Un
anno dopo
«Sembra
morta».
«Sta
solo
dormendo».
«Guarda
quanto è
pallida».
«È
sempre bianca
come un lenzuolo, e di certo la luce di Londra non le fa migliorare il
colorito».
«Sembra
più un
cadavere che un lenzuolo».
«Normale
amministrazione».
Con non poca
sofferenza apro un occhio, rimanendo accecata dalla luce bianchiccia
che entra
dalle finestre, e noto che a pochi centimetri dal mio volto due occhi
scuri mi
stanno fissando. «Come puoi vedere, James, non sono morta.
Stavo dormendo,
prima che voi mi svegliaste», dico spettinando i capelli del
bambino che ancora
mi guarda interessato, la voce impastata dal sonno.
«Peccato».
«Come?»,
chiedo
alzandomi a sedere sul divano, con il cervello che si muove in maniera
burrascosa all’interno della mia scatola cranica. Forse non
ho più l’età per
leggere fino alle sei del mattino.
«Sarebbe
stato
bello vedere un morto», esclama.
Alzo gli
occhi al
cielo. «Sappi che in questa casa non guarderai mai
più la televisione, se ti fa
questi effetti».
«È
Rain la mia
babysitter, non tu», ribatte lui.
«Sì»,
confermo,
«ma questa è anche casa mia».
Sento James
farmi
il verso alle spalle, ma mi limito a camminare verso il bancone della
cucina
per prepararmi un caffè doppio. Decisamente devo smetterla
di divorare libri al
posto di dormire. Libri tristi, oltretutto. Che mi fanno piangere. E
gonfiare
gli occhi.
«Ti
sentivo
singhiozzare fino a camera mia», dice Rain appoggiata alla
cucina
sgranocchiando dei cracker. «Credo ti regalerò un
libro di barzellette per
Natale». Come non detto.
«Com’è
andato
l’esame? Hai letto il bigliettino che ti avevo
lasciato?», svio io l’argomento.
Lei annuisce
con
un sorriso, estraendo il post-it che le avevo appiccicato sul
frigorifero
quella mattina, prima di addormentarmi accoccolata al cuscino del
divano, il
trucco rovinosamente colato sulle guance e l’aspetto di una
donna in crisi di
mezza età. Non credo di avere nessuna colpa se non quella di
innamorarmi
follemente e rovinosamente dei protagonisti dei libri.
«Passato con il
massimo».
Di slancio
l’abbraccio, cogliendola di sorpresa. Non dispenso affetto
tanto facilmente se
non a libri, cuscini e al mio Ipod. «Sono fiera di te, avevi
studiato tanto».
L’atmosfera
viene
rovinata completamente dall’urlo di James.
«Deborah, il tuo telefono continua a
vibrare».
Ipotizzando
che
sia mia madre, corro verso il telefono che il bambino mi sta porgendo,
e
rispondo senza guardare lo schermo. «Pronto?»
«Mh…
are you sure is this the number, Tomo?». La voce
femminile che parla
dell’altra parte del telefono ha un forte accento americano,
e non riesco a
riconoscerla. Due cose, però, mi sono certe: non
è mia mamma, e la donna ha
detto Tomo. Allontano il cellulare dall’orecchio, ma
ciò che appare è un numero
che non è salvato in rubrica.
«Hello?
Who’s
there?», chiedo, gli occhi di Rain che mi guardano mentre
probabilmente assumo
strane espressioni facciali. Sento un grande trambusto, sembra perfino
che cada
qualcosa di molto vicino al microfono del telefono, e dopo alcune
imprecazioni,
cade il silenzio.
«Deborah?»
«Yes,
I’m Deborah. The point is who are you?»
«I’m
Tomo!»
«Quel
Tomo?»
«Quanti
Tomislav
Milicevic conosci?»
«Uno,
l’ultima volta
che ho controllato», ridacchio. «Hai cambiato
numero?»
«Ti
chiamo con il
telefono di Vicky, mia moglie».
«So
chi è Vicky».
«Giusto».
«Giusto».
Silenzio. «È successo qualcosa?», chiedo.
«Sì.
Cioè, no.
Voglio dire, niente di grave».
Mi
corruccio.
«Shannon e Jared stanno bene? Emma?»
«Stanno
tutti
bene. Fai avvicinare Rain al telefono».
