi discreti, le sue mani da pianista tra i tuoi capelli,
lei che ti
ha abbracciato e ti ha lasciato piangere sul suo grembo, lei che
sussultava
quando sfioravi con le labbra la sua nuca.
“Dopo quello che hai
passato a Ishvar… alla fine hai scelto
comunque questo cammino.”
“L’ho deciso da
sola. Ho indossato di nuovo la divisa di mia
spontanea volontà.”
C’è qualcosa di
tagliente e freddo e terribilmente crudele
in ciò che ha appena detto. Qualcosa che Roy non riesce ad
afferrare, ma che
gli gela il sangue nelle vene e il braccio a mezz’aria
– la mano bloccata,
congelata a metà strada, una carezza che muore nel suo
palmo, si accartoccia su
se stessa con un cigolio sinistro.
“Qual è il tuo
campo di esperienza?”
“Armi da fuoco. Sono
migliori delle armi bianche, perché non
lasciano la sensazione di stare uccidendo una persona con le proprie
mani.”
E’
lei, si arrende
l’emisfero sinistro del suo cervello, è
lei, è sempre lei. La ragazzina, la bambina che si
auto inganna per non
crollare, quella che si racconta da sola le fiabe che non ha mai
ascoltato e si
sforza di credervi, si aggrappa con tutte le sue forze ad una bugia, ad
una menzogna
creata dalle sue stesse mani.
“E’ una
falsità.”
Mette tutto il suo rancore in quella
parola. Vuole solo
farle male, più di quanto non sia già riuscito a
fare, ferirla come recidere il
loro legame ha ferito se stesso, nel profondo, in un punto del petto
che
credeva ormai vuoto, avvizzito, bruciato da tempo.
“Così hai
intenzione di continuare ad ingannare te stessa, e
sporcarti le mani in questo modo?”
Il suo sì
lo
prende di sorpresa.
“Noi soldato dobbiamo
essere gli unici a sporcarci le mani e
a versare il nostro sangue.”
Il silenzio è innaturale
nell’ufficio semivuoto, un silenzio
simile a quello che li ha avvolti alla loro separazione, un silenzio a
cui
entrambi non si sono ancora abituati. E forse non vi riusciranno mai.
“Se il mondo procede con lo
scambio equivalente, come dite
voi alchimisti…”
La vede abbassare il capo, solo
lievemente, ma i suoi occhi
sono ora in ombra, nascosti dalla striscia scura che taglia
l’aria davanti alla
sua scrivania, che spezza la figura esile davanti a sé in
due.
“Se così fosse
davvero, per permettere alle nuove
generazioni di non conoscere mai la crudeltà della guerra,
noi dobbiamo pagare
il costo di quella felicità, trasportando i nostri morti e
camminando in un
fiume di sangue.”
Solo allora lui la guarda. La
osserva, scruta attraverso la
sua persona, lascia da parte lo sguardo adorante da animale ferito, gli
occhi
neri fissi, non offuscati dal velo roseo che un sentimento antico aveva
messo
loro davanti – un velo perduto o forse solo ripiegato con
cura, nascosto tra le
costole, nella sinistra del suo petto.
Chiude gli occhi, ma la sua figura
dritta rimane incisa
dietro le sue palpebre serrate, filtra con prepotenza come il raggio di
luce
troppo forte che entra dalla finestra.
Scambio equivalente.
Non c’è nulla di
equivalente nel trovare un soldato fedele e
perdere Riza.
Gli scambi del mondo non sono mai
stati equivalenti, e mai
lo saranno. Questa è l’unica Verità che
ha finalmente compreso.
“Penso che ti
proporrò come mia assistente.”
Alzandosi, appoggia le mani al bordo
di mogano della
scrivania, come se la stanchezza, il dolore, l’amarezza di
quella disillusione
fossero ormai troppo pesanti da portare.
“Voglio che tu mi copra le
spalle. Capisci cosa significa?
Affidarti la mia vita vuol dire che potrai spararmi in qualunque
momento.”
Non vuole che Ishvar si ripeta. Non
vuole che lei ripeta lo
stesso errore, la stessa indulgenza inopportuna, lo stessa
pietà un’altra
fatale volta.
Si assicura di avere i suoi occhi
ambrati fissi nei suoi
prima di continuare.
“Se esco dal sentiero,
spara e uccidimi con le tue mani.”
Non vuole seconde
possibilità, assaggi di qualcosa che non
potrà mai avere, se il suo progetto non potrà
essere raggiunto, se lui stesso
tradirà l’obiettivo che si è prefissato.
