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created by Alvin
Miller
IL
QUARTO ATTACCO
Parte
1/3: Occhio giallo su Canterlot
La
sala del trono era nel subbuglio più totale.
Il
seggio di Celestia, che di solito era fissato su una grande colonna
dorata in fondo alla stanza, ora volteggiava nell’aria
distaccato del resto del pilastro, con Discord che vi sedeva sopra
crogiolandosi beatamente sulla comoda imbottitura rossa, ma non era che
una piccola parte di ciò che nel complessivo il suo
passaggio aveva provocato.
Le
piastrelle bianche e nere del pavimento sottostante, per esempio,
stavano saltellando a intervalli regolari da una locazione
all’altra, modificando la propria disposizione originale
nella griglia della scacchiera. Era una burla divertente, ma
in fatto di stramberie non poteva competere con il piccolo agglomerato
di nubi – ampio poco più di due metri –
che fioccava in orizzontale una scia di nevischio che si stava
accumulando sulla parete frontale.
Che
cosa dire, poi, delle vetrate commemorative che celebravano con i loro
colori sgargianti i principali eventi della storia di Equestria? In una
di esse – la
sconfitta di Nightmare Moon
– la lastra di vetro a mosaico stava ruotando su se stessa
come l’elica di una ventola dell’aria condizionata
(emettendo, però, aria calda e accogliente, ideale per la
stagione), mentre in un’altra – il
matrimonio di Shining Armor e Princess Cadance
– i due sposini fluttuavano all’interno
della rosea superficie con espressioni affrante e addolorate, mentre
cercavano invano di afferrarsi gli zoccoli a vicenda.
Qualcuno, poi, vedendo lo Spirito del Caos cavalcare una neo-eletta
Principessa dell’Armonia nell’omonima vetrata,
avrebbe certamente trovato la cosa buffa e originale, ma Twilight
niente affatto.
Per
commemorare la sconfitta dei Kaiju nel corso dei mesi precedenti, erano
anche state commissionate delle lastre in ricordo dei precedenti
attacchi, e ora in ognuna di esse un impavido Discord dominava
dall’alto dei corpi dei defunti mostri, in pose eroiche, e
circondandosi talvolta dalle Principesse, talvolta dalle Custodi,
oppure da semplici abitanti di Equestria che lo riempivano di elogi
come se fosse stato lui il loro salvatore.
A
questo punto ci si sarebbe domandati che fine avessero fatto le Guardie
Reali, e perché gli avevano permesso di sguazzare
all’interno della sala come un puledrino dentro una scatola
dei giochi.
Per
avere una risposta bastava proseguire con l’elenco delle
opere perpetrate dal draconequus:
Due
di essi erano stati ipnotizzati e ora stavano correndo in senso orario
e antiorario sulle pareti e sui soffitti della sala, senza subire in
alcun modo gli effetti della gravità, come due criceti che
correvano su una ruota, dove però essa era ferma e loro
ruotavano. Un altro era imprigionato all’interno di una
grande lastra di carbonite accanto alla colonna del trono, stretto in
una morsa di puro terrore mentre protendeva in avanti la punta della
sua lancia, a dimostrazione del suo futile tentativo di difendersi.
I
tre militari sottoposti all’incanto caotico erano gli unici
di cui si ebbero notizie, ma persino un umile contadino di campagna
avrebbe saputo che non potevano certo essere gli unici ad aver tentato
la difesa del trono. Qualcun altro era certamente intervenuto, ma dove
fossero finiti tutti, nessuno lo sapeva.
Solo
in un secondo momento, quando cioè ne volteggiò
uno vicino a Twilight, le due Principesse si accorsero che
c’erano piccoli serpentelli verde-prato che stavano
strisciando a mezz’aria, come fossero poggiati su
un’invisibile superficie sospesa. Erano forse loro le Guardie
Reali assenti all’appello?
«Twilight,
mia cara quanto tempo! Vieni, abbracciami, non hai idea di quanto mi
sei mancata!» Discord si calò insieme al trono,
ricongiungendolo al resto della colonna. Con uno schiocco delle dita
fece scomparire di dosso la corona e la mantella rosso-scuro che
indossava, per dopo alzarsi in piedi allargando le braccia, pronto ad
accoglierla a sé.
Lei
se ne rimase ferma sul posto, mutata dallo stupore e con la bocca che
le precipitava dalla sorpresa.
Celestia
le passò oltre, avvicinandosi all’allegro spirito
del caos. «Tu non dovresti essere qui, Discord!
L’accordo prevedeva che ti avrei contattato io!»
Disse con un timbro di voce indispettito, svelando ai presenti trame di
cui Twilight non era informata.
L’alicorno
viola si accigliò, corrugandosi la fronte mentre la voce
della sua testa le domandava di quale accordo la sua Mentore stesse
parlando.
«Beh,
credevo che ai miei amici avrebbe fatto piacere una visita di cortesia,
e che quindi non avrei dovuto aspettare un’udienza formale
per presentarmi. Ma è evidente che sono il benvenuto solo
quando vi fa comodo!» Incrociò le braccia e si
voltò dall’altra parte, imbronciato. O per essere
più chiari, la testa si voltò, compiendo un arco
di 180°, mentre il resto del corpo rimase impassibile di fronte
a loro. «E pensare che ho anche portato i
cioccolatini!» Aggiunse, prima che una scatoletta quadrata
dalla pregiata fattura (sottratta di straforo da una pasticceria della
capitale, mentre un cliente si stava apprestando ad afferrarne il
nastro decorativo d’oro tra i denti) comparisse
nell’aria per poi cadere riversando sul tappeto rosso tutto
il suo contenuto.
«Non
peggiorare le cose, non è il momento adatto!» Lo
ammonì Princess Celestia, puntando con un cenno del mento
alla direzione della giovane giumenta.
Twilight
pensò e ripensò, quando poi
un’intuizione irruppe nella sua testa come un Kaiju che
devasta un grattacielo con una sferzata di artiglio, e si
sentì d’improvviso cader addosso le pareti della
sala, ma questa volta non a causa del giogo di Discord.
«Un
momento!» Esclamò rivolgendosi a Celestia.
«Principessa… il vostro piano per i
Kaiju… non vorrete dirmi che è… LUI?!»
La
testa di Discord ritornò nella giusta posizione e il
draconequus si mise a braccia conserte in posizione fiera, con degli
occhiali da sole neri che gli coprivano gli occhi. «In carne
e caos!»
La
sovrana le confermò tutto, sospirando pazientemente.
L’alicorno
viola sentì un reflusso gastrico risalirle il condotto della
gola, e dovette sforzarsi per reprimerlo insieme all’attacco
d’isteria che le era divampato nel petto.
«E… e il Programma Muraglia? E il Vello
Oscuro… Principessa, non per mettere in discussione il
vostro giudizio… ma io… pensavo che le nostre
intenzioni fossero di proteggere le città, non di
distruggere l’intera Equestria!»
«Qual
è il problema, stellina?
Stai forse insinuando che io, il bravo, prode, nobile e generoso
Discord, sia troppo inaffidabile per un incarico così
delicato?» Intorno a sé, mentre parlava,
comparvero sospese nel vuoto delle cornici con foto di dubbia
autenticità: in una lo Spirito del Caos stava leggendo un
libro di favole ai puledrini di un orfanotrofio, in un’altra
era a capo di una squadra di foal-scout, nella terza distribuiva
razioni di cibo alle affamate Zebre della Savana.
«Guardati
intorno!» Esplose lei ringhiando.
Il
draconequus fece scomparire le fotografie e mosse lo sguardo prima a
destra e poi a sinistra, fornendole una scusa che le fece soffiare fumo
dalle narici: «Mi annoiavo.»
«Adagio
voi due.» Li riprese la Principessa del Sole prima che il
confronto degenerasse. «Twilight, sono consapevole che
Discord in passato non era certo celebre per essere un buon
samaritano…»
Nel
frattempo l’essere alle spalle della regnante aveva montato
un faccino adorabile e un sorriso istigante più al
draconicidio che non alla compassione.
«…
ma sono convinta che le sue capacità potranno fare molto per
aiutare Equestria in questi momenti bui.»
«Già,
sono il memorabile “Piano
D” di
Canterlot! Dove la D sta per Divino,
se posso permettermi!» Si auto-compiacque guardandosi
attraverso uno specchio che aveva materializzato nella robusta mano da
leone.
“A
questo punto tanto valeva accettare l’aiuto di Bibski
Doss!” Pensò
di pronunciare Twilight, riallacciandosi così alla
conversazione di poco prima, ma ciò che le uscì
dalla bocca fu solo un urlo contrito in gemiti soffocati.
Celestia
non si rendeva conto della gravità della situazione, o se
così era, non era abbastanza obbiettiva nel valutare le
opzioni.
Insomma…
Discord?! Come poteva la Principessa pensare che
un’incontrollabile calamità naturale come lui
fosse un’alternativa più congeniale di…
beh, qualunque cosa avesse avuto in mente l’inventore di
Manehattan?!
“No,
sbaglio a pensare così!” Si
ammonì, reprimendo il pensiero. “Lei
è Princess Celestia, ha regnato su queste terre per secoli!
Devo fidarmi del suo giudizio, sono certa che sa quello che
fa…” la
giumenta continuò a riascoltare la voce della sua testa,
cercando di convincersi che le parole di Doss la stavano influenzando
con troppa facilità, e si morse con forza la lingua per fare
ammenda del suo iniziale scetticismo.
Nel
frattempo, un serpentello fluttuò davanti al muso della
Principessa del Sole, solleticandole il naso. Questo le fece ricordare
qualcosa.
Si
volse verso Discord, tramutando improvvisamente il suo atteggiamento.
«Ciò non toglie che non dovresti essere
qui!»
La
chimera cornuta fu sottomessa alla voce imperiale della regnante.
Si
sentì piccolo di fronte a lei, e per enfatizzarlo si
rimpicciolì di dimensioni, arrivando a raggiungere a
malapena l’altezza delle sue ginocchia.
Si
mise anche a parlare con un timbro di voce più acuto, che
ricordava quello di uno scoiattolo canterino. «Ho percepito
una distorsione nel flusso quantico
del caos» spiegò «così ho
pensato di venire a indagare e a mangiarmi qualche biscotto, ma dato
che non ho trovato nessuno mi sono detto “Beh, che cavolo!
Sarebbe da maleducati andarmene senza salutare!” e
così sono rimasto. Poi però sono arrivate le
Guardie, e allora ho proposto di giocare a Risiko mentre aspettavamo il
vostro ritorno, ma temo che non avessero bene in chiaro quali fossero
le regole: hanno centato di arrestarmi!»
Nel
frattempo, i due militari sotto ipnosi non la smettevano di sgaloppare
per la stanza come levrieri impazziti.
Stanco
di ascoltare il loro incessante battere di zoccoli, Discord
schioccò le dita sottoponendoli a un altro dei suoi
incantesimi, che li tramutò tutto d’un tratto in
una singola fontana di marmo perfettamente funzionante, posta in mezzo
alla sala, dove i due, ridotti a statue, schizzavano dalla loro bocca
rivoli di acqua che scrosciavano educatamente sulla vasca sottostante.
