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Cap 4 –
Nel retro
del negozio c’era un androne scuro, eternamente in penombra a
causa della totale mancanza di finestre, senza contare un piccolo
loculo in cima alla parete sul lato destro dell’entrata, dove
però non battevano mai i raggi del sole.
Non era
molto spazioso, poco più grande di un ripostiglio, lungo e
stretto, cui si affacciavano due soglie: una era un portone massiccio e
blindato che nascondeva l’ampia e sempre fornita cella
frigorifera; l’altra una porta sottile che dava sulla cucina,
una sala non troppo grande, sempre pulita nonostante il continuo viavai
di personale e le infornate continue. Era così colma di
macchinari che difficilmente un unico pasticcere ne conosceva
l’uso di tutte, con l’unica eccezione del
proprietario ojiisan, forse. Il vecchietto aveva il difetto di fare lo
spaccone e non sempre bisognava credere alle sue parole.
Oltre ad
esse vi era anche una scala, seminascosta nel buio, che discendeva nel
sotterraneo, dove finalmente si accedeva alla vera e propria sede
dell’organizzazione per lo studio e la soppressione delle
entità spiritiche.
Appariva
come se si trattasse di una base segreta governativa, o per lo meno
l’aveva pensata cosi ojiisan, quando ne aveva ampliato in
gran segreto il bunker nucleare che gli avevano venduto insieme al
negozio, ora esteso quasi quanto lo stesso viale Yomi. Aveva creato,
grazie anche il sostegno dei propri vecchi amici (la cui somma dei
capitali in loro possesso avrebbero potuto sostenere le spese
dell’intera popolazione nipponica), un insieme di uffici e
laboratori all’avanguardia, pieno di ogni ben di dio
elettronico che un nerd avrebbe potuto desiderare, con lo spazio che
sarebbero bastato per più di un centinaio di persone.
Una
superficie esagerata per i soli venticinque dipendenti reali.
Dalla
distruzione della vecchia sede e lo sterminio delle più
grandi famiglie - i capostipiti che avevano gettato le fondamenta
(quasi cinquecento anni prima), dell’organizzazione -,
neppure lo 0,01% del loro antico potere e fama erano ancora stati
ripristinati, nonostante i contatti non gli mancassero.
Un tempo
più simile ad una setta di maghi, sacerdoti ed esorcisti,
con l’avvento dell’età moderna,
l’associazione si era tramuta una vera e propria
società, del tutto identica ad un’azienda,
composta però da individui non proprio comuni, talvolta
persino provvisti di capacità extrasensoriali.
Nella
loro Era di massimo sviluppo non era raro che fossero contattati dal
governo e da ricchi privati. Chiamati in gran segreto, non potevano
lasciar trapelare nulla sulla loro vera identità a sui
lavori che venivano loro affidati. Normalmente erano convocati quando
tutto il resto non funzionava, erano l’ultima guardia prima
della disperazione.
Adesso
molte cose erano cambiate, le potenzialità si erano ridotte
all’osso, cosi come la clientela, erano arrivati a svolgere
lavori in realtà più adatti ad una qualsiasi
società di tuttofare. Gli impieghi che accettavano erano
divenuti assai variabili, giacché quando erano chiamati per
degli incarichi legati all’ambito soprannaturale, si
rivelavano semplici bufale, e nulla avevano a che fare con avvenimenti
spiritici veri e proprio.
Alle
volte, quasi sempre a dire il vero, se la settimana si rivelava
particolarmente magra, i dipendenti potevano anche ritrovarsi a
svolgere i lavori più disparati. A seconda di cosa chiedesse
il cliente potevano a diventare: degli addetti ai traslochi, tecnici
dei computer, insegnati privati, supplenti, pescatori, sarti,
disinfestatori, allenatori di squadre di basket e idraulici.
Avevano
un estremo bisogno di denaro se non volevano chiudere, visto il momento
di crisi globale in cui si trovavano. Anche se, il motivo principale
per cui avevano bisogno di liquidi era a causa del grande capo ojiisan,
il quale aveva messo un veto sui guadagni della “facoltosa e rinomata
pasticceria Rinny’s”; affermava che
l’organizzazione avrebbe dovuto rimettersi in piedi con le
sue sole forze se erano realmente decisi a farla risorgere, senza dover
sfruttare i guadagni della struttura di copertura.
Tutti i
dipendenti erano però a conoscenza della realtà
dei fatti: il vecchio aveva tagliato i fondi per potersi assicurare una
piccola fortuna per la pensione, e non era una preoccupazione da poco
visti i suoi 76 anni d’età.