“Mi seguirai?”
Non sente la sua risposta, non ne ha
bisogno, la conosce a
memoria.
Mentre la guarda dargli le spalle per
uscire dall’ufficio
austero, un vecchio impulso gli impone di appoggiare il suo palmo sulla
sua
nuca, arrotolare tra le dita le ciocche sottili che frammentano la
pelle chiara
del suo collo, appoggiare un bacio sul suo capo.
Non permette a se stesso il lusso di
continuare una delle
fantasie che lo hanno accompagnato per così tanto tempo.
“Ti voglio.”
Può vedere lo stupore
scivolare lungo la sua spina dorsale,
immaginare l’espressione solo fintamente neutra che le invade
i lineamenti del
viso. Può sentirla urlare, la Riza
che non ha ancora rivisto, quella che la persona davanti
a sé ha così gelosamente tenuto nascosta durante
l’intero colloquio.
“Voglio avere te, non solo
una parte di te. “
Non può toccarla, non
può permettere che avvenga un
contatto, non ancora. Non sa se potrà sopportarlo.
“Sto lavorando per un
futuro in cui questo sia possibile…”
Nelle sue spalle esili che si
voltano, nella sua bocca
impercettibilmente incurvata, nelle sue mani che stringono il tessuto
della
divisa con nervosismo, ritrova finalmente Riza.
E i suoi occhi dicono che nemmeno lei
ha dimenticato, né
dimenticherà mai, quelle parole scritte sulla sabbia.
Anche se dovessero rimanere
pronunciate solo dal vento, per
altri mille anni.
“Mille
anni, mille
ancora,
mille volte, milioni
di porte all’eternità
Potrei aver vissuto
mille vite, mille volte.
Un’infinita scala a
chiocciola scala una torre di anime.
Se passeranno altri
mille anni, mille guerre,
la torre crescerà su
innumerabili piani nello spazio.
Potrei versare un
altro milione di lacrime, un milione di respiri,
un milione di nomi ma
solo una verità da affrontare.
Potrei
pronunciare un
milione di bugie, un milione di canzoni,
un milione di cose
giuste, un milione di errori in equilibrio sul tempo.
Ma c’è un’unica
verità, un’unica luce,
un unico pensiero, un
unico tocco di grazia.
E seguendo quest’unico
punto, quest’unica fiamma,
questa singola
infestante memoria del tuo viso…
Ti
amo ancora.
Ti voglio ancora.
Mille volte i misteri
dell’universo si piegano su se stessi
Come galassie nella
mia testa
Ho conservato
quest’unica fede, non ho che questo credo…
Ti
amo ancora.
Ti voglio ancora.
Ancora e ancora i
misteri dell’universo si intrecciano tra loro,
eternità ancora non
dette/pronunciate
finché tu mi amerai.”
Chiedo scusa
per la
canzone-citazione lunghissima, ma è una canzone stupenda che
ha contribuito
veramente tanto a ispirarmi mentre scrivevo questo capitolo
finale-o-quasi.
Sì,
ne manca ancora
uno, l’epilogo, diciamo. Il momento in cui mi
sentirò un po’ più vuota e un
po’
più piena è solo rinviato.
Ma non ho
avuto cuore
di fare anche il finale in depression/ishvar-mode (sarebbe stato
troppo: dai,
un minimo di speranza bisogna pure che ci sia, no?).
Volevo solo
dire che
questa raccolta per me è stata molto importante, vi ho messo
tutto il mio
impegno, quasi quanto nei 100 themes.
L’argomento
non è
stato dei più facili, e più di una volta ho
rimpianto i cari capitoli leggeri,
quelli comici, le scenette-parodia, le gag della vita
d’ufficio…. Eh, altre
raccolte non so (anche se qualche storia sconnessa
c’è nel mio pc o nel mio
cervellino… e c’è ancora quel Rain in
sospeso… ^^”). Ma penso proprio che
durante l’estate verranno fuori fior fior di idee.
Perché
mi sono resa
conto che smettere di scrivere Royai (almeno per me) è
un’utopia.
P.S: Dunque, le traduzioni degli
ultimi titoli sono "Camminare su un filo" e "Cadere", mentre questo
è "Non perderò"
Bon, a
domani per
l’epilogo!
Grazie mille
per tutte
le recensioni (calo o non calo, siete sempre meravigliose e –
troppo –
gentili).
Bacione, a
domani!
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