θ.
Joseph
se ne andò qualche ora dopo l’alba, ancora
assonnato per la notte
in bianco. Lo salutò con un’alzata di spalle e un
cenno forzato,
buttandosi nell’abitacolo di un veicolo che slittò
via senza
rumore.
Lienhard
non riusciva a scacciare la sensazione che gli sviluppi sarebbero
stati tutt'altro che rosei, ma sapeva di non poterci fare niente.
Rientrò nel bungalow con un senso di pesantezza nell'animo,
una
speranza disperata che si agitava da qualche parte tra il nervosismo
e il senso di colpa − ti prego, ti prego, ti prego
non odiarmi
− e si sdraiò sul futon sfatto. Gli effetti del
calore si facevano
di ora in ora più labili e ben presto non avrebbe avuto
più scuse
per non tornare alla vita reale, al mondo di bugie che lo aspettava
dentro le mura di Fegith.
Una
volta aperta la porta dell’appartamento, Lienhard
capì che i suoi
progetti di riposo e meditazione sarebbero andati in fumo. Lo sguardo
gli cadde immediatamente su un foglio di metallo dai contorni
arrotondati, che qualcuno aveva fatto scivolare sotto la porta e che
era rimasto a prendere polvere sul pavimento per almeno un paio di
giorni. Impossibile fraintenderne l’apparenza, i ghirigori
sottili
sulla superficie lucida: era un Invito.
Piegarsi
sulle ginocchia e raccoglierlo fu più faticoso di quanto
pensasse.
Entrata a contatto con le sue dita, la lamina di metallo si prese un
paio di secondi per la scansione delle impronte digitali e poi
s’illuminò, contorcendosi a mezz’aria
come una foglia
trasportata dal vento autunnale.
Che
Lienhard ricordasse, nessuno dei suoi parenti compiva gli anni in
quel periodo e non c’erano party accademici in vista.
Rimanevano
poche altre opzioni, visto che la sua fama di facinoroso lo rendeva
inviso alla maggior parte dei salotti eleganti di Fegith.
Irrigidendosi
nella forma aggraziata di una rosa avvolta da una corona di spine, il
biglietto dissipò ogni dubbio. “Redthorn,”
pensò
Lienhard, contenendo a malapena il disprezzo, “perché
mai i
Redthorn mi mandano un Invito?”.
«Lienhard
Heisenhover» la voce computerizzata si
dipanò dai petali della
rosa come una ninnananna «sei ufficialmente
invitato alla
presentazione in società di Elenoire Redthorn, che si
terrà il…»
Ascoltò
le indicazioni con lo sguardo fisso e la bocca semiaperta, incapace
di riscuotersi dal torpore che l’aveva colto di fronte ad un
evento
tanto inatteso. Se il Gerarca – o chi per lui –
aveva deciso di
invitare anche gli Heisenhover alla cerimonia di presentazione in
società della sua figlia più giovane, alla festa
sarebbero stati
presenti tutti i nobili e i personaggi politici più abbienti
di
Fegith. Non riusciva a spiegarsi, altrimenti, perché i
Redthorn
avrebbero dovuto accogliere in casa loro una famiglia con la quale i
rapporti – per usare un eufemismo – non erano mai
stati
particolarmente intimi.
Conosceva
la ragazza, Elenoire, solo di vista: doveva avere sedici anni, ormai,
i tratti slavati del ramo principale dei Redthorn e quegli occhi
alieni, tra il celeste chiarissimo e il violetto, che assomigliavano
a pietre senza vita. Lei e Maryanne, l’unica altra femmina
nella
nidiata del Gerarca, erano entrambe alfa. Si trattava di estranee per
lui – e di un tipo non particolarmente gradito, tra
l’altro –
ma disertare un invito formale senza validi motivi era un gesto che
la sua posizione precaria non gli consentiva. Suo padre, che aveva
basato una carriera sui rapporti diplomatici, non glie
l’avrebbe
mai permesso.
◦○◦
Kaïre
era riuscito a mobilitare gli altri prima di quanto pensasse,
complice la psicosi collettiva ingenerata dal tradimento di Wieke
Sommer. L’organizzazione di Thomas Heisenhover aveva, come
presupposto fondamentale, la fiducia assoluta che i membri nutrivano
gli uni per gli altri: erano stati scelti perché affidabili,
devoti
alla causa, e scoprire l’esistenza di una falla in un tessuto
che
credevano privo di strappi era stato un brutto colpo, per tutti.