Le
lampade da soffitto, poste ad una distanza di circa sei metri
l’una all’altra, si accesero ad intermittenza prima
di stabilizzarsi e illuminare di una soffusa luce giallognola le pareti
dalle tinte chiare. Non appena scese le lunghe scale che dalla
pasticceria portavano sin nell’entroterra, nel punto
più profondo della base (ovviamente sorvegliate da delle
telecamere nascoste), si accedeva subito al corridoio principale.
Sembrava non vi fosse nessuno a preoccuparsi
dell’incolumità del posto, ma un sofisticato
sistema di sicurezza era impostato per far scattare delle porte
blindate, calate da delle larghe fessure sul soffitto, non appena uno
sconosciuto, non riconosciuto dal sistema, avesse messo piede nella
sede.
Se un
non-addetto, essere umano o non che fosse (le porte blindate erano per
l’80% composte d’argento, velenoso per un qualsiasi
essere non prettamente vivo o di natura magica), avesse provato ad
accedere, si sarebbe trovato subito imprigionato in un gabbiotto
claustrofobico, senza alcuna via di fuga in attesa di qualcuno che lo
facesse uscire.
Kagami e
Aomine non dovevano però preoccuparsi del sistema di
sicurezza, nonostante non si presentassero al part-time da almeno due
settimane, nessuno dei due aveva ancora dato formalmente le dimissioni.
Nel caso di Daiki, in realtà, erano state rifiutate.
Le
telecamere li riconobbero, lasciandogli passare senza incidenti, e i
due ragazzi poterono accedere tranquillamente al corridoio.
La base
accolse i suoi ultimi ospiti nell’aspetto con cui i due
visitatori avevano già imparato a conoscerla,
all’apparenza normale e del tutto lecita.
Nulla era
cambiato, eppure entrambi sentivano che qualcosa era differente.
Attesero,
non sapendo dove andare vista l’infinità di uffici
e laboratori (senza tener conto degli altri piani sotterranei), cui
avrebbero potuto accedere semplicemente procedendo in avanti. Akashi
poteva essere ovunque.
Nessuno
dei due si stupì quando arrivò in loro soccorso,
zampettando, uno dei tanti servetti di Seijuro, un corvo gigantesco dai
larghi occhi nocciola, grosso quanto o forse più di un
labrador. L’animale li salutò chinando il capo
piumato dalle lunghe e lucenti piume nere, in segno di rispetto,
spiegò poi l’ala destra, indicando la strada,
cominciando nuovamente a zampettare nel precederli, sempre in religioso
silenzio.
Da quando
Daiki gli aveva affatto notare come la sua voce avesse un suono
gracchiante e gutturale: sembra
discutere con un uomo nella cui gola fosse rimasto incastrato un tappo
di sughero [cit.]; il tengu, essendo molto suscettibile
di natura e ritenendosi offeso da quell’aspro e gratuito
commento, non aveva più aperto bocca di fronte al ragazzo
dalla pelle bronzea. Questi però, purtroppo per
l’animale, non sembrava neppur essersi accorto di un simile
cambio di atteggiamento nei suoi confronti, anzi, continuava ad
ignorarlo, perso a rimuginare in ben altri pensieri. Il suo sguardo
sottile oltremare vagava attento per il corridoio, provando ad
indovinare in quale stanza l’essere mitologico\folkloristico
li avrebbe condotti.
Al primo
impatto, nell’entrare nella base, non era raro avere
l’impressione di essere appena finiti in un qualche reparto
d’ospedale. La scarsa luminosità dava
all’ambiente un’aria sporca, ma allo stesso tempo
la mancanza di una qualunque fonte di sporcizia lo rendeva
perfettamente sterile. Solo un leggero odore di chiuso alleggiava
nell’aria e la temperatura, qualunque stagione fosse
all’esterno, era costantemente fresca, tanto che a delle
volte, anche in piena estate, non era raro trovare qualcuno trai
dipendenti con indosso la giacca.
Purtroppo
però, quelle poche di luci messe a rischiarire il corridoio
principale, erano anche la prima fonte delle paure di Kagami, il quale
aveva sempre una pessima sensazione ogni qual volta lo percorresse.
Gli
sembrava di piombare di punto in bianco all’interno d'un
pessimo film horror, e che da qualche parte un serial killer
psicopatico lo stesse aspettando pronto a farlo fuori a coltellate.
Venendo dall’America la sua non era una paura infondata, e i
vari spiriti e creature indefinite che vedeva gironzolare lì
intorno (come quello che lo accompagnava in quel momento) non lo
aiutavano di certo a smorzare quell’impressione.
