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Autore: Haruma    08/08/2014    4 recensioni
Mi sto di nuovo abituando ai suoi abbracci nel buio della mia camera e mi sento tremendamente in colpa perché lui pensa al mio bene invece che a se stesso.
Due settimane fa, deve avermi sentita urlare, perché si è precipitato subito a casa mia.
Ho avvertito il lento scricchiolio delle molle del letto sotto il suo peso e le sue braccia meno forti di un tempo -ma comunque rassicuranti- stringermi al suo petto.
Le sue mani vagavano sul mio viso cercando di spostarmi le ciocche di capelli disordinate con un leggero impaccio. Mi ha sciolto quella che minimamente sembrava una treccia e mi ha dato dei lievi baci sulle palpebre mentre io mi calmavo poco a poco cullata dalla sua voce profonda e dal profumo di cannella e aneto che Peeta emana sempre.
[Post ritorno di Peeta al Distretto 12 || Leggermente angst]
Genere: Hurt/Comfort, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Katniss Everdeen, Peeta Mellark
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Tra pezzetti di pane galleggianti'
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Piccola premessa: Consiglio di ascoltare la canzone High Hopes dei Kodaline perché rappresenta assolutamente tutto quello che pensa Katniss.


Nell'oscurità... una luce

È da tempo, ormai, che Peeta viene a fare colazione a casa mia. La mattina dopo il giorno in cui ha piantato le primule sotto la finestra, Sae lo ha incontrato e gli ha detto di unirsi a noi.
Non ci siamo scambiati una parola; lui era parecchio distaccato e un tantino impacciato mentre io ero tesa come una corda di violino e sembravo dare molta più importanza a quel brutto gattaccio spelacchiato. In realtà, il suo gesto, quei fiori delicati che mi piace contemplare, mi avevano lasciata completamente spiazzata, talmente tanto che non sono riuscita a ringraziarlo.
Quando si è congedato educatamente, Sae mi ha confidato con un sorrisetto che, all'inizio, non voleva disturbare, voleva darle il pane e tornarsene dentro.
La vista di casa sua mi dà un senso di sconforto. Stare nella mia non mi fa sentire bene ugualmente. Ci sono momenti in cui, quando salgo le scale, vedo Prim zampettare sorridente da una stanza all'altra e quando vado in bagno, la scorgo davanti allo specchio intenta a sistemarsi le treccine bionde. È inquietante e mi fa troppo male, così tanto che vorrei crollare sul pavimento e piangere per il resto della vita. L'abitazione di Peeta è tutta un'altra storia... non so perché mi faccia più terrore della mia -ormai dominata dalla memoria delle persone che ho ucciso-, il fatto è che non dà voce ad alcun ricordo, è spaventosamente vuota e cupa. Emana tristezza e solitudine.
Cosa fa quando è relegato là dentro oltre a dipingere e a fare il pane?
Tuttora, capisco poco e niente di quello che gli passa per la testa. È molto ambiguo ma sembra essere tornato quello di un tempo: è gentile, ironico, a volte irriverente ma molto tormentato. In alcune occasioni, specie quando mi capita di uscire per andare a caccia, lo trovo sotto il suo porticato a guardare un punto imprecisato davanti a sé o a scrutarsi attentamente le mani; ha numerose cicatrici -le ho notate quando mi ha passato della pancetta per darla a Ranuncolo.
A tavola i nostri scambi di parole si riducono ancora a dei «buongiorno», «come stai?» e ci va bene così, non ci piace parlare di cose irrilevanti; per la maggior parte del tempo ci osserviamo di nascosto cercando di capire cosa farà successivamente l'altro anche se non credo abbia ancora il timore che io possa ucciderlo, me lo ha fatto capire. Però, di tanto in tanto, cerca in tutti i modi di evitarmi e spesso, mi rivolge un sorriso tirato, spento. Non è decisamente così che me lo ricordavo.
In quest'ultimo periodo viene a trovarmi anche il pomeriggio. Gli apro la porta, mi saluta cordialmente e lo faccio accomodare, mi porge le focaccine al formaggio mentre io lo invito a bere qualcosa -principalmente il tè che mi prepara Sae prima di andare via.
Passiamo i minuti a sorseggiare la bevanda calda dalla tazza di ceramica e a guardare fuori dalla finestra quando ci troviamo in cucina, a volte ci sediamo sul divano e io mi perdo ad osservare i granelli di polvere illuminati dalla luce che volteggiano nell'aria mentre lui picchietta piano le dita sul ginocchio.
Mi sto abituando a questa routine, potrebbe sembrare monotona ma invece mi rilassa.