Il
magazzino periferico che avevano scelto per incontrarsi ospitava una
vasta selezione di ricambi per vetture a trazione magnetica, impilati
in scatole di ultraneoprene imbottito che raggiungevano il soffitto.
Era un posto ideale per discutere di faccende private, con le pareti
di cemento spesse un paio di metri e un complesso sistema di
schermatura a onde radio che lo proteggeva da microspie e microfoni
nascosti; apparteneva ad una delle tante società fantocce di
Thomas
Heisenhover, gestita da uno dei luogotenenti che presiedevano
all’incontro.
Saleem
Chandra, questo il suo nome, era un ometto così basso che,
seduto su
uno scatolone, non arrivava a sfiorare il pavimento con la punta
delle scarpe. Magro, la pelle scura e il volto cadente, rugoso, aveva
uno sguardo acuto che sembrava scandagliare gli oggetti e le persone
su cui si posava; in contrasto con la moda corrente, sul suo naso
adunco ballonzolavano un paio di occhiali dalle lenti rotonde, e le
mani macchiate mostravano i segni della vecchiaia.
«Se
quello che Kaïre ci ha raccontato corrisponde a
verità, la
situazione potrebbe rivelarsi peggiore di quanto
immaginassimo».
Gracchiò «La Via delle Lanterne è
sempre stata una zona franca per
la vendita di Progestal, e non possiamo permetterci di perdere i
traffici in quel quartiere. Oltretutto l’aggressione ai danni
di
Kaïre era molto diversa dalla procedura di un regolare
arresto:
perché usare un soldato in borghese, quando basterebbe
inviare una
pattuglia in qualsiasi punto del quartiere per arrestare decine di
venditori?».
«Magari
non volevano che la notizia arrivasse fino a noi». Beatrisa
Zajitzeva grattò il pavimento con un piede, innervosita, e
sbuffò
«Forse pensavano di catturare Kaïre e farlo sparire
dalla
circolazione senza divulgare la notizia dell’arresto, per non
metterci subito in allarme. Quello che mi chiedo è se il
soldato
puntasse direttamente a Kaïre o stesse cercando uno
spacciatore come
un altro nella Via».
«Ecco,
questa è una questione su cui mi soffermerei un
po’ di più».
L’uomo che aveva parlato, alto e segaligno come cero, stava
appoggiato alla stessa pila di cassette su cui sedeva Kaïre.
Robert
Ianisov, unico altro omega tra i luogotenenti del Ministro, trattava
l’albino con una cortesia untuosa che somigliava alla
solidarietà,
e riservava ai suoi colleghi niente più che fredda
indifferenza.
«Non so se cogliete,» continuò
«l’enormità del problema, nel
caso in cui la prima opzione fosse quella vera. Basterebbe un test
del DNA come quello che viene fatto in caso di arresto per
rintracciare parentele che nessuno di noi vorrebbe venissero alla
luce».
«E
se cercano me significa che già sospettano
qualcosa».
«È
assurdo». Beatrisa fece schioccare la lingua contro il palato
«Gli
unici a sapere del coinvolgimento di Heisenhover siamo noi, e la
nostra fedeltà è stata messa alla prova
più volte. A meno che…»
«Che
cosa vorresti insinuare?». Una beta bassa e grassottella, le
forme
generose strizzate in una tuta di lattice contenitivo, si mise le
mani sui fianchi e squadrò Beatrisa con astio «Non
puoi mettere in
dubbio l’onestà di chi ha lavorato una vita per
Thomas
Heisenhover».
«Ti
senti chiamata in causa, Deehar?».
«Non
esagerate». La voce profonda di Mikahel Ribic, un uomo alto e
ben
piazzato che se ne stava discosto dagli altri, con le mani in tasca,
interruppe il litigio sul nascere. Mikahel aveva un passato
turbolento alle spalle, costellato di pene detentive nelle carceri
speciali di Fegith e risse tra i viottoli dei quartieri bassi, ma non
era uno stupido e tantomeno un uomo da prendere sottogamba. Alto
quasi un metro e novanta, con la costituzione di un lottatore e la
pelle devastata dalle cicatrici – si era sempre rifiutato di
farsele rimuovere – si occupava di evitare che il traffico di
Progestal a Fegith venisse controllato da altri gruppi criminali. Con
che mezzi, Kaïre non era mai stato ansioso di saperlo.