Ma
perché un organizzazione per lo studio e la soppressione
delle entità spiritiche sfruttava quelle stesse
entità come propri dipendenti?! Si era chiesto
più volte sconvolto, arrivando quasi a strapparsi i capelli.
Faticava ancora ad abituarsi all’idea.
Suo
padre, uno dei più famosi cacciatori di mostri del nuovo
continente, non avrebbe mai concepito una cosa simile, troppo legato
alle sue idee e ai suoi metodi (alcuni, a dir il vero, non propriamente
giusti).
E forse
era proprio quello il motivo per cui aveva messo un oceano di distanza
tra loro.
- STANZA
N°473 -
Non si
spiegava il motivo per cui aveva accettato.
C’era
stato qualcosa di assolutamente sbagliato nel meccanismo di pensieri
che lo avevano condotto ad assecondare le assurde richieste di Akashi.
Qualcosa
nel mentre doveva essersi inceppato, e l’intero sistema del
suo cervello era andato allo scatafascio. Doveva essere cosi, o
altrimenti non sarebbe riuscito spiegarsi perché si era
messo a fare una simile idiozia!
Non che
Seijuro non gli avesse presentato delle valide argomentazioni per
convincerlo, ma restava il fatto che diveniva fin troppo malleabile in
presenza del rosso.
Doveva
essere qualcosa celato nei suoi occhi a farlo cedere ogni volta.
Con il
senno di poi ogni singola azione compiuta in quelle ultime ore gli
parve incomprensibile, del tutto inconcepibile per una mente logica
come la sua.
“Per
oggi Ona Asa consiglia a voi amici del Cancro di non allontanarvi mai
dal vostro lucky item del giorno - ve lo ricordiamo: il pupazzo di una
scimmietta-, vi proteggerà dalla catastrofe imminente di cui
sarete spiacevoli spettatori.”
Perché
quando aveva saputo che il suo segno zodiacale occupava
l’ultimo posto della classifica, non se ne era semplicemente
tornato a letto? Si chiedeva Midorima in un profondo stato di
disperazione e autocommiserazione, un’aura violacea e malsana
lo avvolgeva inquinando l’ambiente intorno a lui. Si sentiva
privo di ogni grammo di energia, lì seduto alla sua solita
scrivania, sommerso da scartoffie e documenti d’ogni genere
destinati ad essere catalogati e archiviati, la testa abbandonata
malamente sul ripiano. Aveva ormai rinunciato da un pezzo a svolgere
quell’impresa. Era impossibile.
Ma
perché in un era tecnologica e all’avanguardia
come la loro si ritrovava ancora con tutti quei pezzi di carta?! Urlava
la sua mente sconvolta, infelice e sofferente, si sentiva cosi patetico
a piangersi addosso, ma per quel giorno non poteva farne a meno. Tutto
ciò che aveva fatto o anche solo toccato in quella
specificata data era andato a rotoli, fracassato, esploso o
semplicemente distrutto (come aveva per l’appunto previsto
Ona Asa).
Niente.
Nulla sembrava andargli per il verso giusto e, a conferma di
ciò, una larga macchia violacea si estendeva in mezzo alla
sua fronte, segnalando la parte lesa del visto, nel punto in cui era
stato più volte colpito da: pareti, porte o spigoli; in
diverse parti del giorno.
Alzandosi
dal letto quel mattino era inciampato sul comodino da sempre tenuto di
fianco al letto, urtando cosi la lampada che vi prendeva posto sopra,
la quale si era rovesciata andando a cadere sopra i suoi occhiali, i
quali a causa dell’urto erano scivolati a terra.
Gli era
bastato un unico, singolo passo per disintegrare la montatura e crepare
le lenti, il tutto accompagnato da uno scricchiolio inquietante che gli
fece accapponare la pelle.
Forse non
sarebbe stata una cattiva idea tenerne un paio di riserva, si era detto
nel chinarsi a raccogliere i resti di ciò che erano stati i
suoi occhiali, ma era un po’ tardi per pensarci.
Diagnosi:
completamente inutilizzabili.
Già
da quell’avvenimento avrebbe dovuto come minimo intuire come
si sarebbe svolto il resto del giorno. Eppure, cosa aveva fatto?
Aveva
sceso le scale per andare a fare colazione, del tutto incurante di
ciò che l’universo tentava di comunicargli,
finendo per scivolare dopo i primi tre scalini, ruzzolando sino al pian
terreno con un capitombolo degno dei migliori stuntman del cinema.
Era
già il secondo avvertimento, e non erano trascorsi neppure
dieci minuti dal primo.
Ma
perché?! Perché era stato tanto ottuso di fronte
ai segnali che dio era stato cosi magnanimo da concedergli?!
