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Autore: sleepingwithghosts    20/08/2014    2 recensioni
(...) mi ripetete come, di preciso, riusciremo a scovare Jared, Shannon e Tomo?»
Una malsana idea nata subito dopo aver visto Artifact. Tre amiche che partono alla ricerca dei loro eroi, prendendo un volo last minute per Los Angeles e che finiranno per mangiare tante ciambelle, questo è sicuro. Ma li incontreranno? Ci riusciranno davvero? Che l'avventura abbia inizio.
Genere: Comico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Jared Leto, Nuovo personaggio, Shannon Leto, Tomo Miličević, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Un anno dopo

 

 

 

«Sembra morta».

«Sta solo dormendo».

«Guarda quanto è pallida».

«È sempre bianca come un lenzuolo, e di certo la luce di Londra non le fa migliorare il colorito».

«Sembra più un cadavere che un lenzuolo».

«Normale amministrazione».

Con non poca sofferenza apro un occhio, rimanendo accecata dalla luce bianchiccia che entra dalle finestre, e noto che a pochi centimetri dal mio volto due occhi scuri mi stanno fissando. «Come puoi vedere, James, non sono morta. Stavo dormendo, prima che voi mi svegliaste», dico spettinando i capelli del bambino che ancora mi guarda interessato, la voce impastata dal sonno.

«Peccato».

«Come?», chiedo alzandomi a sedere sul divano, con il cervello che si muove in maniera burrascosa all’interno della mia scatola cranica. Forse non ho più l’età per leggere fino alle sei del mattino.

«Sarebbe stato bello vedere un morto», esclama.

Alzo gli occhi al cielo. «Sappi che in questa casa non guarderai mai più la televisione, se ti fa questi effetti».

«È Rain la mia babysitter, non tu», ribatte lui.

«Sì», confermo, «ma questa è anche casa mia».

Sento James farmi il verso alle spalle, ma mi limito a camminare verso il bancone della cucina per prepararmi un caffè doppio. Decisamente devo smetterla di divorare libri al posto di dormire. Libri tristi, oltretutto. Che mi fanno piangere. E gonfiare gli occhi.

«Ti sentivo singhiozzare fino a camera mia», dice Rain appoggiata alla cucina sgranocchiando dei cracker. «Credo ti regalerò un libro di barzellette per Natale». Come non detto.

«Com’è andato l’esame? Hai letto il bigliettino che ti avevo lasciato?», svio io l’argomento.

Lei annuisce con un sorriso, estraendo il post-it che le avevo appiccicato sul frigorifero quella mattina, prima di addormentarmi accoccolata al cuscino del divano, il trucco rovinosamente colato sulle guance e l’aspetto di una donna in crisi di mezza età. Non credo di avere nessuna colpa se non quella di innamorarmi follemente e rovinosamente dei protagonisti dei libri. «Passato con il massimo».

Di slancio l’abbraccio, cogliendola di sorpresa. Non dispenso affetto tanto facilmente se non a libri, cuscini e al mio Ipod. «Sono fiera di te, avevi studiato tanto».

L’atmosfera viene rovinata completamente dall’urlo di James. «Deborah, il tuo telefono continua a vibrare».

Ipotizzando che sia mia madre, corro verso il telefono che il bambino mi sta porgendo, e rispondo senza guardare lo schermo. «Pronto?»

«Mh… are you sure is this the number, Tomo?». La voce femminile che parla dell’altra parte del telefono ha un forte accento americano, e non riesco a riconoscerla. Due cose, però, mi sono certe: non è mia mamma, e la donna ha detto Tomo. Allontano il cellulare dall’orecchio, ma ciò che appare è un numero che non è salvato in rubrica.

«Hello? Who’s there?», chiedo, gli occhi di Rain che mi guardano mentre probabilmente assumo strane espressioni facciali. Sento un grande trambusto, sembra perfino che cada qualcosa di molto vicino al microfono del telefono, e dopo alcune imprecazioni, cade il silenzio.

«Deborah?»

«Yes, I’m Deborah. The point is who are you?»

«I’m Tomo!»

«Quel Tomo?»

«Quanti Tomislav Milicevic conosci?»