«Che
cosa proporresti di fare, Ribic?». Chandra si
aggiustò gli occhiali
sul naso con un sorrisetto ironico.
«Beatrisa,»
Mikahel si rivolse direttamente alla donna «la tua posizione
non ti
permette di investigare?».
«Ho
già rischiato parecchio per identificare Wieke Sommer, e in
quel
caso sapevo esattamente dove e cosa
cercare. Sono un
soldato semplice, accedere ad informazioni riservate richiede
moltissimo tempo per me. Una soluzione più semplice sarebbe
intensificare i controlli e la protezione ai venditori della Via
–
per questo potrebbero farci comodo i tuoi uomini, Mikahel –
ed
evitare che Kaïre si faccia vivo per un
po’».
«È
un rattoppo temporaneo,» la risposta di Robert Ianisov
provocò uno
squittio d’assenso in Dehaar Klauss «ma forse per
qualche giorno
andrà bene».
Chandra
si schiarì
la voce e disse: «Dovrà andar bene. Purtroppo temo
che questa non
sia altro che la punta dell’iceberg».
«Che
intendi?». Chiese Kaïre.
«I
soldati non cambierebbero mai la loro politica senza un buon motivo.
Se lo fanno c’è una ragione, e dobbiamo aspettarci
la messa in
pratica di una strategia precisa… non qualche colpo di testa
privo
di significato».
◦○◦
Il
giorno prima della festa, una settimana e mezza dopo il suo ritorno
dalla campagna, Thomas Heisenhover gli fece visita.
Lienhard
aveva trascorso quel breve periodo di quiete in solitudine, leggendo
e riflettendo sulla situazione presente. Il pensiero correva sempre a
Joseph, ma sapeva che contattarlo e cercare di risolvere tutto
parlando sarebbe stato uno sbaglio: erano insufficienti, le parole,
quando si trattava di esprimere concetti e sensazioni che nemmeno lui
riusciva ad afferrare del tutto. Senza guardarlo negli occhi e
avvertire il suo respiro, il calore della sua pelle e le scariche
elettriche che formicolavano appena sotto quello strato di porcellana
sottile, non avrebbe mai potuto comunicare davvero
con Joseph.
Aveva
cercato di contattare Kaïre per sapere come andava con la
ricerca
del campione di cui aveva bisogno, ma ogni tentativo era stato vano:
con suo fratello l'unica strada possibile era pazientare e attendere
che si facesse vedere, impegnato com'era in chissà quali
traffici
nelle zone più remote di Fegith. Lienhard sperava solo che
fosse
riuscito a procurarsi quel dannato campione.
Occupazioni
temporanee atte a distrarlo dal maggiore Redthorn erano state la
ricerca di un abito adatto alla festa - i suoi completi dal taglio
antiquato avrebbero provocato il raccapriccio generale - e
l'imbastire un discorso per mettere suo padre al corrente degli
ultimi sviluppi. Se completare il primo obiettivo non gli era costato
granché (esclusa una somma non proprio trascurabile
accreditata ad
una delle più importanti boutique di Fegith) il secondo era
rimasto
insoluto, una nube di preoccupazione che si incupì ancora di
più
quando Thomas Heisenhover bussò alla porta dell'appartamento.
Lienhard
lo accolse con un sorriso incerto, consapevole della tempesta che
stava per abbattersi sulla sua vita. Lasciò che si
accomodasse, che
posasse il cappotto - tutto sembrava immerso in una calma irreale, la
quiete prima dello scatenarsi dei fulmini - poi, stranamente
tranquillo, saltò a piè pari i convenevoli e
disse: «In campagna è
successa una cosa che non doveva succedere».
La
voce tremò un po', e Thomas se ne accorse. Allarmato,
scoccò
un'occhiata penetrante al figlio e gli fece cenno di continuare.
"Deve
saperlo. Non è un segreto che posso mantenere, per il mio e
per il
suo bene".
Prese
fiato e gli raccontò in breve quello che era successo.