Con un
sospiro Shintaro allontanò il ricordo dei drammatici eventi
che si erano susseguiti poi nella sua “giornata
nera”, adesso aveva altro di cui occuparsi. La sua pancia
vuota lo supplicava di un po’ d’attenzioni.
Strinse
forte, quasi fosse un anti-stressa, la piccola scimmietta di peluche -
da cui non si era separato neppure un momento da ché era
divenuta il suo Lucky Item-, e aguzzando gli occhi, ormai
già ridotti a due fessure sottilissime, andò ad
armeggiare con estrema delicatezza il manicotto del becco di Bunsen,
sino a quando la fiamma prodotta dal piccolo bruciatore a gas non
divenne di un intenso e vivido color arancione.
Se non
altro avrebbe potuto cenare in pace, riflette aspettando che
l’acqua dentro il contenitore in vetro cominciasse a bollire.
Avrebbe mangiato del ramen istantaneo. Nulla di così
eclatante, né di nutriente, ma almeno non avrebbe rischiato
di lasciarci le penne cercando di cucinarsi qualcosa di più
complicato.
A pranzo,
nel tentativo di comprarsi un panino (poiché aveva
dimenticato il bento a casa), aveva finito coll’essere
travolto dall’immensa ressa creatasi davanti al rivenditore.
Un ammasso compatto ed informe di gambe, braccia e divise, che sul
momento gli era apparso come il boss finale di un pessimo videogioco
(essendo cieco come una talpa in una caverna buia gli era difficile
distinguere tra le varie forme), ma la cui figura era in
realtà composta dai suoi compagni di scuola, schiacciati
l’uno sull’altro in una lotta per la supremazia.
Spintoni,
calci e gomitate, tutto era lecito in quella battaglia.
Alla
scuola Shutuku, per lo meno all’ora di pranzo, sembrava
vigere un'unica regola: quella del più forte.
Sesso,
stato sociale o denaro non avevano più alcun valore.
Solo chi
sarebbe riuscito a farsi largo tra quelle belve assetate di sangue
avrebbe vinto sulla legge della sopravvivenza.
“Mostri!
Non sembravano neppure umani” si rivolse acidamente ai suoi
compagni Midorima, rabbrividendo al pensiero e ancora dolorante a causa
di tutti i lividi e gli ematomi che gli avevano lasciato, unica
dimostrazione della sua partecipazione al combattimento. Purtroppo,
miseramente perso. Non era neppure riuscito a vedere il traguardo.
- E
adesso Midorima che cazzo c’entra!? –
esclamò Aomine entrando con un tonfo assordante, causato dal
forte sbattere della porta che aveva appena spalancato, il passo
pesante e il volto livido di rabbia nell’entrare nel
laboratorio. La sua pazienza era arrivata al limite, ma
dov’era finito quel bastardo di Akashi? Quanto ancora aveva
intenzione di farli aspettare?
-
Aomine…- lo salutò con un cenno del capo il
ragazzo dai capelli verdi, lo sguardo accigliato nel tentativo di
metterlo a fuoco, con ben scarsi risultati, limitandosi ad osservarlo
rimanendo seduto alla scrivania. Per un momento si era sorpreso del suo
arrivo, soprattutto impaurito dal forte colpo che aveva udito, il quale
lo aveva fatto sussultare sulla sedia dallo spavento, causando cosi la
caduta del tanto agognato ramen, che aveva finito con il rovesciarsi
sulla scrivania e su parte dei suoi vestiti.
“Addio
cena” si limitò a sbuffare stanco di fronte
all’accaduto, ormai rassegnato alla propria sfortuna aveva
persino perso la voglia di arrabbiarsi.
- Allora
dov’è quel nano rosso?!- gli intimò
Daiki con aria minacciosa, avvicinandosi di qualche passo mentre
Midorima cercava qualcosa per ripulire i resti di brodo. –
Midorima! - lo richiamò ancor più stizzito,
trovandosi ignorato,
- Lo sai
com’è fatto Seijuro, si starà facendo
attendere di proposito in modo da farti perdere la calma... Si diverte
cosi – borbottò Shintaro soprappensiero,
più impegnato e levarsi quella fastidiosa macchia scura
dalla maglia beige con un fazzoletto che a prestargli ascolto.
– Ah… Grazie, Kraa-chan –
ringraziò poi rivolgendosi al tengu, il quale gli stava
porgendo una camicia bianca con cui avrebbe potuto cambiarsi.