Le
Principesse non sembrarono gradire la nuova decorazione, almeno a
giudicare dalle loro espressioni.
Discord
tornò alla sua reale dimensione ed estrasse dal suo orecchio
sinistro tre gallette, offrendone un paio alle pony. «A
proposito, volete un biscotto?»
Dei
rivoltanti grumi di cerume ne stavano caramellando la crosta esterna.
Twilight
nitrì disgustata, mentre Celestia cercò di
manifestare il suo ribrezzo in maniera molto più garbata.
«Ehm… no, grazie.»
«Hmph,
meglio così. Tanto sono appena finiti.» Le tre
gallette si ridussero a una soltanto e questa finì dritta
nella bocca dello spirito serpentiforme.
Per
la seconda volta consecutiva la Principessa dell’Armonia
trattenne un conato di vomito. Alla terza volta, ne era sicura,
qualcosa ne sarebbe uscito.
«Devo
convenire che intendi restare, perciò?» Chiese
Celestia, oramai rassegnata all’evidenza dei fatti.
«Sì,
pensavo di fermarmi giusto cinque
o sei anni,
sempre che vogliate accogliermi nelle vostre umili dimore…
»
La
Principessa sbuffò, cedendo arrendevolmente alle sue
richieste. «Essia… »
«YUHU-HUUU!!»
Petardi e fuochi d’artificio esplosero alle spalle del
draconequus, facendo trasalire dallo spavento le ignari bisce che
tutt’ora stavano scorrendo alla rinfusa nell’aria.
«…
ma a una condizione!»
«Che
paa... aarticolare
genere di condizione?!» Si corresse all’ultimo,
sorridendo sornione.
«Riporta
la sala del trono nelle condizioni in cui l’hai
trovata!» Rispose con autorevolezza, cui seguì tra
i due un breve momento di muta sospensione.
«E
va bene, se proprio insisti… » quindi, con uno
schiocco delle dita le vetrate e le piastrelle del pavimento tornarono
nel loro stato originale, con un colpo di tosse i serpentelli volanti
caddero a terra per poi svanire nell’etere, e la nuvola che
nevicava in orizzontale si dissolse nell’aria dopo che
Discord vi ebbe starnutito sopra, portandosi via anche la montagnola di
neve sulla parete.
Si
armò di martello e scalpello, e con un paio di battiti in
punti apparentemente casuali della base, la fontana marmorea si
frantumò ritrasformandosi nelle due Guardie Reali,
liberatesi anche dall’ipnosi che le aveva tramutate in
trottole impazzite prive di controllo.
Dal
dito indice (aquilino) dello spirito caotico parti un raggio rosso che
liberò dalla sua prigionia anche lo stallone nella lastra
metallica.
«Ecco
fatto.» Annunciò sbattendosi i palmi, tuttavia
Celestia non sembrava ancora soddisfatta del suo operato.
«Non credere che non mi sia accorta di quelle!»
Disse, accennando alle due anfore decorative ai lati del portone, che
Twilight, constatò, non aveva notato fino a quel momento.
Erano
grandi, dorate e ricche di elementi decorativi, con dentro dei mazzi
bicolore di rose dai petali bianchi
e neri.
Studiandole
più attentamente, però, avevano anche un che di
familiare, che sul momento non riuscì ad afferrare.
«Ma
andiamo! Ravvivano il feng shui!» Protestò il
draconequus.
«Obbedisci!»
Ordinò la sovrana, picchiando con la suola di un
coprizoccolo.
Discord
borbottò qualcosa sottovoce e con due colpi dei tacchi
lanciò il contro-incantesimo che restituì alle
anfore la loro reale forma: tutte le rimanenti Guardie Reali assenti,
dai manti bianchi e neri come i fiori, riapparvero al loro cospetto,
per unirsi poi ai cori lamentosi dei colleghi precedentemente liberati.
Si
aiutarono tra loro a rialzarsi e si risistemarono le corazze, mentre
qualcuno tra i guerrieri più giovani puntò
d’istinto la propria lancia al draconequus.
«Ora
posso restare?» Chiese risentito, senza badare più
di tanto alle minacce che gli venivano intimate.
Con
un cenno del capo, la Principessa ordinò ai militari di
lasciare la stanza.
«Solo
se prometti di non usurpare più il mio trono.»
Rispose, sorridendogli candidamente.
«Parola
di Lupetto!» Sollevò la mano destra
all’altezza delle tempie e formò una
“V” servendosi dell’indice e del dito
medio.
Una
frustrata Twilight Sparkle si fece avanti tra i due, imponendo la sua
presenza. «Così… ora sarà
lui a difendere le città dai mostri?»
*Boop*.
Discord
si chinò su di lei e le toccò il muso con la mano
da rapace. «Così sembra, mia stellina adorata.
Perché, sei forse gelosa?»
«Non
è del tutto esatto.» Chiarì
l’alicorno dal manto bianco, rovinandogli
l’entusiasmo. «Gli Elementi dell’Armonia,
insieme alla Muraglia, rimangono ancora le nostre migliore opzioni di
difesa.»
«Cosa??
Ma io pensavo che… »
«La
nostra priorità è contenere al minimo i danni che
una manifestazione porterebbe con sé.» Lo
interruppe. «Non è prudente ingaggiare fin da
subito uno scontro diretto con i Kaiju. Se come teme Twilight i mostri
si stanno rafforzando, vorrà dire che per te sarà
il momento di entrare in campo quando ogni altra alternativa
sarà resa vana.»
Twilight
sorrise sotto i baffi, mentre tra sé e sé
sospirava di sollievo.
Grazie
al cielo Celestia aveva dimostrato che tra i suoi crini era ancora
abile a nascondere qualche asso.
«Bah!»
Strettosi sulle spalle, Discord camminò fino alla vetrata
commemorativa del primo attacco, dove un sanguinario titano dalle
grandi zampe artigliate demoliva i palazzi di Manehattan tra le grida
di paura dei poveri pony che cercavano di mettersi in salvo.
«Uno s’impegna a rigare dritto e guarda come lo
trattano!» Borbottò inginocchiandosi a terra e
portandosi le mani all’altezza cuore. «O misero me,
o tapino draconequus, cui animo caritatevole non trovar mezzi per dar
prova a codesti suoi amici del rinnovato… ehm…
“voler bene”… ch’egli ha pieno
il cuore, e cui suo desiderio e voler è di farne dono!
Ché nessuno mi vuol bene?»
Poi
una lampadina si accese sopra la sua testa, prima di esplodere in
nugoli di frammenti vetrosi. «Or
che la mia mente rimembra… ma dov’è
quelle delizia di puledrina cui soventi noi siam chiamar Furthersky?
Lei sì che di tanto… ahm “voler
bene” i zoccoli suoi son pregni!»
«FlutterSHY!»
Lo corresse Twilight, acidamente. «E comunque non
è qui in questo momento!»
«Oh…
dispiacer grave.» Continuò, sospinto dalla
corrente ispiratrice. «Qui urge un intervento
dall’alto.» E schioccò le dita per
l’ennesima volta, facendo sì che
nell’aria comparisse dal nulla…
Nel
frattempo.
Le
Custodi stavano percorrendo gli eleganti sentieri in pietra della
capitale, marciando nella direzione che le avrebbe ricondotte alla
stazione dei treni.
Nel
mentre, chiacchieravano del più e del meno, cercando di
allontanarsi come meglio potevano dai cupi pensieri che avevano
accompagnato le loro ore più recenti.
Rarity
non la smetteva di estasiarsi per lo sfarzo della popolazione e per le
variegate meraviglie che esponevano i numerosi negozi d’alta
moda. Cosa che le fece ricordare, ad un certo punto,
dell’odiosa Silly Turnip che probabilmente
l’attendeva da giorni all’entrata della Carousel
Boutique, col suo bagaglio di obesità inammissibile e quel
pessimo gusto per il vestire che non avrebbe certo sfigurato ad una
serata di gala tra muli da soma.
“Ammesso
e non concesso di non imbattersi in lei mentre marciamo.”
Fu il pensiero che la colpì mentre cercava di scacciare da
sé la brutta immagine di lei che le compariva davanti.
Pinkie
Pie, intanto, se la rideva blaterando come di consueto di qualunque
cosa la sua mente iperattiva concepisse, sebbene quel giorno apparisse
più tesa del solito, come se si sforzasse di tenere nascosto
qualcosa che la inquietava. Fatto che non mancò di farsi
notare dall’occhio vigile di Applejack, che ancora non si
dava pace per le domande che continuavano a sorgerle spontanee riguardo
all’incubo della pony in rosa.
E
Fluttershy invece? Era talmente mite e silenziosa che fu quasi come se
la sua amica nemmeno ci fosse…
A
questo proposito Applejack fu colta da un sospetto. Si voltò
verso di lei col fiato sospeso, convinta senza un apparente motivo che
non fosse più con loro, solo per appurare che
infatti… stava trottando accanto a Rarity, con le lunghe
ciocche della criniera rosa che le coprivano gran parte del volto.
Si
girò nuovamente in avanti, rilassandosi. Cosa
sarà andata a pensare?
«Voi…
ahm… pensate che sia tutto a posto…
lassù…» farfugliò la Custode
della Gentilezza, mangiandosi metà delle parole nel
tentativo di completarsi.
«Per
cortesia, tesoro, potresti aumentare il tono della voce? Certe volte ti
esprimi in modi davvero incomprensibili!» La
richiamò l’unicorno della Generosità,
sul cui dorso Spike si stava trastullando con la delicata criniera
gelso chiaro, passandosi i ciuffi tra le dita delle zampe e sulle
guance squamose.
«Oh…
scusa Rarity, io… non volevo… non parlo
più… »
Applejack
sospirò vigorosamente. «Parla, zuccherino. Nessuno
qui ti vuole azzittire.» Le uscì una frecciata non
volutamente diretta all’amica bianco-perla.
«Ok…
ehm dicevo… è già passato parecchio da
quando ci siamo divise… pensate che Twilight abbia chiarito
con Celestia? La Principessa sembrava davvero triste quando siamo
atterrate a castello… »
«E
perché non dovrebbe, scusa?» Chiese il draghetto,
prendendosi una pausa dalla sua feticistica attività.
«Lei è Twilight Sparkle! Non mi viene in mente
nessuno più bravo lei per queste cose!»
«Spike
ha ragione! Vedrai, tra qualche minuto atterrerà tra di noi
in un battito di ciglia!» Disse Rarity.
«Sì,
e poi io offrirò il gelato a tutti!!» Se ne
uscì Pinkie Pie, senza che a nessuno fosse passato per la
testa d’interpellarla. «Io ne voglio uno con sette
palline: fragola, cioccolato, cocco, zucca, fragola,
pizza, carota!!»
«Hai
ripetuto “fragola” due volte, Pinkie.» Le
fece notare l’amica dal manto arancione.
Lei
la prese per il collo e la avvicinò a sé.
«Ho detto SETTE
PALLINE!»
Ripeté ringhiandole addosso.
«Ehh…
eheh… vaaa bene!»
