Piccola premessa: Consiglio di ascoltare la canzone High Hopes dei Kodaline perché rappresenta assolutamente tutto quello che pensa Katniss.
Nell'oscurità...
una luce
È da tempo, ormai,
che Peeta viene a fare colazione a casa mia. La mattina dopo il giorno
in cui ha piantato le primule sotto la finestra, Sae lo ha incontrato e
gli ha detto di unirsi a noi.
Non ci siamo scambiati
una parola; lui era parecchio distaccato e un tantino impacciato mentre
io ero tesa come una corda di violino e sembravo dare molta
più importanza a quel brutto gattaccio spelacchiato. In
realtà, il suo gesto, quei fiori delicati che mi piace
contemplare, mi avevano lasciata completamente spiazzata, talmente
tanto che non sono riuscita a ringraziarlo.
Quando si è
congedato educatamente, Sae mi ha confidato con un sorrisetto che,
all'inizio, non voleva disturbare, voleva darle il pane e tornarsene
dentro.
La vista di casa sua
mi dà un senso di sconforto. Stare nella mia non mi fa
sentire bene ugualmente. Ci sono momenti in cui, quando salgo le scale,
vedo Prim zampettare sorridente da una stanza all'altra e quando vado
in bagno, la scorgo davanti allo specchio intenta a sistemarsi le
treccine bionde. È inquietante e mi fa troppo male,
così tanto che vorrei crollare sul pavimento e piangere per
il resto della vita. L'abitazione di Peeta è tutta un'altra
storia... non so perché mi faccia più terrore
della mia -ormai dominata dalla memoria delle persone che ho ucciso-,
il fatto è che non dà voce ad alcun ricordo,
è spaventosamente vuota e cupa. Emana tristezza e
solitudine.
Cosa fa quando
è relegato là dentro oltre a dipingere e a fare
il pane?
Tuttora, capisco poco
e niente di quello che gli passa per la testa. È molto
ambiguo ma sembra essere tornato quello di un tempo: è
gentile, ironico, a volte irriverente ma molto tormentato. In alcune
occasioni, specie quando mi capita di uscire per andare a caccia, lo
trovo sotto il suo porticato a guardare un punto imprecisato davanti a
sé o a scrutarsi attentamente le mani; ha numerose cicatrici
-le ho notate quando mi ha passato della pancetta per darla a
Ranuncolo.
A tavola i nostri
scambi di parole si riducono ancora a dei
«buongiorno», «come stai?» e ci
va bene così, non ci piace parlare di cose irrilevanti; per
la maggior parte del tempo ci osserviamo di nascosto cercando di capire
cosa farà successivamente l'altro anche se non credo abbia
ancora il timore che io possa ucciderlo, me lo ha fatto capire.
Però, di tanto in tanto, cerca in tutti i modi di evitarmi e
spesso, mi rivolge un sorriso tirato, spento. Non è
decisamente così che me lo ricordavo.
In quest'ultimo
periodo viene a trovarmi anche il pomeriggio. Gli apro la porta, mi
saluta cordialmente e lo faccio accomodare, mi porge le focaccine al
formaggio mentre io lo invito a bere qualcosa -principalmente il
tè che mi prepara Sae prima di andare via.
Passiamo i minuti a
sorseggiare la bevanda calda dalla tazza di ceramica e a guardare fuori
dalla finestra quando ci troviamo in cucina, a volte ci sediamo sul
divano e io mi perdo ad osservare i granelli di polvere illuminati
dalla luce che volteggiano nell'aria mentre lui picchietta piano le
dita sul ginocchio.
Mi sto abituando a
questa routine, potrebbe sembrare monotona ma invece mi rilassa.
Dice il dottor
Aurelius -è da qualche mese che ho deciso di rispondere alle
sue chiamate- che stare un po' insieme ci fa star bene, a me
perché penso di meno al disastro che ho seminato e a tutte
le morti che ho causato -anche se non voglio che il dolore se ne vada
via, non voglio dimenticare mia sorella, o Finnick, oppure Cinna,
Boggs...- ed in effetti un po' è vero anche se non so
precisamente se a Peeta faccia piacere stare in mia compagnia. Ha
subito un depistaggio e anche se non sembra assolutamente la furia
omicida di quando eravamo al Distretto 13, sono comunque la causa del
suo male.
Questi incontri
pomeridiani sono piuttosto brevi. Col passare del tempo, ho capito che
Peeta cerca di non rimanere da solo con me; è come se fosse
spaventato da qualcosa ma non vuole dire niente. Non vuole che io lo
aiuti con i suoi episodi -anche se è da tanto che non ne ha
uno.