Impersonale,
come se narrasse di cose che non lo riguardavano − che
importava
della reazione di suo padre, in fondo, se tutti quei ricordi
rischiavano di non significare più niente? −
ripercorse le ultime
settimane, le conversazioni piene di sottintesi, le spirali di
polvere nell'aria ferma della biblioteca, le sfumature liquide degli
occhi di Joseph alla luce del falò e la sua voce spezzata
sotto il
chiaro di Luna. Si sforzò di trasformarle in immagini prive
di
sentimento.
Chiese
perdono alla sacralità di quei ricordi mentre lo sguardo di
suo
padre si riempiva di stupore, e rabbia, e commiserazione, mentre le
orecchie rapaci del vecchio disossavano le trame fatate della
realtà
e ne assimilavano il midollo freddo, colonne di dati e cifre e
previsioni e come hai potuto.
Come
hai potuto, dita fredde sul bavero della giacca e l'impatto
violento contro una libreria, come hai potuto,
narici frementi
e occhi iniettati di sangue e grida inarticolate e rabbia che era
motivata solo in parte, rabbia fomentata dall'incomprensione. La
accolse senza ribellarsi, incassò l'impatto di un pugno
sullo zigomo
che gli fece male in un modo del tutto allucinatorio −
percezioni
marginali, dolore che non riusciva a intaccare lo strato più
superficiale della sua anima − si lasciò
sballottare come una
marionetta.
Hai
messo tutto a repentaglio, gli arrivò, come
attraverso le acque
profonde di una palude.
"Non
volevo. Non riuscivo e non riesco e non riuscirò a rendermi
conto di
quello che ho fatto".
«Se
lo racconterà a qualcuno moriremo entrambi, lo capisci
questo?!».
«Sì».
Non aveva mai pensato a suo padre come ad un uomo violento, non lo
pensò nemmeno quando fu scaraventato a terra e
urtò una pila di
libri con la spalla sinistra.
«In
che rapporti sei con questo Joseph Redthorn? Ti fidi di
lui?».
Ansimando, un pugno stretto attorno alla falda semistrappata della
sua giacca, la testa china su di lui in uno scintillio corale di
occhi e zanne snudate, Thomas Redthorn sembrava l'orco di una fiaba
antica «Dimmi che non sei impazzito del tutto,
Lienhard».
«Mi
fido di lui». Inghiottì un bolo di sangue e saliva
«Non mi
denuncerà, ne sono assolutamente certo». Non era
del tutto vero, ma
suo padre aveva bisogno di quella bugia come lui aveva bisogno di
alzarsi e respirare un po' d'aria fresca.
«Gli
hai parlato di me, per caso?».
«No.
Non sa niente di te o dell'organizzazione».
Glissò
sul fatto che Joseph aveva visto Kaïre e conosceva il loro
legame di
parentela, pur non sapendo quali e quante attività illecite
gestisse
l'albino. Suo padre avrebbe potuto ucciderlo per una cosa del genere.
Thomas
deglutì con quello che sembrava sollievo, lasciando la presa
sulla
giacca del figlio.
«Immagino
che domani sarà presente anche lui».
Quella
frase attraversò Lienhard come una freccia, conficcandosi
nel punto
più nascosto e doloroso della sua anima. Si diede dello
sciocco
mille volte per non averci pensato prima: pur facendo parte del ramo
cadetto di una famiglia enorme, sicuramente anche Joseph sarebbe
stato invitato alla festa di presentazione della cugina.
"Domani
potrebbe essere la resa dei conti".
«Che
cosa...» si asciugò un rivolo di bava rosata
dall'angolo della
bocca e si tirò in piedi, cercando di ridefinire i margini
di un
rapporto padre-figlio che il pugno aveva momentaneamente spazzato via
«... che cosa vuoi che faccia, papà?».
In
quel momento Thomas Heisenhover non era più suo padre, non
era
nemmeno un amico. Era il generale di un'armata pronta a sopraffare il
nemico, e lui rappresentava l'ufficiale pusillanime che aveva
rischiato di mandare a monte un intero piano peccando di negligenza.
Il Ministro non era mai tenero, con quelli che rovinavano i suoi
progetti.