Pinkie
allentò la presa e si mise a molleggiare verso la gelateria
più vicina, mentre Applejack si massaggiava la gola
indolenzita. Quando, poi, la pony in rosa arrivò a
metà della strada, si fermò
d’improvviso per poi fare marcia indietro sui suoi passi.
«Nahh, oggi non mi va.» Disse mestamente, smettendo
di rimbalzare.
Il
gruppetto di amiche si fissò l’un
l’altro scrollandosi le spalle.
«Ehi,
ragazze! Yu-huu!»
Una
voce familiare le chiamò.
Si
guardarono intorno smarrite, finché Applejack non decise di
alzare lo sguardo oltre l’arcata del suo campo visivo.
Vide
Rainbow Dash volare in picchiata verso di loro, con la faccia di chi
aveva qualcosa di veramente figo da raccontare.
Atterrò
a qualche metro di distanza, talmente eccitata nel compimento della
manovra da finire quasi per schiantarsi sulla solida carreggiata.
«Non
indovinerete mai chi ho incontrato!» Disse sistemandosi
frettolosamente il piumaggio delle ali.
«Fammi
indovinare, vado a istinto eh: uhm… qualche Wonderbolt che
si stava allenando sulle mura della città?» La
prese in giro la cowgirl.
«Molto
meglio, molto meglio!»
«Oh
Applejack, ma è chiaro, non ti pare? Ha avuto una squisita
conversazione con quel pegaso di cui si è invaghita tempo
fa!» Rilanciò Rarity.
«Ah
già. Com’è che si chiamava?
“Fulmine”? O qualcosa del genere…
»
«Cosa?!
Ehm… no, no! E comunque si chiama Soarin!»
Arrossì. «E poi… lui non è
neanche qui… » si mise a grattare nervosamente sul
pavimento di pietra.
«E
questo è un vero peccato, giusto?»
Continuò la pony col cappello desperado. Sia lei che Rarity
presero a sghignazzare.
«Ma
insomma, non è niente di tutto ciò! Ho soltanto
rivisto Gilda!»
«CHI?!?»
Esplosero in coro Pinkie Pie e Fluttershy. Le altre invece smisero di
ridere.
«Esatto:
Gilda!» Ripeté la pegaso arcobaleno.
«E
questa sarebbe la buona
o la cattiva
notizia?» Chiese Applejack, sospettosa.
«Eheh,
non c’è un’altra notizia, solo
questo!»
«Tesoro,
ti sei forse dimenticata di come si è comportata
l’ultima volta? Hai bisogno che te lo rammentiamo?»
«Ma
no, ragazze, non è più così! Ora
è cambiata (beh… in un certo senso)…
è una dei pezzi grossi dell’Aviazione dei grifoni
che stazionano sulle mura! È una Sergente della
flotta!»
«Sto
ancora cercando di capire quale sia la buona
notizia…»
«Ooh
ma insomma!»
Mentre
la discussione tra la pegaso, l’unicorno e la pony di terra
perseguiva, alcune scintille di magia caotica iniziarono a sprizzare
dal manto giallino di Fluttershy, che finì per avvolgerla in
una luce abbagliante prima che lei avesse tempo di reagire. La giumenta
squittì mentre veniva ghermita dall’incantesimo, e
dissolta in un attimo sotto gli sguardi inarcati delle amiche.
Le
Custodi si voltavano qui e lì come a chiedersi
“È successo veramente?”.
«Ehi
ma… dov’è finita?!» Chiese
Rainbow Dash, che fu anche la prima ad aver posato gli occhi su di lei
mentre veniva dissolta.
«Era
con noi un attimo fa! Qualcuno ha capito che è
successo?» Applejack le interpellò uno ad uno, ma
tutti ne sapevano quanto lei.
Rivolse
la domanda anche a Pinkie Pie, ma quando vide la bruma di terrore sul
volto della pony, il suo cuore smise di battere.
«Pinkie…
va tutto bene?»
Tutto
in quel momento tacque, come se una forza misteriosa avesse risucchiato
dalla realtà i suoni del mondo.
I
loro stessi spiriti palpitavano all’interno dei loro corpi,
come se cercassero di fuggire prima che tutto andasse in rovina.
La
Custode dell’Elemento della Gioia manteneva il suo sguardo
fisso in un punto sull’orizzonte della città.
Le
sue amiche non potevano saperlo, ma attraverso le sue pupille stava
vedendo uno scorcio di quello che sarebbe successo da lì a
poco.
«Pinkie…
?» Chiamò di nuovo Applejack.
Pinkie
Pie farfugliò qualcosa e la sua voce uscì come un
soffio leggero, come se temesse che spezzando quel silenzio profondo,
il male infimo che stavano guardando i suoi occhi potesse incorporarsi
travolgendo il tempo e la realtà.
Ciò
che disse fu «è qui… » e poco
dopo su Canterlot si riversò l’inferno.
Fluttershy
atterrò goffamente sul tappeto rosso della sala del trono,
emettendo un singulto al contatto col suolo.
«Oh,
or quindi eccola giungere dinanzi a noi!» Esultò
Discord, applaudendo a se stesso.
Twilight
corse a dare assistenza all’amica. «Stai
bene?» Le chiese con premura.
«Io…
credo di sì… ma che è
successo?»
«Indovina…
» le indicò con gli occhi dove guardare.
Fluttershy
sporse il collo, e strillò con sorpresa quando vide il
draconequus che l’aveva condotta fin lì farle
“ciao ciao” con la mano leonina.
«Discord!!»
Allontanò bruscamente da sé l’amica
alicorno e si tuffò tra le braccia della chimera.
«Dove sei stato? Ero così preoccupata! Pensavo ti
fosse successo qualcosa!»
«Eheh,
rilassati. Sono stato via solo per un po’!» Le
disse allontanandola delicatamente da sé.
«Le
hai ricevute le ultime lettere che ti ho inviato, vero?»
Chiese Fluttershy, ansiosa.
Twilight
ruotò la testa da un lato. «Voi due vi scrivete
delle lettere?»
«Puoi
giurarci!» Annuì Discord, facendo piovere sulla
testa dell’alicorno viola una cascata di buste aperte.
«Tra amici
è
una cosa normale, ma che vuoi saperne tu? Sei come tutte le altre:
datele una corona e subito calpesterà chi le sta
sotto!»
«Ehi!»
Flutteshy si erse in volo e gli puntò contro una zampa.
«Non parlarle così, Twilight è stata
molto impegnata in questi mesi, come tutte noi! Sono certa che se
avesse trovato il tempo non avrebbe esitato un secondo a scriverti!
Diglielo anche tu, Twi!»
Twilight
si sollevò dal cumulo di lettere forzando un sorriso fasullo
«ehmh… ssì…
ceerto!»
«Visto?
Chiedile subito scusa!»
«Ma
io… »
Fluttershy
lo fulminò con lo Sguardo.
«Sigh…
s-scusa Twilight, mi dispiace tanto.» Recitò in
tono elusivo.
La
Principessa dell’Armonia sapeva che niente di quanto
pronunciato era da reputarsi autentico, ma per non sottrarre tempo a
questioni ben più importanti, decise di dargliela e bere.
«Molto
bene!» Si proclamò soddisfatta la pegaso.
«A proposito, ma che ci fai qui?»
Princess
Celestia, che aveva atteso in disparte il cessare del confronto,
rispose per tutti spiegandole le ragioni che l’avevano spinta
a chiedere il suo aiuto.
«Quindi
sei qui per proteggerci?!» Chiese la pegaso al termine del
resoconto.
«Beh.
L’intenzione è quella. Volevo scriverti, ma ho
pensato che dirtelo di person… »
«Ma
è meraviglioso!!!» Lo abbracciò ancora
una volta con tutto il suo entusiasmo, senza dargli il tempo di
concludere, e lo strinse così forte da spezzargli a
metà il corpo.
Nulla
che la magia caotica non potesse risolvere in un istante.
Twilight
alzò gli occhi al soffitto, emotivamente abbattuta,
domandandosi quanto quella farsa sarebbe durata ancora.
Sfortunatamente
per lei, la risposta le sarebbe arrivata di lì a pochi
secondi, quando dal sottosuolo di Canterlot un’ondata di pura
devastazione esplose su tutta la capitale, irrompendo nelle loro vite
con la forza di un megaincantesimo.
Princess
Luna si era appena appisolata nella camera padronale, chiusa
nell’oscurità dell’elegante tendaggio
serrato.
L’avrebbe
attesa una lunga nottata al calare del sole e sperava che con quel
sonnellino potesse finalmente recuperare un po’ delle ore di
sonno sufficienti a renderla operativa nel momento del risveglio. Le
sarebbe bastato poter reggere il lume fino al momento del cambio
mattutino.
Tanto
– aveva pensato – in genere non c’era un
gran da fare nelle ore notturne del regno, quindi poteva anche
prendersela comoda, no?
Accoccolatasi
nella calda coperta di seta, semplicemente ideali per trascorrere
lietamente il sonno nella frescura di quel pomeriggio invernale,
finì invece risvegliata di soprassalto da qualcosa di
spaventoso che la fece ruzzolare fuori dal materasso.
Con
la testa ancora offuscata dal malessere che di solito si avverte in
seguito a un riposo interrotto, uscì sulla balconata
ergendosi su due zoccoli accanto al telescopio con il quale lei e
Celestia erano solite studiare gli astri, e vide con i suoi occhi
– da una posizione decisamente avvantaggiata – la
ragione del subbuglio che l’aveva ridestata
dall’affetto del suo torpore.
Dal
centro della città, duecento metri più in basso
rispetto al promontorio su cui sorgeva il castello, e due chilometri
più in là, tra i piccoli torrenti artificiali
sovrastati dai ponticelli e le varie ed eleganti caffetterie della
piazza, i pony di ceto alto che riempivano le strade a
quell’ora del giorno sussultarono all’unisono
quando uno primo, lieve boato d’assestamento fece vibrare i
vetri negli infissi e smuovere le criniere delle eleganti giumente.
Qualcuna
borbottò infervorata chiedendosi cosa stessero combinando
nelle mura della città per provocare tutto quel parapiglia,
ma tranne qualche sguardo interrogativo e un paio di occhiate scambiate
tra perfetti sconosciuti, nessuno pensò di attribuire a
quella piccola e apparentemente innocua avvisaglia una nota
d’importanza.
I
terremoti erano ormai una realtà di tutti i giorni, cui
tutti, dai più ricchi ai più poveri, avevano
imparato a convivere nel corso degli anni, e la loro altitudine
rispetto alle altre città di Equestria rendevano Canterlot
una vera botte di ferro contro ogni minaccia che poteva incombere
più in basso. O per lo meno, questo era il luogo comune cui
tutti erano pronti a scommettere prima che quella giornata svelasse
loro quanto, in verità, erano stati ingenui.
Quando
la prima, lieve ondata lasciò il posto al tumulto che ne
sarebbe seguito, i più svegli compresero fin da subito che
quella botte in realtà altro non era che una gabbia da cui
nessuno sarebbe potuto uscire.