Una mezza risposta mi
è arrivata una volta, quando eravamo di fronte alla libreria
del salone. Stavo prendendo un libro di cucina di mia madre e lui mi ha
sorpresa chiedendomi a bassa voce «Katniss, tu hai paura di
me?»
Mi sono sentita
scombussolata, incredula e non riuscivo a guardarlo negli occhi. Non
doveva farmi domande del genere! Mi credeva una masochista, per caso?
Se avessi voluto
allontanarlo da me, non avrei mai aperto la porta per farlo entrare.
«No»
gli ho sussurrato appena. Non riuscivo ad aggiungere altro, mi sono
solo girata nella sua direzione e gli ho consegnato in fretta il
ricettario per poi raggiungere il divano dove mi sono seduta.
«Perché
se ne hai... io vado via subito» ha alzato giusto un tantino
di più il tono per farsi sentire.
Il suo passo pesante
si era fermato. Potevo benissimo immaginarlo dietro di me a guardarmi
insistentemente... I suoi occhi celesti puntati sulla mia figura...
«Ti ha detto
il dottor Aurelius... di... di passare del tempo con me?» ho
rigirato la frittata. Ero in ansia e non smettevo di contorcere le mie
dita tremanti. Volevo sapere tutto, forse troppo, ma mi spaventava a
morte l'idea di una risposta affermativa.
«No».
«Perché...
se non vuoi, non devi» ho continuato cercando di fargli
sputare il rospo.
Il mio modo di vedere
sempre il male nelle cose, col tempo, si è rafforzato. Sono
nata pessimista e dopo quello che è successo credo sia
naturale esserlo ancora. Non voglio aspettarmi niente.
Quel giorno, almeno,
mi sono sbagliata.
«Voglio»
mi si è avvicinato e mi ha accarezzato la testa lentamente.
«Però non posso permettermi di farti del
male».
La sua gentilezza
avrà mai fine? Me lo chiedo molte volte.
Come può
comportarsi così dopo quello che ha passato? La vita non gli
ha dato niente, si è presa gioco di lui e gli ha riservato
solo preoccupazioni e sofferenze. Come può essere ancora
così disponibile con la persona che più gli ha
procurato tristezza, poi?
Io sono il fulcro del
dolore causato a Peeta Mellark -e a chissà quante altre
persone.
Sae in molte occasioni
mi ripete che dobbiamo invitarlo più spesso a cenare,
«è così un bravo ragazzo, non voglio
che se stia da solo anche a quest'ora di sera. Dovresti farlo venire
maggiormente. Non merita tutta quella solitudine».
Non avrei mai niente
in contrario ad ospitarlo, è solo che più lo
vedo, più ho il bisogno di averlo vicino e non voglio che
dorma per l'ennesima volta con me che sono così debole ed
egoista da chiedergli se può passare di nuovo una nottata di
incubi per darmi una mano. Mi sto di nuovo abituando ai suoi abbracci
nel buio della mia camera e mi sento tremendamente in colpa
perché lui pensa al mio bene invece che a se stesso.
Due settimane fa, deve
avermi sentita urlare, perché si è precipitato
subito a casa mia.
Ho avvertito il lento
scricchiolio delle molle del letto sotto il suo peso e le sue braccia
meno forti di un tempo -ma comunque rassicuranti- stringermi al suo
petto.
Le sue mani vagavano
sul mio viso cercando di spostarmi le ciocche di capelli disordinate
con un leggero impaccio. Mi ha sciolto quella che minimamente sembrava
una treccia e mi ha dato dei lievi baci sulle palpebre mentre io mi
calmavo poco a poco cullata dalla sua voce profonda e dal profumo di
cannella e aneto che Peeta emana sempre.
Solo la mattina mi
sono resa conto di quanto io gli abbia arrecato danno facendolo
rimanere.
Non desiderava stare
con me, non più e io non volevo che si sentisse in qualche
modo obbligato a farlo solo perché avevamo deciso di
"proteggerci a vicenda".
«Scusa»
gli ho sussurrato a colazione in modo che una Sae sempre vigile e
attenta a tutto non sentisse.
Quello stesso
pomeriggio, Peeta si è di nuovo presentato sulla soglia di
casa e, porgendomi un pacchetto di cacao amaro, mi ha rivelato uno dei
suoi sorrisi dolci che non vedevo da parecchio.
«Cioccolata
calda?» mi ha domandato una volta entrato dentro strofinando
i piedi sul tappeto dell'ingresso. Ha posato il cappotto, il cappello e
la sciarpa sull'attaccapanni e mi ha raggiunta in cucina.