Dice il dottor Aurelius -è da qualche mese che ho deciso di rispondere alle sue chiamate- che stare un po' insieme ci fa star bene, a me perché penso di meno al disastro che ho seminato e a tutte le morti che ho causato -anche se non voglio che il dolore se ne vada via, non voglio dimenticare mia sorella, o Finnick, oppure Cinna, Boggs...- ed in effetti un po' è vero anche se non so precisamente se a Peeta faccia piacere stare in mia compagnia. Ha subito un depistaggio e anche se non sembra assolutamente la furia omicida di quando eravamo al Distretto 13, sono comunque la causa del suo male.
Questi incontri pomeridiani sono piuttosto brevi. Col passare del tempo, ho capito che Peeta cerca di non rimanere da solo con me; è come se fosse spaventato da qualcosa ma non vuole dire niente. Non vuole che io lo aiuti con i suoi episodi -anche se è da tanto che non ne ha uno.
Una mezza risposta mi è arrivata una volta, quando eravamo di fronte alla libreria del salone. Stavo prendendo un libro di cucina di mia madre e lui mi ha sorpresa chiedendomi a bassa voce «Katniss, tu hai paura di me?»
Mi sono sentita scombussolata, incredula e non riuscivo a guardarlo negli occhi. Non doveva farmi domande del genere! Mi credeva una masochista, per caso?
Se avessi voluto allontanarlo da me, non avrei mai aperto la porta per farlo entrare.
«No» gli ho sussurrato appena. Non riuscivo ad aggiungere altro, mi sono solo girata nella sua direzione e gli ho consegnato in fretta il ricettario per poi raggiungere il divano dove mi sono seduta.
«Perché se ne hai... io vado via subito» ha alzato giusto un tantino di più il tono per farsi sentire.
Il suo passo pesante si era fermato. Potevo benissimo immaginarlo dietro di me a guardarmi insistentemente... I suoi occhi celesti puntati sulla mia figura...
«Ti ha detto il dottor Aurelius... di... di passare del tempo con me?» ho rigirato la frittata. Ero in ansia e non smettevo di contorcere le mie dita tremanti. Volevo sapere tutto, forse troppo, ma mi spaventava a morte l'idea di una risposta affermativa.
«No».
«Perché... se non vuoi, non devi» ho continuato cercando di fargli sputare il rospo.
Il mio modo di vedere sempre il male nelle cose, col tempo, si è rafforzato. Sono nata pessimista e dopo quello che è successo credo sia naturale esserlo ancora. Non voglio aspettarmi niente.
Quel giorno, almeno, mi sono sbagliata.
«Voglio» mi si è avvicinato e mi ha accarezzato la testa lentamente. «Però non posso permettermi di farti del male».
La sua gentilezza avrà mai fine? Me lo chiedo molte volte.
Come può comportarsi così dopo quello che ha passato? La vita non gli ha dato niente, si è presa gioco di lui e gli ha riservato solo preoccupazioni e sofferenze. Come può essere ancora così disponibile con la persona che più gli ha procurato tristezza, poi?
Io sono il fulcro del dolore causato a Peeta Mellark -e a chissà quante altre persone.
Sae in molte occasioni mi ripete che dobbiamo invitarlo più spesso a cenare, «è così un bravo ragazzo, non voglio che se stia da solo anche a quest'ora di sera. Dovresti farlo venire maggiormente. Non merita tutta quella solitudine».
Non avrei mai niente in contrario ad ospitarlo, è solo che più lo vedo, più ho il bisogno di averlo vicino e non voglio che dorma per l'ennesima volta con me che sono così debole ed egoista da chiedergli se può passare di nuovo una nottata di incubi per darmi una mano. Mi sto di nuovo abituando ai suoi abbracci nel buio della mia camera e mi sento tremendamente in colpa perché lui pensa al mio bene invece che a se stesso.
Due settimane fa, deve avermi sentita urlare, perché si è precipitato subito a casa mia.
Ho avvertito il lento scricchiolio delle molle del letto sotto il suo peso e le sue braccia meno forti di un tempo -ma comunque rassicuranti- stringermi al suo petto.
Le sue mani vagavano sul mio viso cercando di spostarmi le ciocche di capelli disordinate con un leggero impaccio. Mi ha sciolto quella che minimamente sembrava una treccia e mi ha dato dei lievi baci sulle palpebre mentre io mi calmavo poco a poco cullata dalla sua voce profonda e dal profumo di cannella e aneto che Peeta emana sempre.
Solo la mattina mi sono resa conto di quanto io gli abbia arrecato danno facendolo rimanere.
Non desiderava stare con me, non più e io non volevo che si sentisse in qualche modo obbligato a farlo solo perché avevamo deciso di "proteggerci a vicenda".