Un
grande sisma, il più potente che avessero mai avvertito
dall’inizio della crisi dei Kaiju, e il primo che si
avvertì a un’altitudine così elevata,
investì la capitale facendo crepare tutte le strutture
nell’area circostante e sfondando i sentieri pietrosi su cui
i loro zoccoli cercavano di reggersi in l’equilibrio.
Gli
alberi si scuotevano smossi dalle radici, tavolini e sedie cadevano
sugli sventurati avventori dei locali, ustionando qualcuno con le
roventi bevande rovesciate dalle tazze, mentre le carrozze che
portavano in giro turisti e curiosi si ribaltavano su un fianco ferendo
gli incauti passeggeri.
La
Paura,
come nessuno in città l’aveva mai conosciuta dai
tempi dell’invasione dei Changelings, unita a una crescente
sensazione d’impotenza, s’impadronì
degli abitanti che, presi dal panico, si dettero alla fuga in una
confusionaria corsa alla ricerca della salvezza.
Ma
una salvezza da dove? Come sfuggire a un pericolo che sembrava essere
onnipresente dovunque si andasse?
Dall’epicentro
da cui l’apocalisse si stava scatenando, un debole obelisco
d’avorio, totalmente indifeso dalla potenza del terremoto,
crollò di peso sulla piazza, travolgendo tutto
ciò che si trovava sulla sua parabola di discesa.
I
pony che in quel momento si trovavano lì in basso
incontrarono una morte rapida e improvvisa, tra le urla di chi, invece,
era stato solo costretto ad osservare.
Mentre
tutto andava a rotoli fin troppo velocemente, una ramificazione di
fratture che come una ragnatela si estendeva per un raggio di
trenta-quaranta metri, cominciò a sollevarsi dal centro come
un cumulo di terra smosso da una talpa laboriosa in via
d’emersione.
Si
formò una grande collina di macerie, pietra e polvere alta
decine di metri, che poi implose su se stessa inghiottendo palazzi,
mezzi e innumerevoli pony che non adatti al volo o troppo scossi per
reagire finirono divorati dall’enorme voragine che vi si
venne a creare.
Alcuni
pony tra i più lontani erano caduti in preda a una paralisi
raggelante e sebbene le loro parti razionali li supplicassero di
fuggire, i muscoli non davano loro retta, rifiutando di muoversi.
Furono
loro i primi a vederlo: dal cratere emerse qualcosa di gigantesco, che
portò con sé grandi blocchi di cristallo
luccicante provenienti dalle miniere sottostanti.
Per
primo si levò un grande e vertiginoso braccio, dotato di una
poderosa mano a cinque dita ampia svariati metri.
Calò
sulla città, aggrappandosi sul ciglio del baratro.
La
seconda mano uscì subito dopo e questa cadde a pugno sul
terreno, smuovendo una folata di polvere che oscurò per un
momento la visibilità ai pony.
La
testa del mostro e con essa il resto del corpo fuoriuscirono dalla
gigantesca fossa in coda alle sue sproporzionate braccia.
L’enorme titano s’inchinò sulle sue
robuste gambe, ansimando pesantemente – forse per recuperare
le forze – e infine si sollevò in posizione
bipede, rivelando così le sue reali fattezze.
Alto
forse quaranta metri (stima provvisoria calcolata sulle sue proporzioni
rispetto ai palazzi di Canterlot), era rivestito da uno spesso strato
di pelle coriacea grigio-plumbea, solcata da zigrinature e crepe nella
cute, come quella di un mastodontico pachiderma, che lo ricopriva da
cima a fondo come una pesante corazza.
La
possente muscolatura delle braccia, che sembrava spezzettarsi in tre
segmenti distinti come negli arti degli insetti, cadeva ai lati del
voluminoso corpo che se non fosse stato così terrificante
avrebbe suscitato ilarità per l’aspetto pasciuto
che si portava dietro. Il tutto era sorretto da due forti e solide
gambe, perfettamente equilibrate con il resto della sua fisionomia e
anch’esse suddivise in tre parti segmentate.
La
sua testa era un perfetto ovale tagliato a metà
sull’asse latitudinale, liscio e di una sfumatura leggermente
più chiara rispetto al resto del corpo, ed era in apparenza
coriaceo, come se fosse fatto di puro osso, oppure cheratina
solidificata come le corna di un rinoceronte.
C’era
come un taglio che solcava il suo capo, e partiva dalla base del collo
per poi salire in longitudine fino alla cima, come una specie di
stranissima cicatrice che tuttavia non sembrava affatto una vecchia
ferita di battaglia, ma bensì parte stessa della morfologia
dell’essere.
Ma
il particolare che spiccava sul resto, tanto da inquietare da
sé, quasi quanto la stazza del mostro, era lo spaventoso
mono-occhio giallo-acre che stava fissando gli abitanti della
città dal centro dell’ovale, con una minuscola
pupilla nera avvolta in una corona di rossi capillari.
«Celestia!»
Princess
Luna entrò di corsa nella sala del trono, trovandovi i
presenti affacciati alle vetrate trasparenti.
Di
tutte, Fluttershy era l’unica a mostrare una reazione emotiva
ben definita: lacrime di angoscia le inondavano la faccia in singulti
di pianto, che le mozzavano il fiato ogni volta che tentava di prendere
aria.
Le
Principesse e lo Spirito del Caos invece guardavano tutto con
innaturale freddezza, troppo incredule per esprimersi.
«Quello
è… un Kaiju… »
mormorò Celestia, con gli occhi che le si inumidivano. Se
non si fosse controllata presto anche lei avrebbe fatto compagnia alla
pegaso gialla.
«Ma
com’è possibile?! Sono passati solo quattro
mesi…!» Mentre lo diceva, Twilight si rese conto
di essere stata fin troppo ottimista con le sue previsioni.
Era
preparata all’ipotesi di doversi scontrare con un nemico
più forte del solito, ma mai avrebbe pensato di vederne uno
con così largo anticipo.
Fin’ora
quella dei sei mesi era stata una regola non scritta che aveva sempre
conclamato la sua esattezza con sufficiente puntualità, e
benché il Terzo Attacco fosse sopraggiunto con un lieve
anticipo di un paio di settimane rispetto alla precedente
manifestazione, si erano comunque fatte trovare pronte per respingerlo
prima che potessero sorgere ingiurie alla città di Las
Pegasus.
Ma
adesso…
Un
nuovo Kaiju, contro il quale erano assolutamente impreparate, era
emerso nel bel mezzo di Canterlot. La capitale di Equestria. Il regno
di Princess Celestia e di Princess Luna, sul cui feudo sorgevano le
città dei pony e di tutte le altre razze senzienti.
In
poco tempo avrebbe dato il via al suo attacco, e la Nazione avrebbe
avuto un’altra Manehattan
da compiangere.
*(Questa
parte di capitolo - ed insieme le successive sequenze di lotta - sono
state scritte sulle note di questa colonna sonora: https://www.youtube.com/watch?v=IHYsx9lBUXY.
Ascoltatela mentre leggete per godere al massimo
dell’esperienza)*
Il
Kaiju scosse il corpo per liberarsi dalle scorie che si erano
accumulate nelle infossature della sua corazza.
I
blocchi di macerie che ne caddero furono per lui nient’altro
che fuliggine, ma erano abbastanza grandi da poter uccidere un pony che
incautamente si fosse fatto trovare sulla loro linea di caduta.
Il
mostro voltò la testa verso un gruppo di abitanti fermo un
centinaio di metri più in là, fissandoli con il
suo unico occhio, che immobile e privo di palpebra puntava dritto su di
loro.
Poi
si girò, scuotendo la capitale col suo passo pesante.
Squadrò
i palazzi che ascendevano nei dintorni. Studiò la
conformazione delle torri e della variopinta architettura eretta su
vari livelli della montagna, come uno scrupoloso demolitore che
pianificava per tempo il modo più efficace per radere al
suolo il suo obiettivo.
Incontrò
di nuovo gli sguardi confusi del suo minuscolo pubblico ed emise un
flebile verso, che un giorno avrebbero descritto come un grugnito
mischiato al russare di un vecchio grassone bisunto.
Dal
fascio di carni nere che avrebbe dovuto essere il collo uscì
una folata di vento maleodorante che si espanse per interi chilometri
lungo le strade, anche lì dove la sua mole non aveva ancora
infierito su cose e pony.
Due
lembi di scura pelle si aprirono come delle labbra, rivelando una fila
di orridi denti scimmieschi deformi e oscenamente devastati. Erano
gialli come il suo occhio e incrostati da metastatiche carie che in
più punti avevano trapanato tanto da attraversarli da parte
a parte.
Torrenti
di bava densa e putrescente tracimarono dalla carnosa bocca,
rilasciando effluvi irrespirabili che puzzavano di carogna e
deterioramento.
Il
Kaiju gonfiò ventre e petto, così tanto che per
un momento i più illusi credettero che stesse per esplodere.
A quel punto qualcuno trovò la forza di battere in ritirata,
capendo cosa stava per succedere, ma non tutti ebbero la stessa
prontezza di spirito.
Il
Kaiju spalancò le mascelle e scaricò su Canterlot
un urlo ciclonico, assordando chiunque nel suo raggio
d’azione.
Pony
di ogni razza vennero spazzati via dai venti del ruggito, mentre le
finestre degli edifici nel circondario si polverizzarono in schegge
taglienti. Le crepe sulle pareti più deboli si espansero a
tal punto che alcune costruzioni finirono per collassare su se stesse,
svanendo dalla mappatura della città.
Il
ciclope richiuse la bocca e mentre gli infortunati cercavano di capire
cosa fosse avvenuto, cominciò a infierire su qualunque cosa,
sferzando la capitale con le sue colossali braccia.
I
palazzi vennero scoperchiati da dita larghe interi metri, le pareti
sventrate da pugni che si abbattevano come palle da cannone potenziate
da incantesimo distruttivi.
Nulla
sembrava in grado di resistere alla rabbia del Kaiju.
Il
destino dei pony sotto di lui dipese unicamente dalla
casualità del momento: qualcuno trovò
miracolosamente la fuga sgusciando tra le macerie in caduta, molti
altri, invece, si spensero senza che nessuno potesse soccorrerli,
schiacciati dai detriti o, ancora peggio, dagli sconfinati piedi della
creatura.
Un
plotone di Guardie Reali pegaso si precipitò nella sala
Reale, in risposta a una convocazione di Princess Celestia.
«Ai
vostri comandi, Maestà!» Esordì uno di
loro.
«Dirigetevi
alle mura e comunicate che il Punto di Raccolta è stato
appena trasferito!»
«Ricevuto!
La nuova destinazione?»
Celestia
si consultò in silenzio con la sorella, e la Principessa
della Notte annuì con decisione.
«Cercate
il Capitano Spitfire. Ditele di radunare tutti qui a
castello!» Rispose l’alicorno dal manto bianco,
imbastendo un atteggiamento d’urgenza.
I
pegasi del plotone trasalirono, confrontandosi tra loro per verificare
se tutti avessero provato la stessa sensazione, ma nessuno
obiettò alla sua decisione.