«Chi
ti dice che
Rain sia con me?»
«Non
vivete in
simbiosi voi due?»
Alzo gli
occhi al
cielo e faccio avvicinare Rain che, da quel che sono riuscita a capire,
è
riuscita a convincere James ha mangiare uno yoghurt. Quando lei mi
affianca,
metto in vivavoce. «No, non viviamo in simbiosi. Ma sei
fortunato, è appena
rientrata».
«Hi
Milicevic»,
saluta lei, un sorriso sulle labbra. «Sputa il rospo, qua a
Londra la vita è
frenetica, abbiamo da fare. Almeno io». Rain mi lancia
un’occhiataccia.
«Deborah non fa altro che leggere, e leggere, e scrivere e
leggere».
Soffio.
«È il mio
lavoro». Di giorno studio per
l’università, e di notte leggo libri per la casa
editrice per cui lavoro. Nei momenti liberi, scrivo il mio di libro,
nella
speranza che un giorno qualche mio collega editor lo legga e decida di
pubblicarlo.
«Pensa,
ti pagano
per piangere. Io chiederei un aumento, se fossi in te». Le
do’ un pugnetto
indispettito sulla spalla, e lei ridacchia. «Comunque dicci
pure, Tomo».
«Siete
libere la
prossima settimana, ragazze in carriera?»
«Dipende»,
dice
Rain.
«Da
che cosa?»
«Per
che cosa
dovrei liberarmi?», continua lei.
«Sappiate
che
Francis ha detto sì», risponde lui. «Ed
era assai, assai contenta».
«Parla,
Tomislav»,
dico io.
«Beh,
c’è questa
cosa che vorremmo proporvi di fare… è stata
un’idea di Jared».
Rain mi
guarda.
«Ora inizio ufficialmente ad aver paura».
**
Sono seduta
sul divano rosso di
casa mia, talmente stretta che faccio fatica a respirare. Mi ficco un
altro pop-corn in bocca e annaspo. A fine giornata non ci
arrivo viva.
«La
vuoi smettere di agitarti?»,
chiede Rain, seduta al mio fianco, così vicina che il suo
gomito è premuto
contro le mie costole.
«Questo
divano è un po’ troppo
affollato, sai com’è».
«È
il tuo modo carino per
cacciarci?»
Mi volto
verso la voce e stringo
gli occhi. «Se alzi il tuo bellissimo sedere da quel cuscino
ti lancio dietro
l’enciclopedia in russo di Rain».
Shannon
ride. «Questa sì che è
una bella minaccia».
«Sto
ampliando il mio
repertorio».
«Noto».
«Felice
che qualcuno apprezzi il
mio lavoro».
Qualcuno
tossicchia irritato. «Se
non state zitti sarà il mio, di lavoro, a non essere
apprezzato. Ho passato le
notti in bianco davanti al computer per montare questo
video». Jared Maniaco
Del Controllo Leto.
Ingoio
qualche altro pop-corn
sperando vivamente di strozzarmi sul momento, così da non
dover soffrire un
secondo di più. «Tanto tu non dormi
mai», bofonchio.
Una mano
calda scivola nella mia.
Mi volto verso Francis e le sorrido. È sempre bionda, anche
se i capelli ora
sono più corti e più chiari. I lineamenti del
viso sono rimasti invariati,
anche se giorno per giorno assomiglia sempre di più a sua
madre. Rain, invece,
è sempre la stessa, eterna ragazzina. Se non fosse per lo
sguardo, non si
direbbe che sia passato un giorno, da quel martedì di due
anni fa, quando, con
l’ansia che rischiava di farmi esplodere il cuore, vagavamo
per l’aeroporto
alla ricerca del luogo dove fare il check-in, destinazione Los Angeles.
Ora ha
lo sguardo più maturo, e forse più sereno,
perché finalmente comincia a capire
chi è veramente e chi un giorno vorrebbe essere.
«Mancano
due minuti», dice Jared,
controllando il telefono. Poi si volta nella mia direzione, un grosso
sorriso
sulle labbra. «Due minuti, ci credi?»
«Cerca
di non metterti a fare il
countdown», dico mordicchiandomi le unghie della mano libera.
«Dovrebbe
essere un momento di
felicità per tutti», afferma Jared.