«Non
lo so». Uno bagliore di rabbia fredda negli occhi del padre
lo
avvertì di stare attento, nei minuti successivi, alla scelta
delle
parole «Se questo Joseph è sentimentalmente
coinvolto, cosa
in cui a malincuore mi tocca sperare,» contrasse il viso in
una
smorfia di puro disgusto «allora siamo sicuri che non ci
tradirà.
Potrebbe addirittura rivelarsi una pedina utile, visto il suo
incarico».
Ed
eccola, la faina, pronta a ricavare vantaggio da tutto e da tutti a
spregio dei sentimenti. La prospettiva di coinvolgere Joseph nei
piani di suo padre travolse Lienhard come un'ondata di nausea, ma non
ebbe il coraggio di obiettare: aveva dato inizio lui a quella
valanga, stava a lui arginarne le conseguenze. A mente fredda, quando
suo padre si fosse calmato, avrebbero potuto discutere seriamente
della cosa.
«Che
aiuto potrebbe darti? Non è coinvolto nel reparto
anti-contrabbando,
non−»
«Stiamo
avendo alcune... fughe di dati, ultimamente». L'espressione
di
Thomas si appianò in una maschera di rabbia serafica,
spietata
«Beatrisa Zajitzeva ha giustiziato una talpa, e la speranza
è che
non ce ne siano delle altre. Joseph Redthorn non sarà un
ufficiale
di grado alto, ma il suo cognome apre molte porte in certi
ambienti».
Sogghignò, come se con quella frase la spiegazione apparisse
perfettamente esauriente.
«Non
sperare che cerchi di convincerlo, non domani».
«Non
l'ho mai sperato, sarebbe prematuro. Prima dobbiamo aspettare che la
situazione si stabilizzi, e mi auguro che tu sia abbastanza
intelligente per capire da solo cosa fare. Da parte mia farò
in modo
di non perdere d'occhio quel soldato». Lienhard
annuì, mentre suo
padre afferrava il cappotto e l'infilava frettolosamente.
«Sai
che non l'ho fatto per danneggiarti». Tentò,
accorgendosi che le
mani gli tremavano «È stato più forte
di me».
"È
stata la mia natura di omega", avrebbe voluto aggiungere, ma
si vergognò soltanto per averlo pensato. Non poteva cercare
giustificazioni tanto meschine davanti a qualcuno che lo aveva sempre
amato per quello che era.
«In
alcuni frangenti anche gli uomini più svegli si comportano
da
imbecilli». Thomas aprì la porta e
sostò un attimo sulla soglia,
guardando suo figlio con rabbia e rammarico «Mi dispiace,
Lienhard.
Non posso perdonare quello che hai fatto, anche se vorrei con tutto
me stesso».
«Perdonami».
Abbassò lo sguardo, le guance in fiamme.
«Dovrai
guadagnarti il perdono. Domani fatti trovare pronto per le otto e
mezza».
Lienhard
rimase solo, con la sensazione di avere una vita in frantumi da
ricomporre e nessuna idea su come farlo.
◦○◦
La
porta dell'ufficio di Garett Mitchell appariva, per qualche strano
motivo, più spoglia e severa del solito. Joseph la
contemplò in
silenzio per una decina di secondi, poi deglutì.
Il
corridoio era vuoto, bianco e freddo e orribilmente monotono. La
calma impersonalità della centrale faceva a pugni con la
confusione
rabbiosa che gli corrodeva il cervello, lo destabilizzava; se
quell'edificio − e la gente che lo abitava, più
precisamente −
avesse avuto un'aria anche solo vagamente accogliente, amichevole, di
casa, Joseph non avrebbe avuto dubbi nella scelta.
Così,
invece, era tutto più difficile.
In
campagna, con il viso di Lienhard negli occhi e la sua voce nelle
orecchie, per un momento i dubbi avevano smesso di torturarlo e
Joseph si era detto che no, non avrebbe mai potuto denunciarlo alle
autorità cittadine. Tornato a casa, però, con
giorni interi a
sbiadire quei ricordi e il lavorio incessante di una routine che
l'aveva inghiottito subito, l'alfa aveva riconsiderato la situazione
più e più volte; il rischio che qualcun altro
scoprisse tutto e lo
accusasse di complicità lo terrorizzava: sarebbe scoppiato
uno
scandalo, la famiglia l'avrebbe ripudiato.