«Sarà
fatto, vostra Maestà.» Obbedì lo
stallone in testa al gruppo, battendosi uno zoccolo alla fronte, per
poi congedarsi con gli altri lasciando la sala.
Twilight,
Fluttershy e Discord stavano nel frattempo osservando il disastro che
il Kaiju stava provocando in città.
«Dannazione,
ci servono gli Elementi dell’Armonia! Subito!!»
Urlò Twilight, zampettando sugli zoccoli impazienti.
«Dimmi
che li hai portati, Twi! Vero che li hai portati?!»
«No,
li ho lasciati a Ponyville quando siamo partite!» Rispose
alla domanda di Fluttershy.
«Oh
cielo! Allora cosa facciamo?! Siamo spacciate!!»
«Mantenete
la calma, forse c’è un modo. Discord, credi di
poterla condurre fino al villaggio giusto il tempo di
raccoglierli?»
«Sarà
un gioco da puledri, Celestia.» Rispose lui, sicuro di
sé.
«Che
accidenti stiamo aspettando allora, muoviamoci!!»
Scattò Twilight, ghermendolo per l’irsuto collo.
«Presto
fatto.» Il draconequus si liberò dalla sua presa e
lanciò uno dei suoi incantesimi.
Entrambi
svanirono nel vuoto della sala.
Con
un rapido flash balzarono dall’apocalisse della capitale alla
tranquillità di Ponyville, dove la priorità degli
inconsapevoli abitanti era ancora centrata sull’allestimento
delle decorazioni per la Festa del Focolare dell’Amicizia.
Se
anche qualcuno avesse allungato il collo in direzione del picco di
Canterlot, difficilmente avrebbe scorto qualcosa di rilevante, a parte
forse qualche colonna di fumo appena percepibile dagli occhi
più attenti.
Twilight
si ritrovò nel corridoio al pianterreno della Golden Oaks e
galoppò verso lo stanzino in cui l’attendeva la
teca con dentro gli Elementi dell’Armonia.
Indossò
fin da subito la sua corona e ripose i rimanenti nella sua personale
sacca da viaggio, senza perdersi neanche per un momento nel salutare
l’amichevole Gufolisio che l’aveva raggiunta per
accoglierla dopo giorni di assenza.
Corse
fuori dalla stanza quasi urtandolo, scusandosi con poco garbo mentre
gli dava le spalle, e tornò di fretta dal draconequus.
«Eccomi,
li ho presi!»
«Vuoi
che ti aiuti a portarne qualcuno?» Si offrì
Discord, educatamente.
«Sono
ancora schermati contro di te, non potrei darteli neanche se
volessi!»
«Ancora?!
Ma non è giust… »
«MUOVITI!!»
Lo rimproverò.
Piegato
dalla sua voce tonante (forse anche lei ne stava sviluppando una come
le Principesse), il draconequus la riportò subito a
Canterlot.
La
pegaso giallo-canarino finì di asciugarsi le lacrime che da
minuti le stavano rigando gli occhi e si mise al collo il suo Elemento.
«Dobbiamo
trovare le ragazze! Se siamo veloci forse facciamo ancora in tempo a
salvare la città!» Disse Twilight, richiudendo la
fibbia della bisaccia per mezzo del corno.
«Spero
tanto che stiano bene… »
«Hanno
Pinkie Pie con loro, sono praticamente intoccabili.»
Mentre
lo diceva, il suo pensiero ricadde invece sui suoi genitori, che
abitavano non molto distante da lì.
Chissà
se sapevano cosa stava succedendo in città?
Un
brivido le corse lungo il garrese.
“E
se il Kaiju avesse deciso di prenderli di mira?!”
«Principessa,
noi andiamo!» Avvisò voltandosi di scatto verso la
sua Mentore.
«Cercate
di fare attenzione là fuori, senza di voi gli Elementi sono
inutili!»
Twilight
annuì a denti stretti. Fluttershy solo dopo aver ingurgitato
una voluminosa massa di saliva.
«Buona
fortuna ragazze, il destino di Canterlot è nei vostri
zoccoli.» Concluse Princess Luna con solennità.
Le
due Custodi galopparono verso il corridoio che dava
all’uscita del palazzo e senza spiccicar parola spiccando il
volo non appena raggiunsero uno spiazzo di luce all’aperto.
Nella
sala del trono il viso della Principessa del Sole era divenuto un alone
di dolorosa cupezza, che avrebbe potuto avvilire anche il
più gioioso dei puledri.
Ella
guardò di nuovo attraverso la lastra di vetro trasparente,
flettendo in avanti le orecchie per costringersi ad ascoltare ogni
singolo rumore che proveniva da Canterlot.
Era
colpa sua se si stava verificando tutto ciò.
Era tutta sua.
Colpa
sua. Sua. Sua. Sua.
Era
questa la litania che si ripeteva nella sua testa quando Luna le
andò vicino, toccandole una spalla con il fresco metallo
della sua calzatura. «Andrà tutto bene sorella,
vedrai. Le ragazze sistemeranno tutto.»
Celestia
uscì dalla sua trance solo per emettere un lieve singulto.
«Non sarebbe mai dovuto succedere… avremmo dovuto
prevederlo… IO avrei dovuto prevederlo…
»
«Eh-ehm…
» Discord si avvicinò cautamente a loro,
preoccupato del dire qualcosa che potesse alterarle in un momento
così teso. «Io che faccio? Me ne sto in panchina
aspettando che tutto finisca?»
L’alicorno
bianco rifletté a testa basta, sbuffando fuori aria
trattenuta, che dentro di lei stava diventando tossica.
«Preghiamo affinché il tuo intervento non si
riveli necessario… »
Sulle
mura della città lo scenario dell’attacco era
seguito con grande timore dagli occhi sbigottiti delle Guardie
Cittadine e dai giovani cadetti dell’Aviazione dei pegasi e
dei grifoni, che ancora non si sentivano pronti a confrontarsi con
un’avversità di tale portata.
Gilda
percorreva in avanti e in dietro la via del cammino di guardia in
attesa di ricevere i suoi ordini.
Sebbene
le urla della popolazione terrorizzata arrivassero fin lì e
a ogni secondo che passava un altro edificio di Canterlot (con dentro
quasi sicuramente qualche pony in pericolo) veniva raso al suolo, era
consapevole che un’azione disorganizzata avrebbe portato con
sé solo ad un aumento della conta dei morti e a un rapido
sfoltimento di una delle già ridotte forze difensive della
città, ciononostante l’attesa la stava logorando.
La
parte peggiore non era però la consapevolezza delle vite che
stavano spirando in quegli attimi, ma la necessità di tenere
a bada le teste calde dei pivellini che bramavano di tuffarsi nella
mischia neanche vi fosse stato un premio alla fine del giro, oppure al
contrario, dei deboli spauriti che non provavano altro desiderio che
battere in ritirata il prima possibile.
«Non
è il momento di farsi cogliere dalle emozioni!»
Diceva a ognuno di loro senza fare distinzioni tra pavidi e coraggiosi.
«Perdere il controllo significa perdere la Capitale, e con
essa ogni speranza di predominare sui Kaiju!»
Per
fortuna aveva dalla sua qualcuno dalla zampa forte: si chiama Feather
Scratch, anche se un tempo aveva il permesso di rivolgersi a lui solo
come Sergente
Maggiore Scratch,
del Sesto Reggimento degli Aviatori.
Ai
tempi dell’Accademia era il Mentore sotto il cui severo
regime Gilda aveva imparato tutto quello che ora sapeva
del
mestiere.
Forte
e possente, con un fisico anziano temprato da anni di lotte e una
pelliccia scura come l’antracite, era il genere di Istruttore
che a un esame superficiale spiccava per il suo sorprendente
autocontrollo, capace di mantenere il piumaggio azzimato anche nelle
situazioni più concitate.
Gli
piaceva vestire elegante, e questo tratto era ben deducibile dai motivi
barocchi che decoravano la sua armatura blu cobalto, floridi di curve
smussate in costante contrasto con gli appuntiti motivi tribali della
consuetudine grifona.
In
verità quello che si osservava nella superficie era solo una
mera illusione della sua personalità, catenacci che Feather
Scratch si auto-imponeva per destinare le sue energie al combattimento.
Quando
lottava, infatti, la sua calma quasi solenne voltava il fianco a una
grinta draconica, che trovava la sua massima espressione
nell’atto di sguainare gli artigli. A quel punto il mite
veterano d’età avanzata si trasformava in un
animale assetato di sangue.
Successe
così durante i primi giorni all’accademia: Gilda
arrivò con la convinzione di trovarvi pestaggi facili con
cui sfogare la sua rabbia mai abbastanza espressa, per poi uscirne come
un’eroina tra i suoi simili allo scadere del periodo di Leva.
Finì
invece per conoscere il Sergente Maggiore Scratch (anche se sarebbe
più consono dire che le fu imposto), la cui ideologia del
rispetto e della buona condotta contrastava con la spavalderia della
ragazza.
Si
sfidarono ufficialmente in un duello corpo a corpo dopo una settimana
di duro astio e vane punizioni.
L’aggressività
di Gilda parlò per lei e la convinse della sua assoluta
superiorità sul “Vecchio”,
ma
quando dopo tre round (dalla durata complessiva non superiore ai
centoventi secondi), tra lividi su tutto il corpo, piume arruffate e
almeno un paio di costole incrinate, la giovane incauta si
ritrovò con uno squarcio sulla guancia destra, infertole
alla fine dello scontro dal Sergente Maggiore come penitenza definitiva
per la sua sfrontatezza, imparò la lezione che sarebbe stata
alla base dei suoi principi per il resto degli anni a venire:
«L’obbedienza» le spiegò
mentre la teneva a terra ferma con una zampa «è il
fondamento di ogni società civile. I pony obbediscono alle
regole dell’Armonia per garantire alle nostre terre di vivere
e prosperare, mentre noi, come grifoni, abbiamo il dovere di obbedire
alle regole che i nostri superiori ci impongono, poiché essi
hanno affrontato battaglie che noi non possiamo ancora immaginare, e
sono sopravvissuti al solo scopo di insegnare a noi come fare
altrettanto. Dimenticare – o peggio rifiutarsi – di
onorare il loro comandamento porterà quasi sempre alla
vostra inesorabile rovina.»
Gilda
lo guardò fisso nei suoi occhi d’argento e
annuì, e quel taglio fu per lei la prova più
indelebile della fine della sua antefatta Persona.
Una
volta guarita, la cicatrice che avrebbe esibito sarebbe stata per lei
il monito della sua stoltezza, un’effige fatta di
un’infanzia scanzonata che non aveva più posto
negli anni che si sarebbero avvicendati.
Gilda
ne uscì diversa quel giorno, ne uscì umiliata (e
nulla rode peggio al fegato di un grifone che una macchia di sporco sul
proprio onore), ma anche rinata.
Da
quel momento obbedì ai comandamenti del suo Sergente
Maggiore come nessun altro nella sua camerata avesse mai accettato di
fare, distinguendosi per la sua forza e per la rabbia che finalmente
aveva imparato a incamerare nella giusta direzione.
Nel
giro di una manciata di anni era già salita di grado a
sufficienza da sedere affianco alle cariche più alte nella
mensa dell’accademia.