«Scusa» gli ho sussurrato a colazione in modo che una Sae sempre vigile e attenta a tutto non sentisse.
Quello stesso pomeriggio, Peeta si è di nuovo presentato sulla soglia di casa e, porgendomi un pacchetto di cacao amaro, mi ha rivelato uno dei suoi sorrisi dolci che non vedevo da parecchio.
«Cioccolata calda?» mi ha domandato una volta entrato dentro strofinando i piedi sul tappeto dell'ingresso. Ha posato il cappotto, il cappello e la sciarpa sull'attaccapanni e mi ha raggiunta in cucina.
Era la metà di novembre e la neve era caduta abbondantemente portando con sé un freddo polare.  
Lui aveva le mani viola e il naso e le gote leggermente rossi. Dopo aver preparato la nostra bevanda preferita, ci siamo accomodati di fronte al camino per gustarla in tranquillità.
Mai come allora, in vita mia, ho rotto il ghiaccio. «Scusami» ho abbassato il viso iniziando ad osservare il legno che lentamente bruciava.
«E di cosa?» ha rivolto subito il suo sguardo sul mio volto.
«Perché ti costringo a dormire con me» ho bevuto un altro po' dalla tazza per scacciare la tensione che sentivo solo io.
«Non mi costringi» mi ha mormorato.
«Sì che lo faccio. Ma non te ne rendi conto perché vuoi proteggermi mentre io non sono in grado di fare lo stesso con te» ho alzato subito gli occhi nella sua direzione. Aveva i capelli disordinati e la faccia illuminata dalla luce che produceva il fuoco scoppiettante.
«Non è così, davvero» mi ha sorriso per rassicurarmi.
«Lo è. Tu non vuoi più stare insieme a me come desideravi un tempo perché hai capito che razza di persona sono» ho insistito.
Era chiaro, evidente. Si stava comportando allo stesso modo di quando dovevamo recitare per le telecamere, si sentiva in dovere di farlo.
«Voglio» ho visto il suo sguardo posarsi di nuovo sul camino... Aveva iniziato a soffiare sulla tazza. «Non credere che non non ti ami più solo perché cerco di passare meno tempo con te. Mi dispiace ma te l'ho detto, non sono completamente guarito e non posso permettermi di commettere qualche sciocchezza. Però non riesco a sopportare le tue grida, non riesco ad immaginarti tutta sola a combattere i tuoi mostri... così...» mi ha guardata negli occhi. «È davvero ottima questa cioccolata, finalmente hai imparato il giusto dosaggio dello zucchero» ha continuato cercando di cambiare discorso.
Come poteva amarmi dopo tutto quello che aveva passato? E perché voleva tenermi fuori dai suoi problemi se io lo trascinavo ogni notte nei miei orrori?
«Non nasconderti da me quando hai un episodio, voglio aiutarti, Peeta» gli ho accarezzato una mano per fargli capire che poteva contare su di me.
«Sai che non posso prometterti questo, Katniss» ha poggiato la tazza sulla coperta per giocherellare con le dita.
«Peeta, mettiti in testa che tu, sei la prima persona che non mi farebbe mai del male. In nessun caso» gli ho afferrato i polsi provando ad incrociare i nostri sguardi.
«Eppure è successo» ha avvicinato la fronte alla mia.
I nostri respiri erano talmente vicini che potevamo benissimo sentire l'aroma di cacao che prevaleva su qualunque altro odore nella stanza, «so che non volevi» gli ho risposto in un sussurro.
«No, infatti» ha detto allontanandosi definitivamente. «Ma il veleno era più forte di me e lo è tuttora».
Aveva le guance un po' accaldate e aveva ricominciato a sorseggiare la bevanda fumante mentre io lo guardavo di sottecchi.
Dopo pochi minuti, un ciuffo ribelle di capelli biondi si era alzato rimanendo in quel modo senza dare segno di abbassarsi e lui non pareva essersene accorto anche se poteva notarlo benissimo dall'ombra della sua testa proiettata sul pavimento.
«Hai...» ho cominciato titubante.
«Ho?» mi ha rivolto un'occhiata frastornata.
«I capelli» gesticolavo alquanto imbarazzata. Non mi ero mai trovata in una simile situazione.
«Cos'hanno?» mi ha domandato stranito.
Quando ho allungato il braccio per mettere in ordine quella massa dorata e scomposta che si ritrovava Peeta in testa, mi sono scoperta a baciarlo con trasporto.
Si era avvicinato e aveva posato le sue labbra calde e delicate sulle mie screpolate dal freddo per poi circondarmi con un braccio il fianco e accarezzarmi piano una guancia con la mano libera.
Quando non ho sentito più il suo tocco leggero, ho aperto le palpebre incontrando due occhi celesti e un sorriso timido.