«Uno, l’ultima volta che ho controllato», ridacchio. «Hai cambiato numero?»

«Ti chiamo con il telefono di Vicky, mia moglie».

«So chi è Vicky».

«Giusto».

«Giusto». Silenzio. «È successo qualcosa?», chiedo.

«Sì. Cioè, no. Voglio dire, niente di grave».

Mi corruccio. «Shannon e Jared stanno bene? Emma?»

«Stanno tutti bene. Fai avvicinare Rain al telefono».

«Chi ti dice che Rain sia con me?»

«Non vivete in simbiosi voi due?»

Alzo gli occhi al cielo e faccio avvicinare Rain che, da quel che sono riuscita a capire, è riuscita a convincere James ha mangiare uno yoghurt. Quando lei mi affianca, metto in vivavoce. «No, non viviamo in simbiosi. Ma sei fortunato, è appena rientrata».

«Hi Milicevic», saluta lei, un sorriso sulle labbra. «Sputa il rospo, qua a Londra la vita è frenetica, abbiamo da fare. Almeno io». Rain mi lancia un’occhiataccia. «Deborah non fa altro che leggere, e leggere, e scrivere e leggere».

Soffio. «È il mio lavoro». Di giorno studio per l’università, e di notte leggo libri per la casa editrice per cui lavoro. Nei momenti liberi, scrivo il mio di libro, nella speranza che un giorno qualche mio collega editor lo legga e decida di pubblicarlo.

«Pensa, ti pagano per piangere. Io chiederei un aumento, se fossi in te». Le do’ un pugnetto indispettito sulla spalla, e lei ridacchia. «Comunque dicci pure, Tomo».

«Siete libere la prossima settimana, ragazze in carriera?»

«Dipende», dice Rain.

«Da che cosa?»

«Per che cosa dovrei liberarmi?», continua lei.

«Sappiate che Francis ha detto sì», risponde lui. «Ed era assai, assai contenta».

«Parla, Tomislav», dico io.

«Beh, c’è questa cosa che vorremmo proporvi di fare… è stata un’idea di Jared».

Rain mi guarda. «Ora inizio ufficialmente ad aver paura».

 

**

 

Sono seduta sul divano rosso di casa mia, talmente stretta che faccio fatica a respirare. Mi ficco un altro pop-corn in bocca e annaspo. A fine giornata non ci arrivo viva.

«La vuoi smettere di agitarti?», chiede Rain, seduta al mio fianco, così vicina che il suo gomito è premuto contro le mie costole.

«Questo divano è un po’ troppo affollato, sai com’è».

«È il tuo modo carino per cacciarci?»

Mi volto verso la voce e stringo gli occhi. «Se alzi il tuo bellissimo sedere da quel cuscino ti lancio dietro l’enciclopedia in russo di Rain».

Shannon ride. «Questa sì che è una bella minaccia».

«Sto ampliando il mio repertorio».

«Noto».

«Felice che qualcuno apprezzi il mio lavoro».

Qualcuno tossicchia irritato. «Se non state zitti sarà il mio, di lavoro, a non essere apprezzato. Ho passato le notti in bianco davanti al computer per montare questo video». Jared Maniaco Del Controllo Leto.

Ingoio qualche altro pop-corn sperando vivamente di strozzarmi sul momento, così da non dover soffrire un secondo di più. «Tanto tu non dormi mai», bofonchio.

Una mano calda scivola nella mia. Mi volto verso Francis e le sorrido. È sempre bionda, anche se i capelli ora sono più corti e più chiari. I lineamenti del viso sono rimasti invariati, anche se giorno per giorno assomiglia sempre di più a sua madre. Rain, invece, è sempre la stessa, eterna ragazzina. Se non fosse per lo sguardo, non si direbbe che sia passato un giorno, da quel martedì di due anni fa, quando, con l’ansia che rischiava di farmi esplodere il cuore, vagavamo per l’aeroporto alla ricerca del luogo dove fare il check-in, destinazione Los Angeles. Ora ha lo sguardo più maturo, e forse più sereno, perché finalmente comincia a capire chi è veramente e chi un giorno vorrebbe essere.

«Mancano due minuti», dice Jared, controllando il telefono. Poi si volta nella mia direzione, un grosso sorriso sulle labbra. «Due minuti, ci credi?»