Se
suo padre avesse saputo che cosa stava facendo l'avrebbe ammazzato
con le proprie mani.
Lienhard
era un criminale. Criminale.
Per
quante volte se lo ripetesse quelle parole continuavano a suonargli
false e vere allo stesso tempo. La testa gli scoppiava.
Lienhard
era inaffidabile, gli aveva mentito. Probabilmente lo aveva preso in
giro su tutto − un bugiardo così abile aveva forse
problemi nel
fingere sentimenti? − e stava solo cercando di tenerselo
buono per
evitare complicazioni. Eppure, eppure...
"Non
riesco a crederci davvero. Io ho visto qualcosa nei suoi occhi".
Si
rendeva conto di comportarsi come una ragazzina irresponsabile, ma i
processi razionali della sua mente sembravano decisi a non funzionare
mai più. Gli sarebbe bastato bussare e raccontare tutto al
colonnello Mitchell per risolvere il problema, fare il suo dovere di
cittadino e recare un servizio notevole al casato − gli
odiati
Heisenhover avrebbero ricevuto un colpo da cui era impossibile
riprendersi − ma tutto questo aveva un prezzo. Lienhard.
Gli
sarebbe bastato rinunciare alla pretesa egoistica di quell'amore
assurdo, sbagliato, eppure non poteva. Non voleva.
Stava
per voltare i tacchi e andarsene, quando la porta dell'ufficio si
spalancò e Garett Mitchell in persona fece per uscire. Si
bloccò,
sorpreso, lo sguardo scintillante sotto le sopracciglia folte, ed
esclamò: «Maggiore Redthorn, che sorpresa!
È qui per una questione
urgente?».
Joseph
si sentì soffocare. Eccola lì, la speranza di
redenzione che gli si
offriva spontaneamente, e lui non doveva far altro che accettare.
«Io...»
raddrizzò inconsciamente la schiena, come faceva sempre
davanti ai
superiori «... no, nulla».
Stava
facendo la figura dell'idiota. Ciondolare davanti alla porta di un
superiore senza alcuno scopo non era un comportamento ammissibile per
un militare di grado, e Mitchell aggrottò le sopracciglia.
«La
custodia di quel Lienhard Heisenhover l'ha forse trasformato in un
originale, maggiore? Torni al suo posto, questa caserma ospita
lavativi a sufficienza... non c'è bisogno che anche gli
ufficiali
comincino a bighellonare in giro. Con la confusione che ci
sarà tra
un po' di giorni, poi...»
«Cosa
intende dire, signore?».
«Eh,»
Mitchell strizzò un occhio con aria complice e diede una
pacca sulla
schiena a Joseph «pare che finalmente la nostra centrale
verrà
coinvolta in qualcosa di utile. Tutte lo saranno, a dire il
vero».
«Si
prepara un'azione corale? Dev'esserci in ballo qualcosa di
grosso».
Mitchell doveva essere davvero di ottimo umore per comportarsi con
tutta quella confidenza, e Joseph decise di cogliere la palla al
balzo.
«Al
momento si tratta solo di indiscrezioni, ma pare che entro la fine
del mese intercetteremo un grosso carico di progesterone proveniente
dalle nazioni oltremondo e destinato al traffico illegale qui, a
Fegith. Prenderemo all'amo un pesce grosso, un trafficante di
spicco». Il sorriso di Garett Mitchell contagiò
anche Joseph, che
seppellì il senso di colpa in un angolo e si
lasciò invadere dal
sollievo per quella bella notizia.
«Ho
una telefonata importante da fare, Redthorn. Intende bloccare il
corridoio tutto il giorno?».
«Signore».
Joseph si produsse in un cenno di saluto sbrigativo e si
affrettò ad
abbandonare il corridoio, covando vergogna e senso di colpa. Non
aveva denunciato il professore, ma avrebbe avuto presto occasione di
riscattarsi con un'azione ben più importante.
Sperò
almeno che Lienhard valesse tanto da giustificare tutte quelle bugie.
◦○◦
Suo
padre fu puntuale.
L'accolse
nella vettura con un'occhiata fredda, seduto con compostezza su un
sedile che sembrava fatto di autentica pelle bovina − una
rarità
preziosa fino allo sperpero − mentre l'autista ruotava
dolcemente
la limousine lunga quasi nove metri, acquistata per l'occasione, e
abbandonava il campus dell'Universitas.