In
seguito, divenuta Sergente Istruttrice a sua volta (la più
giovane nella storia dell’Aviazione dei grifoni), i rapporti
tra lei e Feather Scratch si evolsero ancora di più
prendendo una piega completamente inedita: non più costretta
a stare sull’attenti dinanzi alla sua presenza, finirono per
diventare amici.
Qualcuno
dalla lingua particolarmente scivolosa parlava a sproposito del fatto
che tra i due fosse nata una storia, assumendo addirittura a questo il
merito della rapida promozione della grifona.
Chiunque
avesse mai osato tanto, finì per incontrare i suoi pugni sul
centro preciso del becco, e nulla importava quanto poteva essere
solido, i cazzotti di Gilda facevano SEMPRE
un
male del Tartaro!
Tuttavia,
in rare occasioni non era impossibile che fantasie di questo tipo
attraversassero anche i suoi pensieri, ma finivano ogni volta a doversi
confrontare con i rapaci del suo raziocinio, che planavano in picchiata
per convincerla che il divario di età era troppo manifesto
per prenderle davvero in considerazione.
Così
finirono per rimanere ciò che l’Aviazione aveva
prestabilito per loro: colleghi di lavoro alle prese con giovani mai
abbastanza domati, che nel privato si facevano compagnia a vicenda
così come avrebbero fatto un’allieva con il suo
Maestro.
Ora
i ricordi le scorrevano come foglie sospinte dalla brezza, alimentati
dal lento sfregare del suo artiglio nell’insenatura della
cicatrice.
Il
Capitano Spitfire arrivò poco dopo, atterrando malamente in
uno dei campi d’allenamento per le reclute.
Gilda
non se ne accorse nemmeno.
«Rapporto
immediato, avvicinatevi tutti!» Ordinò, mentre si
risistemava la divisa smossa dal vento sollevando gli occhiali di
protezione all’altezza della fronte.
I
presenti si compattarono intorno alla pegaso, lasciando spazio ai
leader delle varie fazioni di avvicinarsi al centro.
Gilda
si accorse finalmente dell’assembramento che si stava venendo
a creare, e si unì con una planata a Feather Scratch.
«Ci
sono delle novità, e non sarà facile metterle in
atto, perciò mi aspetto che tutti facciano la loro parte per
il bene di Canterlot. Andiamo con ordine e facciamolo in fretta. Punto Primo:
il nuovo punto di raccolta non è più in
città – che come sappiamo è attualmente
sotto attacco – bensì a castello. Ciò
vuol dire che il compito degli Wonderbolts non sarà
più dare supporto ai grifoni, ma fornire assistenza sul
campo ai civili. Alcuni dei miei pegasi stanno già prestando
soccorso ai feriti e temo che presto avranno bisogno di un grosso
zoccolo, e questo è il punto Secondo.
Il punto Terzo,
invece, è che di conseguenza la Muraglia
dell’Armonia non sarà più istituita qui
sul confine, bensì a Palazzo… »
Un
coro di mormorii sdegnati si levò dalla cinta di ascoltatori.
«Questo
vuol dire che dovremo trasferire tutte le truppe stazionarie passando
in mezzo al campo di battaglia! E quelli che non volano?! Cosa diavolo
vi aspettate da noi?!?» Chiese un unicorno dal manto castano,
che sulla sua armatura aveva le effigi dei Capitani delle Guardie.
«Gli
ordini sono ordini! Non farmi perdere tempo con cose che già
so! Ognuno qui ha la sua dannatissima gatta da pelare e nessuno
è veramente preparato alla situazione che stiamo
affrontando!»
Il
Capitano delle Guardie fu zittito, ma ciò non gli
impedì di borbottare qualche lamentela condita di moccoli
tra sé e sé.
«Dovresti
essere onorato di indossare quelle medaglie.» Lo
accentò la rigida pegaso. «Se il Principe Shining
Armor fosse ancora tra le fila di Canterlot avrebbe mosso suggerimenti
ben migliori dei tuoi. Qualche suggerimento tattico per la causa forse,
di sicuro non chiacchiere acerbe da checca isterica!» Si
voltò verso gli altri con fare di sfida. «Ci sono
altre domande idiote o iniziamo a darci dentro?»
Gilda
mosse una zampa in avanti. «Dove
sono finite le Custodi degli Elementi? A questo punto avrebbero
già dovuto essere in azione.»
«Hanno
avuto dei contrattempi di non so che genere, ma mi è stato
riferito che la Principessa Twilight si è appena messa in
moto.»
Gilda
annuì.
Dunque
Rainbow Dash e le sue compagne stavano per entrare in azione, questo
significava che la giornata poteva ancora concludersi per il meglio.
«Bene
allora. Muoviamoci! Gli ordini li conosciamo!» Disse
rivolgendosi ai suoi sottoposti, ma senza lesinare un po’ di
messinscena per gli occhi del Sergente Scratch.
Alcuni
Wonderbolts spiccarono subito il volo condotti da Spitfire, mentre
altri si aggiunsero alla flotta solo dopo essersi equipaggiati con
bardature piene di kit di pronto soccorso.
Le
truppe di unicorni della Muraglia scesero in strada e cominciarono a
correre a perdita di fiato tra le strade diroccate di Canterlot, mentre
sulle loro teste la furia del Kaiju ciclope irrompeva su qualunque
ostacolo si frapponesse sulla sua strada.
Gilda
e Scratch andarono verso le casse dei rifornimenti, e si equipaggiarono
con rapidità delle loro attrezzature lancia-dardi.
«Pronta
a entrare in azione?» Le chiese il grifone maschio con una
scintilla di euforia negli occhi leggermente strabuzzati.
«E
tu Vecchio, riuscirai a starmi dietro?» Stuzzicò
lei, mentre finiva di caricare la propria fondina di ferro fissandosela
poi sul dorso e al resto dell’attrezzatura.
«Cercherò
di volare a marcia ridotta. Ne soffrirei se dovessi uscirne
umiliata!»
«Mettiti
l’animo in pace, non hai più
l’età per queste cose!»
Terminarono
di prepararsi e adunarono intorno a sé i rispettivi gruppi
di cadetti, una ventina circa tra femmine agguerrite e maschi bellicosi.
«Avanti
pulcini, è il momento di guadagnarsi il becchime! Voglio
tutto il primo squadrone con me, gli altri seguano Il Sergente Maggiore
Scratch! Azioni rapide e precise! Nessuno faccia l’eroe, o vi
impalerò di persona con le vostre stesse
attrezzature!»
Prima
di partire si accorse dell’imbragatura allentata di una delle
sue giovani reclute.
«Fermò
lì!» Lo arrestò, riempiendolo
d’insulti mentre si offriva di risistemargliela.
Finì
di agganciargli le fibbie e stringergli le cinture, elargendogli in
pegno uno scappellotto dietro la nuca, seguito da un poderoso calcione
sul sedere.
“Come
un uccello che spinge la sua prole giù dal ramo per
insegnargli a volare.”
Pensò divertita, mentre si univa in volo con il resto delle
squadre.
In
città i civili continuavano a darsi alla fuga senza sapere
che cosa fare.
Gli
Wonderbolts si prodigavano di soccorrere quanti più feriti
potevano, dando priorità ai puledrini di terra e alle loro
madri, seguiti dalle famiglie di unicorni, sollevandoli in aria e
conducendoli al castello o, quando non era possibile, lontano dalle
zone colpite.
Ovunque
nelle strade si cercava di diffondere la voce del nuovo punto di
racconta, gridandolo a squarciagola o con qualunque mezzo avessero a
disposizione, ma in cuor loro si sapeva che non tutti avrebbero appreso
la notizia. Qualcuno avrebbe seguito la ragione e avrebbe confluito
nella direzione intrapresa dagli altri, ma per quanto riguardava i
dispersi nascosti tra le macerie, che non potevano muoversi o ascoltare
gli appelli che venivano diramati , la loro sorte era affidata negli
zoccoli della provvidenza.
Il
Kaiju si accanì contro una delle torri più alte
di Canterlot, un grande ed elegante complesso residenziale con un
motivo a spirale giallo e bianco sulla guglia che culminava con un
pinnacolo a forma di stella a otto punte.
Venne
strappato a metà dal ciclope e fatto scaraventare a terra,
spazzando con sé un intero isolato.
Le
due squadre di grifoni avevano appena raggiunto i paraggi del quartiere
quando tutto successe, e videro con i loro stessi occhi le famiglie del
circondario finir schiacchiate dall’edificio in caduta.
Una
goccia di sudore slittò tra le livree di Gilda seguendo il
binario della cicatrice che le rigava il volto, e per poco non
evaporò a causa del bollore che le pervase il corpo.
L’odio
s’impadronì di lei per un attimo, prima di
riacquistare il controllo.
Mosse
il collo alla ricerca del suo amico e Maestro, che le rivolse un cenno
d’inconfondibile intesa.
«Bene,
pivelli. Caricate le vostre armi e preparatevi a colpire, attaccheremo
per primi! Voglio una SkyArrow perfetta e sincronizzata! Squadra due:
andategli intorno e cercate di conquistarvi la sua
attenzione!»
Sì
udì un «Ricevuto!», levatosi dal coro di
grifoni in uniforme.
«Raccomando
a tutti la massima attenzione: non conosciamo gli schemi
comportamentali del nemico. Mantenete l’occhio vigile e state
pronti a reagire a ogni eventuale contrattacco!» Aggiunse in
seguito Scratch.
I
cadetti annuirono e tutti i membri del suo squadrone scattarono in
avanti puntando all’attenzione del mostro.
Feather
Scratch guidò la manovra, sbraitando a ciascuno dei
sottoposti la direzione da intraprendere per circondare il Kaiju in una
sorta di vortice contenitivo, come un nugolo di moscerini tra i giunchi
di una palude.
Il
ciclope si accorse subito dei nuovi arrivi e tentò di
scacciarli con movimenti lenti e pesanti: una scrollata di spalle, un
braccio sollevato che poteva tranquillamente essere scansato con una
piroetta acrobatica. Nulla che una squadra di grifoni addestrati non
potesse sostenere.
Il
Kaiju però non si fermava. Completò un altro
passo, impassibile ai loro tentativi di distrazione, poi ne fece un
altro, un altro e un altro ancora.
La
sua marcia non si arrestava, e con essa il bilancio delle ferite sulla
città.
Feather
Scratch, in un tentativo avventato, volò davanti alla faccia
ovale del ciclope, puntandogli all’occhio nello stesso modo
in cui farebbe una zanzara particolarmente curiosa.
La
manovra produsse finalmente una reazione e il mostro alitò
una ventata di marciume sul naso del Sergente Maggiore.
Scratch
si sentì la gola pizzicare e gli occhi inondarsi di lacrime,
e quasi non vide la manata dall’alto che stava indirizzandosi
contro di lui.
La
eluse per un soffio, rendendosi conto che con un solo istante di
esitazione in più sarebbe finito all’altromondo.
Poco
più in là, alla testa del secondo squadrone,
Gilda cominciò a guidare i suoi cadetti sul fronte del
mostro.