«Cerca di non metterti a fare il countdown», dico mordicchiandomi le unghie della mano libera.

«Dovrebbe essere un momento di felicità per tutti», afferma Jared. «Soprattutto per te».

«Sì, ma lei è la signorina che di nome fa Deborah e di cognome Ansia», ribatte Shannon.

«Tacete. Quanto manca?», chiedo.

«Un minuto», dice Jared.

«Trenta secondi», continua Tomo.

«Ci siamo», sussurro infine io, l’eccitazione che non mi stare seduta ferma sul posto.

 

Una signora al telefono, il naso appoggiato ad un vetro, la mano destra che si scuote in segno di saluto e un sorriso sul volto che sa già di malinconia.

Rain e Francis che parlottano fra loro con in mano una cartina che non capiscono perché rovescia.

Il cielo di Los Angeles visto dal tetto del motel che era stato casa nostra per qualche settimana. Poche stelle, molti sogni.

Joe, il cameriere che ci ha servito più bibite di quante sia pensabile servire e che ci ha sopportato nel suo locale per giorni interi, osservandoci silenziosamente per la maggior parte del tempo, che si copre la faccia con una tazza di caffè vuota perché non vuole essere ripreso.

Shannon e Jared che si guardano, mentre dalle loro chitarre escono le note che compongono The Story.

Tomo che addenta una ciambella alla vaniglia e si lecca i baffi nello stesso identico modo in cui lo farebbe uno dei suoi cani dopo aver mangiato dalla sua ciotola.

Francis che corre a piedi nudi sulla spiaggia intonando una canzone di cui non si capiscono le parole, i lunghi capelli che per l’aria non riescono a toccarle la schiena.

Jared che piroetta sui suoi pattini a rotelle, per poi sbilanciarsi e cadere rovinosamente a terra.

Io che, la testa a penzoloni, mi sono addormentata sul libro di James Joyce che fin dall’inizio ero stata indecisa se infilare in valigia oppure no, ma che aveva finito per diventare uno dei miei libri preferiti.

E poi ancora Shannon che si emoziona sentendo cantare per lui attraverso una registrazione su un telefono, Shannon che mangia lo zucchero filato impiastricciandosi le mani, Jared che ride, perché non vedeva il proprio fratello stare così bene da molto tempo.

Tomo che accarezza Ramsey dietro le orecchie.

Raccordo sul nero.

«Abbiamo preso un aereo per realizzare il nostro sogno, quello di incontrare delle persone molto importanti per noi», dice la mia voce. La me sullo schermo non ha più i capelli fucsia delle riprese precedenti, essi sono infatti tornati castani. Me li sfioro, abbandonando le pop-corn che continuo a tenere in grembo.

«Poi però, dopo una lunga notte passata pressoché insonne su un divano, ci siamo rese conto che incontrare loro non era il sogno più grande, ma che loro, con la loro musica, ci servivano tutti i giorni per continuare a crederci», aggiunge Francis.

«È stata un’avventura, siamo state su Marte per un po’, e ci è sembrato che tutto fosse bellissimo. Poi siamo tornate alla vita normale, ma niente era più come prima. Eravamo concentrate, determinate. In quel momento abbiamo cominciato a credere. A cosa? In noi stesse, credo. Abbiamo cominciato a credere che, se lo avessimo voluto davvero, avremmo potuto fare tutto, anche quello che fino ad allora ci era sembrato impossibile», dice Rain, con un sorriso.

«Non dico che ora non abbiamo paura del futuro, di quello che potrà succedere domani, di ciò che non possiamo controllare. Non dico nemmeno che ora sappiamo esattamente chi siamo, o chi vorremmo essere per tutto il resto della nostra vita, perché starei mentendo. Abbiamo vent’anni e vogliamo vivere e realizzarci, forse è tutto ciò che ora sappiamo, tutto ciò in cui crediamo», concludo io.

Raccordo sul nero, di nuovo.

«Don’t ever ask for permission to follow your dream. Follow them no matter fucking what. We have one life here. Everybody has this one life. And you are the author of your story. You are much more responsible for your dreams coming true, or not, than anyone else you’ll ever come into contact with. So dream big and work hard. And make it happen no matter what», dice Jared guardando dritto in camera.