«Soprattutto per te».
«Sì,
ma lei è la signorina che di
nome fa Deborah e di cognome Ansia», ribatte Shannon.
«Tacete.
Quanto manca?», chiedo.
«Un
minuto», dice Jared.
«Trenta
secondi», continua Tomo.
«Ci
siamo», sussurro infine io,
l’eccitazione che non mi stare seduta ferma sul posto.
Una signora
al telefono, il naso
appoggiato ad un vetro, la mano destra che si scuote in segno di saluto
e un
sorriso sul volto che sa già di malinconia.
Rain e
Francis che parlottano fra
loro con in mano una cartina che non capiscono perché
rovescia.
Il cielo di
Los Angeles visto dal
tetto del motel che era stato casa nostra per qualche settimana. Poche
stelle,
molti sogni.
Joe, il
cameriere che ci ha
servito più bibite di quante sia pensabile servire e che ci
ha sopportato nel
suo locale per giorni interi, osservandoci silenziosamente per la
maggior parte
del tempo, che si copre la faccia con una tazza di caffè
vuota perché non vuole
essere ripreso.
Shannon e
Jared che si guardano,
mentre dalle loro chitarre escono le note che compongono The Story.
Tomo che
addenta una ciambella
alla vaniglia e si lecca i baffi nello stesso identico modo in cui lo
farebbe
uno dei suoi cani dopo aver mangiato dalla sua ciotola.
Francis che
corre a piedi nudi
sulla spiaggia intonando una canzone di cui non si capiscono le parole,
i
lunghi capelli che per l’aria non riescono a toccarle la
schiena.
Jared che
piroetta sui suoi
pattini a rotelle, per poi sbilanciarsi e cadere rovinosamente a terra.
Io che, la
testa a penzoloni, mi
sono addormentata sul libro di James Joyce che fin
dall’inizio ero stata
indecisa se infilare in valigia oppure no, ma che aveva finito per
diventare
uno dei miei libri preferiti.
E poi ancora
Shannon che si
emoziona sentendo cantare per lui attraverso una registrazione su un
telefono,
Shannon che mangia lo zucchero filato impiastricciandosi le mani, Jared
che
ride, perché non vedeva il proprio fratello stare
così bene da molto tempo.
Tomo che
accarezza Ramsey dietro
le orecchie.
Raccordo
sul nero.
«Abbiamo
preso un aereo per
realizzare il nostro sogno, quello di incontrare delle persone molto
importanti
per noi», dice la mia voce. La me sullo schermo non ha
più i capelli fucsia
delle riprese precedenti, essi sono infatti tornati castani. Me li
sfioro,
abbandonando le pop-corn che continuo a tenere in grembo.
«Poi
però, dopo una lunga notte
passata pressoché insonne su un divano, ci siamo rese conto
che incontrare loro
non era il sogno più grande, ma che loro, con la loro
musica, ci servivano
tutti i giorni per continuare a crederci», aggiunge Francis.
«È
stata un’avventura, siamo
state su Marte per un po’, e ci è sembrato che
tutto fosse bellissimo. Poi
siamo tornate alla vita normale, ma niente era più come
prima. Eravamo
concentrate, determinate. In quel momento abbiamo cominciato a credere.
A cosa?
In noi stesse, credo. Abbiamo cominciato a credere che, se lo avessimo
voluto
davvero, avremmo potuto fare tutto, anche quello che fino ad allora ci
era
sembrato impossibile», dice Rain, con un sorriso.
«Non
dico che ora non abbiamo
paura del futuro, di quello che potrà succedere domani, di
ciò che non possiamo
controllare. Non dico nemmeno che ora sappiamo esattamente chi siamo, o
chi vorremmo
essere per tutto il resto della nostra vita, perché starei
mentendo. Abbiamo vent’anni
e vogliamo vivere e realizzarci, forse è tutto
ciò che ora sappiamo, tutto ciò
in cui crediamo», concludo io.
Raccordo
sul nero, di nuovo.
«Don’t
ever ask for permission to follow your dream. Follow them no matter
fucking
what. We have one life here. Everybody has this one life. And you are
the author
of your story. You are much more responsible for your dreams coming
true, or
not, than anyone else you’ll ever come into contact with. So
dream big and work
hard. And make it happen no matter what», dice Jared
guardando dritto in
camera.