La
“punta di freccia”, composta da una formazione di
dieci aviatori, leader compresa, volò sul fianco sinistro
del Kaiju mantenendosi a una debita distanza di sicurezza.
Si
allontanarono di circa duecento metri, quanto bastava per accumulare un
sufficiente quantitativo di tempo per preparare l’ingaggio.
A
quel punto, Gilda fece virare lo SkyArrow in modo che lo squadrone si
ponesse dinanzi al prospetto del titano, in linea d’aria con
il bersaglio.
Scratch
dette ordine ai suoi di ritirarsi, liberando così il loro
campo visivo.
Gilda
impugnò saldamente tra le dita la leva di pressione della
lancia-dardi, caricando il colpo che avrebbe presto indirizzato al
petto dell’avversario.
«Preparatevi,
fuoco al mio tre!» Urlò, concentrata ora come non
mai nel compimento della manovra.
Il
plotone mise a sua volta in carica l’attrezzatura di ciascuno
e si preparò al segnale della leader.
«Uno…
» pronunciò Gilda, e lì
calcolò a mente quanto doveva attendere prima di procedere
con il…
«…
due… », quindi fece confluire l’energia
sulla punta delle dita, mentre si apprestava a chiudere con…
«…
TRE… »
Avevano
raggiunto la distanza ideale per scatenare l’attacco.
Potevano
sfruttare la spinta cinetica della loro velocità, sommata
alla potenza delle lancia-dardi, in più, avevano sufficiente
spazio per retrocedere in vista della successiva manovra. Era giunto il
momento di fare…
«…FUOCO,
ORA!!»
La
molla di rilascio interno proiettò il giavellotto lungo il
teniere del dispositivo innestato.
Subito
dopo, Gilda virò verso il basso, dando così
spazio agli altri membri della formazione di completare
l’azione.
Una
ad una, le quattro file della SkyArrow spararono i propri dardi con uno
stacco di un secondo l’una rispetto all’altra,
tuffandosi poi in picchiata per riassemblarsi col plotone di Gilda, in
attesa di constatare gli effetti della manovra.
I
dardi si conficcarono nello sterno del Kaiju, nel punto dove
l’armatura protettiva di pelle sembrava più
spessa, componendo una sorta di ponte sui suoi muscoli pettorali.
Il
ciclope incassò i colpi emettendo un lamento sommesso.
Si
fermò sul posto e curvò la testa per analizzare
la zona colpita. Piccole gocce di liquido nero come il catrame
tracimarono dai contorni delle ferite, ungendo anche parte del legno
delle aste.
Ne
strappò alcune con le dita e indirizzò il suo
unico sguardo sui grifoni che gli roteavano intorno.
Li
fissò per alcuni secondi, digrignando i denti che sfregarono
tra loro in un acuto cigolio, prima di rispedirle agli arcieri che le
avevano scoccate.
Gilda
e Scratch, e con essi le giovani reclute, dovettero schivare le loro
stesse munizioni, che attraversarono la volta del cielo ad altissima
velocità (più di quanto potessero mai raggiungere
con le loro attrezzature), sparendo nell’orizzonte azzurro.
«Wo-ho!»
Esclamò Scratch, dopo essersi riassestato in volo.
«Forse lo abbiamo fatto innervosire, ragazza!»
La
Sergente Grizelda guardò il Kaiju spuntarsi i dardi
rimanenti e posare di fronte a loro, con le braccia allargate lungo i
fianchi e i muscoli dei bicipiti tesi sotto lo strato cutaneo.
«Facciamolo
incazzare allora! Ruotiamogli intorno e cerchiamo di colpire ogni punto
di carne scoperta che riusciamo a trovare!»
«Suggerisco
di concentrare il fuoco sul collo e sull’occhio allora! Poco
fa ho avuto l’impressione che siano gli unici punti che
è davvero interessato a difendere!»
«Faremo
così allora! Occhio a dove sparate e cercate di mantenere le
distanze dai suoi attacchi, ma soprattutto non
azzardatevi a sparare a me o al Sergente Scratch!»
Volarono
così al secondo round contro il ciclope, che
tentò di sbarazzarsi subito di loro con una frustata del
braccio.
I
grifoni lo evitarono disperdendosi nell’aria, facendo
sì che l’arto finisse la sua corsa contro un
edificio inerme.
Scratch,
alla guida di un piccolo contingente sfruttò
l’attimo per coordinare una rapida manovra al bulbo oculare
del mostro, ma i dardi che vennero scoccati finirono invece per
infossarsi sullo spesso cranio ovale del mostro.
Il
Kaiju tentò invano di respingerli con una gomitata e si
ritrovò con un giavellotto conficcato tra un molare e
l’incisivo inferiore della bocca.
Gilda
imprecò maledicendosi per la sua imprecisione, mentre
metteva in carica il prossimo colpo da lanciare. Non sopportava
l’idea che un mostro tanto imponente fosse così
difficile colpire, e per poco non fece la fine che toccò a
un’altra coppia di grifoni, i quali non furono svelti quanto
lei ad evitare il successivo schiaffo del gigante.
I
due furono scaraventati via dal palmo del mostro, roteando fino al
suolo dove li attese una morte per fratture multiple al cranio e alla
colonna vertebrale.
Gli
aviatori si allontanarono di un poco e si disposero
tutt’intorno, cominciando a tempestare il Kaiju di una
pioggia di dardi: tale manovra era detta SkyStorm.
Le
frecce che giungevano al nemico s’impalavano sul suo corpo
facendogli emettere ogni tanto non più di qualche brontolio
pacato, in contrapposto al sangue che zampillava da ogni apertura, ma
non dava permesso a nessuno di avvicinarsi al suo occhio.
Se
avvertiva il presentimento che gli squadroni stavano tentando delle
azioni su quel determinato bersaglio, trovava sempre il modo per
difendersi o impedire ai dardi di andare a segno, e così: o
si voltava dall’altra parte, o si rannicchiava a terra, o
trovava riparo celandosi dietro una torre.
A
un certo punto, forse messo alle strette dalle manovre degli squadroni,
oppure resosi conto di essere troppo lento rispetto ai voli
imprevedibili dei grifoni, decise di punto in bianco di battere in
ritirata, rifiutando di proseguire lo scontro.
Tornò
a occuparsi di ciò che aveva interrotto
all’inizio: distruggere Canterlot. E per quanto riguardava le
punte che gli venivano infilate sul dorso durante il minuto seguente,
vi reagì alla maniera della più assoluta
indifferenza: come se la sua pelle in quei punti fosse stata resa
insensibile da vari strati di cute supplementare.
Un
temerario cadetto tentò di sorprendere il Kaiju volandogli
sopra la testa, per poi tentare un attacco a bruciapelo parandosi di
fronte alla sua strada. Prima però che la sua zampa
raggiungesse la leva di rilascio della lancia-dardi, il ciclope lo
schiaccio tra le sue mani alla stessa maniera di una mosca ronzante.
Gilda
osservò la chiazza di rosso e le intelaiature di ferro
scorrere sui palmi della creatura, e si sentì nuovamente
divampare.
Avevano
appena perso tre validi membri dei loro squadroni (che ora si andavamo
a sommare alle altre vittime della giornata), mentre le ferite del
mostro sarebbero guarite senza lasciare di sé neanche una
cicatrice. Al più, gli sarebbero germogliati dei brufoli
infetti, pronti a esplodere alla minima sollecitazione, ma niente di
peggio. In compenso non c’era ancora traccia delle Custodi
degli Elementi, che se non si fossero sbrigate avrebbero dovuto
irradiare la loro magia da sopra le carcasse della città.
Per
giunta, ora il Kaiju se ne stava andando nella più assoluta
indeferenza, come se non gli importasse più niente dei suoi
avversari, se non considerarli alla stregua insetti da ignorare.
Questo
momento non fu soltanto una sconfitta per Gilda Grizelda, ma
un’umiliazione inamissibile, che era andata a scuotere lo
spirito stesso del grifone lambendo le sue tempra di guerriero dei
cieli.
Avvertì
un tintinnio metallico sulla spallina della sua corazza e scorse la
zampa di Feather Scratch che le porgeva un dardo per la sua balestra.
Di
principio non capì, ma si rese subito conto che sia la
fondina, che il teniere della balestra erano vuoti.
Accettò
il suo dono inserendo subito il colpo in canna e lesse negli occhi del
suo Maestro lo stesso sentore di disagio che stava covando lei nel nido
del suo orgoglio.
Allora
la loro amicizia parlò per entrambi e stabilirono che non
era così che si sarebbe conclusa.
Prima
della sua dipartita il Kaiju avrebbe capito che i grifoni non erano
tipi cui si potevano volgere le spalle.
Si
ricompattarono in un unico grande assembramento e scavalcarono il
nemico volando nella sua stessa direzione. Quindi si voltarono, e di
nuovo si coordinarono per ripetere la SkyArrow. Ma sta volta non
avrebbero atteso che uno squadrone completasse la manovra mentre gli
altri se ne sarebbero rimasti in disparte a guardare: no, stavolta
avrebbero agito insieme!
E
così, ecco due punte di freccia prendere forma per dirigere
la propria mira sul capo e suo ventre del mostro, con Gilda che guidava
i suoi dal basso, nella malaugurata speranza che lo stomaco della
creatura fosse più suscettibile ai colpi del dorso, e
Scratch intenzionato a chiudere i conti col piccolo occhietto giallo
che ogni volta lo fissava con accento di sfida, come a volerlo sfottere
del suo ennesimo fallimentare tentativo.
Il
Kaiju li vide e si fermò, esattamente come prima, e sembrava
pronto a ricominciare da capo la battaglia, come uno stupido bestione
che dal piccolo del suo intelletto si era dimenticato degli avvenimenti
di qualche minuto precedente.
Tanto
di cresta per i grifoni,
se era davvero così.
Ogni
secondo conquistato era una vita in più che veniva
restituita alla luce del sole, una famiglia che trovava il proprio
rifugio nella sicurezza del castello, un ferito che veniva medicato e
sottratto al gelido abbraccio della morte.
Piccole
monetine raccolte da un cucciolo, che accumulate nel tempo gli
avrebbero donato un giocattolo.
Con
i dardi in carica, le cui punte acuminate abbagliavano nei raggi del
sole pomeridiano, i leader delle due formazioni stavano per cominciare
il conto alla rovescia per dare al Kaiju un altro assaggio della vera
grinta dell’Aviazione!
Pugni
stretti sulle leve e occhi fissi sul proprio obbiettivo!
Ma
il mostro... beh, il mostro aveva un’altra sorpresa in serbo
per loro.
Gilda
e Scratch si accorsero troppo tardi del ventre che cominciava a
gonfiarsi, riempito con l’aria del loro mondo, che ora si
sarebbe tramutata in una minaccia letale.
Quando
il Sergente Maggiore cominciò a diramare l’ordine
di ritirarsi, il ciclope aveva già ampliato la circonferenza
del suo stomaco, e ora sembrava pronto a detonare in
un’esplosione che avrebbe portato con sé tutta la
montagna.