Era la metà
di novembre e la neve era caduta abbondantemente portando con
sé un freddo polare.
Lui aveva le mani
viola e il naso e le gote leggermente rossi. Dopo aver preparato la
nostra bevanda preferita, ci siamo accomodati di fronte al camino per
gustarla in tranquillità.
Mai come allora, in
vita mia, ho rotto il ghiaccio. «Scusami» ho
abbassato il viso iniziando ad osservare il legno che lentamente bruciava.
«E di
cosa?» ha rivolto subito il suo sguardo sul mio volto.
«Perché
ti costringo a dormire con me» ho bevuto un altro po' dalla
tazza per scacciare la tensione che sentivo solo io.
«Non mi
costringi» mi ha mormorato.
«Sì
che lo faccio. Ma non te ne rendi conto perché vuoi
proteggermi mentre io non sono in grado di fare lo stesso con
te» ho alzato subito gli occhi nella sua direzione. Aveva i
capelli disordinati e la faccia illuminata dalla luce che produceva il
fuoco scoppiettante.
«Non
è così, davvero» mi ha sorriso per
rassicurarmi.
«Lo
è. Tu non vuoi più stare insieme a me come
desideravi un tempo perché hai capito che razza di persona
sono» ho insistito.
Era chiaro, evidente.
Si stava comportando allo stesso modo di quando dovevamo recitare per
le telecamere, si sentiva in dovere di farlo.
«Voglio»
ho visto il suo sguardo posarsi di nuovo sul camino... Aveva iniziato a
soffiare sulla tazza. «Non credere
che non non ti ami più solo perché cerco di
passare meno tempo con te. Mi dispiace ma te l'ho detto, non sono
completamente guarito e non posso permettermi di commettere qualche
sciocchezza. Però non riesco a sopportare le tue grida, non
riesco ad immaginarti tutta sola a combattere i tuoi mostri...
così...» mi ha guardata negli occhi.
«È davvero ottima questa cioccolata, finalmente
hai imparato il giusto dosaggio dello zucchero» ha continuato
cercando di cambiare discorso.
Come poteva amarmi
dopo tutto quello che aveva passato? E perché voleva tenermi
fuori dai suoi problemi se io lo trascinavo ogni notte nei miei orrori?
«Non
nasconderti da me quando hai un episodio, voglio aiutarti,
Peeta» gli ho accarezzato una mano per fargli capire che
poteva contare su di me.
«Sai che non
posso prometterti questo, Katniss» ha poggiato la tazza sulla
coperta per giocherellare con le dita.
«Peeta,
mettiti in testa che tu, sei la prima persona che non mi farebbe mai
del male. In nessun caso» gli ho afferrato i polsi provando
ad incrociare i nostri sguardi.
«Eppure
è successo» ha avvicinato la fronte alla mia.
I nostri respiri erano
talmente vicini che potevamo benissimo sentire l'aroma di cacao che
prevaleva su qualunque altro odore nella stanza, «so che non
volevi» gli ho risposto in un sussurro.
«No,
infatti» ha detto allontanandosi definitivamente.
«Ma il veleno era più forte di me e lo
è tuttora».
Aveva le guance un po'
accaldate e aveva ricominciato a sorseggiare la bevanda fumante mentre
io lo guardavo di sottecchi.
Dopo pochi minuti, un
ciuffo ribelle di capelli biondi si era alzato rimanendo in quel modo
senza dare segno di abbassarsi e lui non pareva essersene accorto anche
se poteva notarlo benissimo dall'ombra della sua testa proiettata sul
pavimento.
«Hai...»
ho cominciato titubante.
«Ho?»
mi ha rivolto un'occhiata frastornata.
«I
capelli» gesticolavo alquanto imbarazzata. Non mi ero mai
trovata in una simile situazione.
«Cos'hanno?»
mi ha domandato stranito.
Quando ho allungato il
braccio per mettere in ordine quella massa dorata e scomposta che si
ritrovava Peeta in testa, mi sono scoperta a baciarlo con trasporto.
Si era avvicinato e
aveva posato le sue labbra calde e delicate sulle mie screpolate dal
freddo per poi circondarmi con un braccio il fianco e accarezzarmi
piano una guancia con la mano libera.
Quando non ho sentito
più il suo tocco leggero, ho aperto le palpebre incontrando
due occhi celesti e un sorriso timido.
Non so per quanto sono
rimasta aggrappata alle sue scapole, ricordo solamente che tutte quelle
emozioni, dopo tanto tempo, mi hanno colta di sorpresa.