Non so per quanto sono rimasta aggrappata alle sue scapole, ricordo solamente che tutte quelle emozioni, dopo tanto tempo, mi hanno colta di sorpresa.
La cosa che più non sopporto del suo comportamento, però, è che poco riesce a lasciarsi andare. Ha paura di farmi delle domande perché pensa che possano ferirmi ulteriormente, ma non gli do comunque torto perché anch'io ho i miei problemi quotidiani e cerco di nasconderglieli -sebbene la notte sia di nuovo dipendente dalle sue parole dolci e dalle sue braccia rasserenanti.
Le crisi di pianto continuano ad esserci, specialmente quando mi ritrovo a litigare con me stessa perché mi sembra di non ricordare più di che tonalità di blu erano gli occhi di Prim oppure perché non rammento la sua voce. Sono delle sciocchezze davvero molto importanti per me. Spesso devo utilizzare quel giochino che facevo nel 13 per non impazzire completamente.
Ho accennato al dottor Aurelius della mia paura di dimenticare tutti e di come Peeta cerca di starmi lontano.
Dice che potrei raccogliere oggetti e fotografie delle persone a me care così da poterle sentire vicine... nella mia testa, però, si sta facendo spazio un'altra idea, anche se non sono convinta di rivelargliela.
Per quanto riguarda il ragazzo del pane è un po' più complicato. Mi ha spiegato che si trova ancora in quella fase in cui ha bisogno di espiare le proprie colpe, e per farlo cerca di stare a debita distanza da me e di non chiedermi cose inopportune perché non vuole procurarmi alcun problema, ma -siccome nutre dei sentimenti nei miei confronti- cerca lo stesso di passare del tempo a casa mia... «E poi gli fa davvero bene, Katniss» ha aggiunto una volta, «da quando avete iniziato a stare in compagnia, noto dei miglioramenti. E credimi se ti ripeto che anche tu stai molto meglio».
In un'altra nostra telefonata mi ha raccontato -e mi ha fatto giurare di non dirlo a nessuno perché ha infranto il segreto professionale- che Peeta era davvero felice di poter ritornare al Distretto 12 ma che comunque non era certo di poter assicurare l'incolumità di tutti quelli a cui tiene e forse è anche per questo se si comporta ancora così.
Siamo spezzati entrambi e ci è difficile comprendere quello che davvero desideriamo; forse persino Haymitch si sente come noi ma non lo vedo da mesi quindi non saprei...
«Cerca di non pensare sempre a cosa di brutto potrebbe succederti» mi ha raccomandato Aurelius, «so che è complicato visti i precedenti... ma devi provarci, Katniss. Non cadere nello sconforto, non farti trascinare via dalle tenebre. Prim non lo vorrebbe».
Mi è difficile credere a queste parole incoraggianti, ho pensato per parecchio tempo che, queste, fossero solo le frasi false e senza fondo di un terapista qualsiasi ma, il dottore mi ha aiutato molto col processo e sta continuando a starmi dietro accettando di curarmi sentendomi per telefono così da risparmiarmi di andare a Capitol City.
Cosa penso del mio futuro? Be'... è tutto grigio anche se posso scorgere un piccolo spiraglio di luce nell'oscurità ma la mia mente non è ancora in grado di elaborare nulla.
È tutto ancora troppo complicato per una mentalmente instabile. 



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Ciao gente!
Wow... non avrei mai pensato di scrivere una one shot incentrata sui pensieri di Katniss. Per me è assolutamente complicata e infatti, ora, mi sto chiedendo se ho fatto bene oppure no a pubblicare. Sono tremendamente terrorizzata. Non voglio che sia OOC ç_____ç
La "storia" si svolge prima che lei voglia scrivere il libro, precisamente: "Poco a poco, tra molte giornate buttate via, torno alla vita. Cerco di seguire il consiglio del dottor Aurelius, limitandomi a fare le cose in maniera meccanica, e mi sorprendo quando una di quelle cose, alla fine, acquista di nuovo significato". Ho voluto dilungarmi su questo punto perché è davvero troppo riassuntivo per me.
Katniss sta cominciando piano piano ad andare avanti anche se i suoi incubi, le sue preoccupazioni sono tantissime. Cerca di provarci perché da quando Peeta è arrivato e ha piantato le primule, qualcosa l'ha motivata anche se è assurdamente difficile e, giustamente, non vuole avere false speranze quindi è un po' restia.
Bene! Spero di ricevere commenti per sapere cosa ne pensate e non esitate a farmi notare i miei errori (qualora ci fossero). Critiche sia positive che negative sono sempre accettate :D
Alla prossima
   
 
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