«Cos'è
quel coso?». Thomas indirizzò
un'occhiata dubbiosa al
vestito di Lienhard e aggiustò con noncuranza le falde di un
completo di sinto-seta dal taglio classico e, apparentemente, molto
costoso.
«La
moda è una forma di bruttezza così insopportabile
che si è
costretti a cambiarla ogni sei mesi». Lienhard
snocciolò la
citazione senza aspettarsi che suo padre la capisse e puntò
lo
sguardo fuori dai finestrini oscurati, le luci di Fegith che
scorrevano sotto i suoi occhi come un tappeto di stelle fisse
«Non
sei contento che per una volta abbia smesso i miei − cito
testualmente − orribili completi da uomo delle
caverne?».
Thomas
accennò una risata.
«A
volte è difficile scegliere il male minore, Leny».
«Fottiti».
Il
vestito di Lienhard, in pieno accordo con la moda corrente, era una
tuta attillata di ultra-neoprene color argento vivo (le tinte
metallizzate erano tornate in auge quell'anno) su cui scivolava una
tunica di seta semitrasparente, fatta di innumerevoli veli
sovrapposti che riflettevano la luce come gocce d'acqua. Il cappuccio
della tunica si portava tirato su, a coprire i capelli sciolti, e le
maniche lunghissime strusciavano a terra come i paraventi dei
sacerdoti che decoravano le ultime chiese cristiane del satellite.
L'unico ornamento era una cintura d'oro bianco, che si intrecciava
intorno alla vita come se fosse fatta di rami vivi e foglie
intrappolate nell'immobilità del metallo.
«Ricordo
mode meno femminee». Rincarò la dose, Thomas,
mentre trafficava con
il suo O-Screen di ultima generazione «A proposito, tua madre
stasera non verrà».
«Come
mai?».
«Non
ne aveva voglia. Non ama le occasioni mondane, lo sai. Come mai ti
sei tolto gli occhiali?».
Lienhard
si stropicciò gli occhi, sperando che le nanomacchine
correggi-miopia ad effetto temporaneo facessero il loro lavoro fino
alla fine della serata.
«C'entravano
poco con l'ultraneoprene. E comunque l'anno scorso mi sarebbe andata
peggio... era tornata di moda la pelle nera, giusto?».
«E
le piastre metalliche. Fegith sembrava piena di cavalieri
medioevali».
Il
viaggio non durò che un quarto d'ora, al termine del quale
la
vettura accostò con dolcezza accanto alla residenza dei
Redthorn.
Lienhard si prese un po' di tempo per ammirarla silenziosamente,
attonito.
La
chiamavano Babilonia, e a ragione.
L'autista
sostò davanti agli imponenti campi di forza che proteggevano
la
residenza cittadina dei Redthorn come un guscio iridescente. Il
palazzo che si scorgeva dietro gli schermi, deformato leggermente
dalle onde elettromagnetiche cromatizzate (si voleva evitare che
qualche non-autorizzato sfiorasse quelle barriere letali per sbaglio)
somigliava ad una piramide di cristallo nero dagli spigoli
acutissimi, che si proiettava verso il cielo in un susseguirsi di
gradoni e pareti vetrate.
Ciascun
gradone ospitava file e file di serre protette da cupole sottili come
tele di ragno, un'esplosione di piante aliene che spandevano profumi
soffocanti nell'aria calda della sera; solo le piante autoctone di
Nenya venivano lasciate crescere senza alcuna protezione, e
debordavano dai cornicioni in cascate di verdi rampicanti. L'effetto
complessivo era un'esplosione di vita e ricchezza strabiliante,
l'opulenza grandiosa che i Redthorn amavano ostentare.
Per
quella sera, il giardino che circondava la piramide era illuminato da
globi luminescenti che danzavano a mezz'aria come fuochi fatui.
Lienhard e suo padre attraversarono il campo di forza senza alcun
intoppo − riconosciuto il DNA del ministro grazie ad una
serie di
nanomacchine che gravitavano al suo interno, la barriera si
aprì
come il lembo di una tenda − e, mossi alcuni passi sul prato
perfettamente curato, furono intercettati da un cameriere beta in
livrea.