La cosa che
più non sopporto del suo comportamento, però,
è che poco riesce a lasciarsi andare. Ha paura di farmi
delle domande perché pensa che possano ferirmi
ulteriormente, ma non gli do comunque torto perché
anch'io ho i miei problemi quotidiani e cerco di nasconderglieli
-sebbene la notte sia di nuovo dipendente dalle sue parole dolci e
dalle sue braccia rasserenanti.
Le crisi di pianto
continuano ad esserci, specialmente quando mi ritrovo a litigare con me
stessa perché mi sembra di non ricordare più di
che tonalità di blu erano gli occhi di Prim oppure
perché non rammento la sua voce. Sono delle sciocchezze
davvero molto importanti per me. Spesso devo utilizzare quel giochino
che facevo nel 13 per non impazzire completamente.
Ho accennato al dottor
Aurelius della mia paura di dimenticare tutti e di come Peeta cerca di
starmi lontano.
Dice che potrei
raccogliere oggetti e fotografie delle persone a me care
così da poterle sentire vicine... nella mia testa,
però, si sta facendo spazio un'altra idea, anche se non sono
convinta di rivelargliela.
Per quanto riguarda il
ragazzo del pane è un po' più complicato. Mi ha
spiegato che si trova ancora in quella fase in cui ha bisogno di espiare le proprie colpe,
e per farlo cerca di stare a debita distanza da me e di non chiedermi
cose inopportune perché non vuole procurarmi alcun problema,
ma -siccome nutre dei sentimenti nei miei confronti- cerca lo stesso di
passare del tempo a casa mia... «E poi gli fa davvero bene,
Katniss» ha aggiunto una volta, «da quando avete
iniziato a stare in compagnia, noto dei miglioramenti. E credimi se ti
ripeto che anche tu stai molto meglio».
In un'altra nostra
telefonata mi ha raccontato -e mi ha fatto giurare di non dirlo a
nessuno perché ha infranto il segreto professionale- che
Peeta era davvero felice di poter ritornare al Distretto 12 ma che
comunque non era certo di poter assicurare l'incolumità di
tutti quelli a cui tiene e forse è anche per questo se si
comporta ancora così.
Siamo spezzati
entrambi e ci è difficile comprendere quello che davvero
desideriamo; forse persino Haymitch si sente come noi ma non lo vedo da
mesi quindi non saprei...
«Cerca di
non pensare sempre a cosa di brutto potrebbe succederti» mi
ha raccomandato Aurelius, «so che è complicato
visti i precedenti... ma devi provarci, Katniss. Non cadere nello
sconforto, non farti trascinare via dalle tenebre. Prim non lo
vorrebbe».
Mi è
difficile credere a queste parole incoraggianti, ho pensato per
parecchio tempo che, queste, fossero solo le frasi false e senza fondo
di un terapista qualsiasi ma, il dottore mi ha aiutato molto col
processo e sta continuando a starmi dietro accettando di curarmi
sentendomi per telefono così da risparmiarmi di andare a
Capitol City.
Cosa penso del mio
futuro? Be'... è tutto grigio anche se posso scorgere un
piccolo spiraglio di luce nell'oscurità ma la mia mente non
è ancora in grado di elaborare nulla.
È tutto ancora troppo
complicato per una mentalmente instabile.
---------------
Ciao gente!
Wow... non avrei mai pensato di scrivere una one shot incentrata sui
pensieri di Katniss. Per me è assolutamente complicata e
infatti, ora, mi sto chiedendo se ho fatto bene oppure no a pubblicare.
Sono tremendamente terrorizzata. Non voglio che sia OOC
ç_____ç
La "storia" si svolge prima che lei voglia scrivere il libro,
precisamente: "Poco a
poco, tra molte giornate buttate via, torno alla vita. Cerco di seguire
il consiglio del dottor Aurelius, limitandomi a fare le cose in maniera
meccanica, e mi sorprendo quando una di quelle cose, alla fine,
acquista di nuovo significato". Ho voluto dilungarmi su
questo punto perché è davvero troppo riassuntivo
per me.
Katniss sta cominciando piano piano ad andare avanti anche se i suoi
incubi, le sue preoccupazioni sono tantissime. Cerca di provarci
perché da quando Peeta è arrivato e ha piantato
le primule, qualcosa l'ha motivata anche se è assurdamente
difficile e, giustamente, non vuole avere false speranze
quindi è un po' restia.
Bene! Spero di ricevere commenti per sapere cosa ne pensate e non
esitate a farmi notare i miei errori (qualora ci fossero). Critiche sia
positive che negative sono sempre accettate :D
Alla prossima ♥
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