L’essere
mitologico era silenziosamente entrato nella stanza alle spalle di
Aomine e subito, notando le condizioni di Midorima, da bravo servetto
si era avvicinato all’armadietto di ferro
nell’angolo opposto del laboratorio e vi aveva recuperato il
cambio che ora gli porgeva, nonché un secchio e uno
strofinaccio con cui ripulire quel disastro di brodo e spaghetti
riversi sul pavimento.
“Perché
gli ha dato un soprannome cosi idiota?” si chiedeva intanto
Daiki, talmente nervoso da cominciar a produrre sulla pelle una
notevole quantità di energia elettrostatica. A causa della
quale lui e Kagami si presero una scossa quando questi lo
urtò, entrando un poco trafelato nella stanza.
Per Taiga
non era facile orientarsi per quei corridoi, era ancora nuovo del
posto, e gli era bastato un momento di distrazione per perdere di vista
il compagno e la loro guida. Dopo un momento di panico e un paio
d’imprecazione a mezza voce si era detto che non potevano
essere poi così lontani. Si era voltato solo per mezzo
secondo!
Quindi,
riflettendoci, dovevano per forza aver attraversato una delle porte
lì vicino ed essere entrati in qualche
laboratorio… Ma quale?!
C’erano
127 porte lungo quel corridoio.
Fu
salvato dalla prospettiva di doverle aprire una ad una udendo la voce
alterata e inconfondibile di Aomine, a quanto sembrava era esploso. Di
nuovo.
“Quel
ragazzo non sa controllarsi…” sbuffò
negando piano con la testa, esasperato, andando nella direzione in cui
sentiva arrivare ancora le parole sempre più inferocite del
ragazzo dalla pelle scura. Chissà con chi se l’era
presa poi quella sciocca testa calda.
Kagami-kun,
non sei il tipo di persona che può fare simili osservazioni
agli altri.
Volle
però puntualizzare una vocina sottile proveniente da un
punto indefinito del suo cervello, in alto un po’ sulla
destra. E per un momento fu forte in lui la sensazione che a parlare
fosse stato Kuroko. Scacciò però subito una
simile idea, se si fosse fatto fregare da simili pensieri rischiava di
uscirne pazzo, e ancora una volta si trovò a varcare una
porta che mai più avrebbe voluto attraversare.
Dover affrontare l’arrabbiatura di Aomine non lo allettava
proprio.
- Cazzo!
Quel pennuto ci ha fatto camminare per tre quarti d’ora!-
continuava ad urlare Daiki, scostandosi rapidamente da Kagami
cominciando a camminare esasperato avanti e indietro per il
laboratorio. Una larga sala composta per lo più da
piastrelle bianche, e il cui arredamento comprendeva: la scrivania di
Midorima, un paio di librerie colme di titoli impronunciabili (alcuni
persino illeggibili - vista la complessità dai kanji - per
Taiga), l’armadietto che, come avevano visto, era adoperato a
ripostiglio e qualche congegno non ben definito, usati probabilmente
per gli esperimenti per i quali era adibito il laboratorio. Non che in
realtà quella stanza apparisse molto adoperata in quel
senso, sembrava piuttosto essere divenuta l’ufficio personale
di Midorima, visti gli strani pupazzetti (ex-Lucky Item del giorno),
che spuntavano un po’ovunque qui e là, e alcune
riviste di astrologia firmate da Ona Asa.
Infine
c’era un’altra porta, oltre a quella che conduceva
al corridoio principale, questa era però dal lato opposto
della sala, piccola e blindata, di un anonimo grigio, e quasi non la si notava. Difatti, ancora nessuno sembrava averci prestato la benché minima
attenzione.
Se ne
rimaneva chiusa, del tutto ignorata.
- Adesso
arriviamo qua e ci dice: “il signorino è al
momento impegnato, appena può sarà da
voi”!- sbraitava Aomine, scimmiottando la voce rauca
dell’animale, aveva capito che a prendendosela con Shintaro
non avrebbe tirato fuori un ragno dal buco, poiché non
sembrava volergli dare corda, quindi aveva smesso di importunarlo. In
più il ragazzo dai capelli verdi si stava spogliando della
maglia per poter finalmente indossare la camicia candida e pulita, non
era un momento opportuno per prendersela con lui.
E poi
Midorima era uno dei pochi illuminati a conoscenza del segreto per
sopravvivere agli scatti d’ira di Aomine, la regola
fondamentale era: più s’ignora, meglio
è.
Difatti,
il ragazzo dalla pelle bronzea si era ritrovato ad urlare da solo per
sfogare un po’ di rabbia. – Perché ci ha
fatto chiamare se poi ha altro da fare!? – sbottò
un’ultima volta, costretto a fermarsi per mancanza di fiato.
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