Tutto
diventa nero di nuovo, ed è
finito. Il nostro viaggio è finito.
«Allora?»,
chiede Jared, dopo
alcuni istanti in cui tutto è rimasto immobile nella stanza.
«Che cosa ne
dite?» Si volta verso di me, e io lo faccio verso di lui,
guardandolo dritto
negli occhi, sapendo che i miei sono lucidi.
Prendo un
respiro. «Dico che non
sono veramente in grado di fare delle riprese decenti. Tutte, e dico
tutte
quelle che ho fatto io sono mosse all’inverosimile. Come
diavolo hai fatto a
farle sembrare perfette, in quel video perfetto?».
Jared
sorride. «Le tue riprese
casuali sono state fondamentali, senza di quelle non saremo mai stati
in grado
di realizzare questo video dedicato a tutti gli echelon del mondo. Sia
santificata la tua videocamera, la ricorderemo tutti per sempre con
grande
affetto». Telecamera che sfortunatamente è caduta
dentro il Tamigi qualche mese
fa. Posso solo dire che ha avuto una vita breve ma intensa.
«È
bellissimo», dice Rain che al
momento sta stringendo la mia mano veramente tanto.
«Bellissimo. Siamo noi, e
siete voi. È il nostro viaggio, dall’inizio alla
fine. È tutto ciò che
significa far parte di questa grande famiglia chiamata
Echelon».
Annuisco.
«Well done, guys». Nel
momento in cui li guardo tutti e tre, i miei tre eroi, come aveva detto
quel
ragazzo nel video di Do or Die, sento una lacrima salata bagnarmi le
labbra e
scoppio a ridere. Il mio cervello mi comunica con un pensiero che mi
sto di
nuovo comportando in maniera strana. Ma ormai sa che succede ogni volta
che mi
sento bene, ogni volta che, anche solo ascoltando la musica di queste
tre
persone che ora ho la fortuna di avere accanto, volo su Marte. Come un
disco
rotto, ripeto quelle parole che troppe volte ho ripetuto loro:
«Grazie». Non
aggiungo altro, perché è una parola
così potente da racchiudere tutto l’amore,
il rispetto e l’ammirazione che ho nei loro confronti. Dei
sentimenti che so
non se ne andranno mai. Perché l’essere echelon
è una cosa che capisci o che
non capisci, non ci sono vie di mezzo, amore o odio. E io, noi, abbiamo
scelto
l’amore. Noi siamo gli echelon di tutto il mondo.
Eccoci qui,
alla fine.
Sto
sadicamente sperando siate
tutti scoppiati a piangere, muahahah. Vi ho fatto penare un
po’ con questi
aggiornamenti una volta ogni morte del papa, i know. Da quel che mi
avete fatto
capire, comunque, grazie alle recensioni e al numero di lettori
silenziosi, o
lettori che hanno messo la mia storia fra le ricordate/preferite/da
seguire, mi
perdonavate ogni volta.
Che altro
dire: grazie, anche a
voi, non solo ai Mars. Un ringraziamento speciale va a Francesca e a
Roberta,
ma anche a Veronica, che dice sempre che ho talento, Angelica e Chiara,
le mie
picciricci ed in fine ad Arianna, Gloria e tutte le altre mie spritzine
(non so
chi di voi legga la storia di preciso), siete sempre state di grande
aiuto.
Vi saluto,
ricordandovi che ho
altre due storie in corso riguardanti soprattutto Jared, ovvero Sleeping with ghosts e Drink
You Pretty, la new entry. Magari
un giorno diventerò uno scrittrice costante e vi
sparerò un capitolo a
settimana – come no, credeteci.
Concludo con
il dire che avevo
provato a tradurre il discorso di Jared, che scommetto conoscete tutte
quante,
dato che l’ha detto in una recente intervista, ma secondo me
perdeva quel non
so che che Jared riesce sempre a dare ai suoi discorsi neanche fosse un
prete
durante la predica (e dopo la stola usata durante gli ultimi concerti
comincio
ad avere qualche dubbio sulla sua vera natura…) e quindi ho
deciso di lasciarlo
in lingua originale.
Spero che vi
sia piaciuto il
finale, fatevi sentire, mi farebbe molto piace.
Un abbraccio
grande grande,
Deborah.
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