L'abito
che indossava era fatto di una materia plastica particolare, lo
shape-shifting silicon (spesso abbreviato in 3S) o
silicone
mutaforma, che aleggiava intorno al suo corpo come una nuvola di
sferette connesse da sottili filamenti di gelatina. Le microsfere si
spostavano autonomamente, ricombinandosi in forme spettacolari:
quando li accolse, il cameriere era avvolto da una pelliccia di leone
che rifletteva la luce come argento fuso, le fauci della belva
avvolte attorno al capo in un ultimo bacio mortifero. Dopo pochi
minuti il 3S riprodusse con realismo incredibile due enormi ali di
cigno, che ondeggiavano sulle spalle del beta come se fossero dotate
di vita propria.
"Ne
hanno spesi, di soldi".
«Lord
Fabian vi attende». Cinguettò, i grandi occhi
verdi truccati di
bianco e argento. Non sembrava nemmeno un essere umano, piuttosto
un'apparizione fugace emersa dai raggi di luna.
«Il
Gerarca è ancora malato? Porgetegli i nostri
ossequi». Thomas chinò
il capo con affettazione, mentre il cameriere li conduceva attraverso
il giardino; qui e là, su piedistalli di pietra chiara e
opaca,
statue a tema mitologico scolpite nella magnetite ornavano il
giardino. Lienhard riconobbe Jormungandr, il serpente che in miti
antichissimi circondava la Vecchia Terra con il suo intero corpo, e
la figura aggraziata di Leda, la donna che si fece sedurre da un Dio
mutato in cigno. Si fermò, incuriosito, davanti ad una
statua più
elaborata delle altre: raffigurava un uomo nell'atto di cadere da
quella che sembrava una grande altezza, con due enormi ali posticce
assicurate alla schiena da un'imbracatura di corde. Interi ciuffi di
piume si erano staccati e fluttuavano nell'aria, scolpiti con tanta
abilità da essere semitrasparenti, sottili come capelli, e
il volto
dell'uomo appariva deformato dall'orrore in una maschera bestiale.
«Chi
è?». Chiese al cameriere «Non conosco
questo mito».
Il
beta fece spallucce, un'ombra di imbarazzo negli occhi limpidi:
«Non
lo so, signore. Quello che posso dirle è che queste statue
sono
state commissionate da Lord Fabian Redthorn in occasione della festa,
e sono ispirate a numerose leggende di origine antichissima. Lord
Fabian ama particolarmente il folklore della Vecchia Terra, e nella
sua biblioteca privata conserva molti volumi di storie dell'antica
Gea».
Fabian,
alfa di trentacinque anni già inserito nella politica di
Fegith e
magnate nel commercio dell'oppio, era una delle creature più
tronfie
e arroganti che Lienhard avesse mai avuto occasione di incontrare
−
da lontano e per poche volte, fortunatamente. L'idea di porgere i
suoi ossequi ad un simile pallone gonfiato − colpevole, tra
l'altro, di possedere una biblioteca privata che gli faceva gola
−
gli torse lo stomaco in uno spasmo doloroso. Mise su il sorriso di
repertorio più convincente che possedeva e iniziò
ad inerpicarsi
sulla scalinata d'ingresso, una monumentale scultura di quarzo
fumé
illuminata da migliaia di lampade fluttuanti.
Prima
di entrare nell'atrio della piramide lanciò una breve
occhiata alle
sue spalle, scoprendosi a frugare tra la folla con una certa ansia.
"Dove
sei, Joseph?".
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Dov'eri,
Greedfan? E perché ti dai alla macchia invece di aggiornare?
Scusate,
ragazzi, scusate davvero. Negli ultimi mesi me ne sono successe di
tutti i colori (cose estremamente positive e altre negative) e la mia
vita si è riempita a tal punto che per un po' non ho avuto
tempo di
scrivere e, soprattutto, non ho saputo trovare la motivazione
necessaria.
Adesso diciamo che ho scoperto una nuova vena
d'ispirazione e che sono pronta a chiudere questa storia (siamo
già
oltre la metà, non manca poi così tanto alla
fine).
Mi
auguro che l'assenza prolungata non abbia spento i vostri animi,
fatemi sapere se l'evolversi della vicenda vi piace e lasciatemi
qualche commentino :3
Alla
prossima,
GreedFan
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