Tutto diventa nero di nuovo, ed è finito. Il nostro viaggio è finito.

 

«Allora?», chiede Jared, dopo alcuni istanti in cui tutto è rimasto immobile nella stanza. «Che cosa ne dite?» Si volta verso di me, e io lo faccio verso di lui, guardandolo dritto negli occhi, sapendo che i miei sono lucidi.

Prendo un respiro. «Dico che non sono veramente in grado di fare delle riprese decenti. Tutte, e dico tutte quelle che ho fatto io sono mosse all’inverosimile. Come diavolo hai fatto a farle sembrare perfette, in quel video perfetto?».

Jared sorride. «Le tue riprese casuali sono state fondamentali, senza di quelle non saremo mai stati in grado di realizzare questo video dedicato a tutti gli echelon del mondo. Sia santificata la tua videocamera, la ricorderemo tutti per sempre con grande affetto». Telecamera che sfortunatamente è caduta dentro il Tamigi qualche mese fa. Posso solo dire che ha avuto una vita breve ma intensa.

«È bellissimo», dice Rain che al momento sta stringendo la mia mano veramente tanto. «Bellissimo. Siamo noi, e siete voi. È il nostro viaggio, dall’inizio alla fine. È tutto ciò che significa far parte di questa grande famiglia chiamata Echelon».

Annuisco. «Well done, guys». Nel momento in cui li guardo tutti e tre, i miei tre eroi, come aveva detto quel ragazzo nel video di Do or Die, sento una lacrima salata bagnarmi le labbra e scoppio a ridere. Il mio cervello mi comunica con un pensiero che mi sto di nuovo comportando in maniera strana. Ma ormai sa che succede ogni volta che mi sento bene, ogni volta che, anche solo ascoltando la musica di queste tre persone che ora ho la fortuna di avere accanto, volo su Marte. Come un disco rotto, ripeto quelle parole che troppe volte ho ripetuto loro: «Grazie». Non aggiungo altro, perché è una parola così potente da racchiudere tutto l’amore, il rispetto e l’ammirazione che ho nei loro confronti. Dei sentimenti che so non se ne andranno mai. Perché l’essere echelon è una cosa che capisci o che non capisci, non ci sono vie di mezzo, amore o odio. E io, noi, abbiamo scelto l’amore. Noi siamo gli echelon di tutto il mondo.  

 

 

 

 

 

 

Eccoci qui, alla fine.

Sto sadicamente sperando siate tutti scoppiati a piangere, muahahah. Vi ho fatto penare un po’ con questi aggiornamenti una volta ogni morte del papa, i know. Da quel che mi avete fatto capire, comunque, grazie alle recensioni e al numero di lettori silenziosi, o lettori che hanno messo la mia storia fra le ricordate/preferite/da seguire, mi perdonavate ogni volta.

Che altro dire: grazie, anche a voi, non solo ai Mars. Un ringraziamento speciale va a Francesca e a Roberta, ma anche a Veronica, che dice sempre che ho talento, Angelica e Chiara, le mie picciricci ed in fine ad Arianna, Gloria e tutte le altre mie spritzine (non so chi di voi legga la storia di preciso), siete sempre state di grande aiuto.

Vi saluto, ricordandovi che ho altre due storie in corso riguardanti soprattutto Jared, ovvero Sleeping with ghosts e Drink You Pretty, la new entry. Magari un giorno diventerò uno scrittrice costante e vi sparerò un capitolo a settimana – come no, credeteci.

Concludo con il dire che avevo provato a tradurre il discorso di Jared, che scommetto conoscete tutte quante, dato che l’ha detto in una recente intervista, ma secondo me perdeva quel non so che che Jared riesce sempre a dare ai suoi discorsi neanche fosse un prete durante la predica (e dopo la stola usata durante gli ultimi concerti comincio ad avere qualche dubbio sulla sua vera natura…) e quindi ho deciso di lasciarlo in lingua originale.

Spero che vi sia piaciuto il finale, fatevi sentire, mi farebbe molto piace.

Un abbraccio grande grande, Deborah.

  
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