Il
Kaiju chiuse la bocca solo per un momento, contraendo i muscoli della
gola, e centrò la mira su quegli ipocriti moscerini che ora
se la stavano defilando terrorizzati da ciò che stava per
avvenire.
Aprì
le fauci liberando un urlo che aveva la forza di tutta la magia di
Equestria, investendo i grifoni che anche da quella distanza dovettero
litigare con il bisogno di restare in quota e al contempo tapparsi le
orecchie per non perdere definitivamente l’udito.
Gilda
sentì un acuto fischio riempirle la calotta cranica,
destabilizzando anche i suoi sensi dell’equilibrio e della
vista.
Spalancò
gli occhi e dalla sua prospettiva sfocata riuscì solo a
scorgere una mastodontica massa di muscoli grigi correrle contro a una
velocità inattesa.
Il
Kaiju, rivelatosi ora possessore di un’agilità
sorprendente, sferzò una singola manata sul primo gruppo di
aviatori che trovò sotto tiro. Ma non fu, come in
precedenza, il lento oscillare di una palla demolitrice contro le
difese di un grattacielo pronto a resisterle, bensì una
frustata inferta con un potere capace di annullare le stesse leggi
della gravità sottostante!
Gilda,
che si trovava nel mezzo della traiettoria, fu abbastanza rapida da
curvare trasversalmente verso l’alto per evitare di striscio
il palmo di mano, che si rovesciò, invece, su Feather
Scratch e almeno altri cinque tra reclute maschi e femmine.
Il
Sergente Maggiore era ancora troppo intontito quando la palla da
cannone si abbatté su di lui, troppo rallentato da una
vecchiaia incipiente che avanzava inesorabile malgrado il suo fisico
mai fuori forma.
Lui,
e con sé l’intero gruppo di aviatori con i quali
stava per condividere quel triste destino, vennero schiacciati contro
le pareti d’avorio dell’elegante palazzo, che in
passato doveva aver ospitato molti cenoni d’alta classe. Il
palmo della gigantesca mano attraversò i muri e
finì per affondare all’interno delle costruzione,
sollevando fumi di macerie tra gli sguardi imbambolati del resto dei
superstiti.
Fu
un intervallo breve, però.
Il
ciclope stappò la mano dal buco nella parete, per tornare a
caricare di pugni ogni sprovveduto che ancora osava volteggiargli
intorno.
Spazzò
via altri cadetti con l’avambraccio dell’arto
sinistro (Gilda non seppe dire se fossero tre o quattro) e diede ancora
una volta prova di un’agilità fuori
dall’ordinario quando altri due tentarono di cercare rifugio
nell’immensità del firmamento celeste.
Saltò
in alto di almeno dieci metri, dandosi spinta con i piedi che scavarono
altri crateri lungo le strade, chiudendo le sue fauci sui due
sciagurati, che vennero deglutiti prima che il Kaiju tornasse al suolo.
Qualcun
altro fu colpito da una spallata piombatagli contro involontariamente,
troppo preso dal panico per rendersi conto che gli sarebbe bastata una
semplice curvata per salvarsi la vita.
Al
termine di quel mezzo minuto di follia pura, fu impossibile per la
Sergente stabilire quanti erano scampati alla furia devastante della
bestia, e quante invece erano le vittime.
Era
frastornata dall’urlo e incredula a ciò che aveva
appena visto, ma soprattutto, non voleva accettare che Feather Scratch
fosse morto.
Quel
vecchio grifone era un osso troppo duro da masticare, anche nonostante
gli acciacchi dell’età.
Quattro
cadetti le passarono davanti volando in formazione scoordinata e lei si
fermò a osservarli mentre se la battevano in fuga, senza
degnarla neanche di uno sguardo.
«Dove
credete di andare voi?!?» Berciò lei con i pugni
tesi. «TORNATE SUBITO QUI, VIGLIACCHI!!»
Ma
i grifoni non tornarono mai più, e Gilda rimase da sola a
fare i conti con il Kaiju.
Il
ciclope si accorse di lei, e dal grugnito che emise, capì
subito che aveva tutte le intenzioni di eliminarla.
Gilda
si allontanò dal colpo che le fu diretto e iniziò
a danzargli intorno con l’unico scopo di confondergli le
idee. Voleva che il Kaiju la perdesse di vista, in modo da darle il
tempo di accertarsi dello stato di Scratch.
La
fortuna cominciò a girare dalla sua quando il titano si
girò dall’altra parte, per scrutare ciò
che vi aveva davanti.
Forse
lo aveva eluso? Oppure aveva semplicemente desistito dal darle la
caccia?
Fatto
sta che Gilda decise di approfittarne.
Entrò
nella caverna che era stata scavata dal pugno titanico, un enorme foro
sul palazzo dall’ampiezza impressionante.
La
maggior parte delle macerie erano accumulate all’interno, nei
contorni di quello che fu il palmo del Kaiju.
Fu
in mezzo a quello sfacelo, tra eleganti arredamenti ora distrutti e
carcasse di metallo e legno contorti che la soldatessa trovò
i loro corpi.
Alcuni
erano irriconoscibili, compressi nelle loro uniformi e fusi con le
lamiere delle loro attrezzature.
Altri
erano stati impalati dai loro stessi dardi, in una macabra immagine che
non si sarebbe più levata dalla sua testa per il resto
dell’esistenza.
Ossa
esplose, insieme al loro sangue, bagnavano di rosso la sala, emanando
un misto di odori rivoltanti.
Gilda
si avvicinò, senza far caso al sangue che pestava.
Studiò
le facce di ognuno (quelle che ancora erano riconoscibili) in cerca del
Sergente Scratch.
Si
abituò in fretta alla vista dello scenario e a tutti quei
corpi assassinati nelle rovine, ma la sensazione strana che avvertiva
– quella specie di timore del peggio, mischiata alla
frustrazione del non potersi dare una risposta immediata – le
opprimeva il petto togliendole pezzo dopo pezzo la voglia di continuare
la sua strenua ricerca.
Un
blocco di parete cadde alle sue spalle facendola trasalire.
Fuori
i passi del Kaiju erano ancora vicini e incombenti.
La
grifona tornò a scandagliare le macerie quando si accorse di
un pezzo d’armatura blu esposto da sotto un cumulo di travi
divelte, che le fece risalire il cuore alla base della gola.
Scostò
con la forza dell’emozione gli ostacoli che si frapponevano e
finalmente riconobbe le iridi d’argento che la penetrarono
nello spirito, con deboli movimenti involontari dei muscoli oculari.
Scratch
era vivo, contro ogni previsione ma fedele alle speranze della sua
ex-cadetta.
Per
la prima volta Gilda desiderò con tutta se stessa di poterlo
abbracciare, e lo avrebbe quasi sicuramente fatto, se solo non fossero
stati ancora in servizio.
«Ehi
Vecchio… » lo salutò, sentendosi
inumidire gli occhi dalla gioia.
«Q…qual
è… s-stato missione?»
Domandò lui con voce roca, che a malapena sembrò
fuoriuscire dal becco.
Gilda
si domandò se fosse consapevole di quanto tempo era
trascorso.
«Non
pensarci ora. Ce la fai a muoverti?»
«N-non…
zamp-pe… più… »
«Cosa?»
«Non
s-sento più le… zampe… più
niente.» Tentò di completare con una boccata di
respiro, ma s’interruppe prima che i bronchi avessero tempo
di gonfiarsi a sufficienza. Ne scaturì un’eruzione
di tosse strozzata, finita la quale il grifone tentò di
compensare con brevi e più frequenti sospiri annaspati.
Gilda
trovò la forza di muovere lo sguardo dal suo viso al resto
del corpo: l’armatura lo aveva protetto da parte della
potenza del Kaiju, ma la compressione del metallo stava premendo sul
torace interferendo con le sue funzioni biologiche; parte della
pettorina era piegata in dentro e gli aveva perforato lo sterno
producendo chissà quali danni alla cassa toracica e ai
polmoni. Gilda non seppe dirselo, ma il sangue che vi guizzava fuori
parlava per lui.
Più
in basso, la zampa destra era ridotta in frantumi, spappolata da
chissà quale forza, e la sinistra non se la passava meglio.
Le
sue ali poi, dovunque fossero – se ricoperte dai detriti o
completamente estirpate dalla base dello scheletro – di
sicuro non erano più in grado di sostenerlo in volo.
Scratch
aveva cercato di comunicarle che era insensibile dal collo in
giù, e se questo era vero, significava che anche la sua
schiena era ridotta in pezzi.
Questa
era la notizia peggiore che potesse ricevere, persino peggiore della
sua morte annunciata, perché stava significando che senza i
dovuti accorgimenti non poteva spostarlo per nessuna ragione al mondo.
Erano
condannati a rimanere lì, inutili e impotenti, mentre il
Kaiju riprendeva la sua opera di distruzione.
Non
doveva andare così.
C’era
qualcosa di sbagliato nelle manovre che aveva eseguito e negli esiti
che il loro scontro aveva portato. Non avrebbero mai dovuto combattere
all’interno della città.
«…a-ttene…
» Scratch emise un verso che suonava più un gemito
di dolore.
«Come
dici?» Gilda portò il suo orecchio vicino al becco
del Maestro, sperando così di risparmiargli la sofferenza di
alzare la voce.
«Vattene…
su-ito!» Sentì sussurrargli.
Lei
scosse la testa con energia. «Scordatelo! Non ti
lasciò morire qui!»
«…allo…
i… ongiu-ro!»
Non
sentì le sue suppliche, perché tutta la sua
attenzione si spostò ai pesanti boati che captava al di
fuori del palazzo: il Kaiju era tornato.
«Vat-ene…
ora!»
La
grifona vide la grande mano del Kaiju stagliarsi
dall’apertura, e si domandò cosa avrebbe potuto
fare se avesse deciso d’infilarla lì dentro.
Guardò
fugace la balestra con il dardo in carica, e si mise in posa
d’attacco con una zampa sollevata all’altezza della
leva. Forse sarebbero morti entrambi in quel frangente di tempo, ma lo
avrebbero fatto combattendo. Fino alla fine. Come veri grifoni!
Il
Kaiju sembrò sul punto di chinarsi per scrutare con il
proprio occhio l’interno dell’edificio, ma
un’ombra gli passò accanto, riuscendo non si sa
come ad attirare la sua attenzione.
Gilda
fu incitata dalla curiosità a sporgersi per scoprirlo, ma la
verità è che quell’avvenimento
imprevisto aveva scatenato dentro di lei una paura anche maggiore della
prospettiva della morte.
Era
preparata alla dipartita, e per un momento s’illuse di avere
il controllo sulla scelta di come andarsene, ma quello che stava
avvenendo in quel momento era qualcosa d’ignoto, un mistero
che avrebbe potuto significare sia la salvezza, che un fato ancora
peggiore per entrambi, e lei non seppe come comportarsi.
Sentì
il Kaiju allontanarsi.
Non
di molto.
Se
avesse voluto, presto in poche falcate sarebbe stato di nuovo su di
loro.
Gilda
vide invece fare breccia nell’apertura una faccia a lei
familiare, che in precedenza si era confusa tra i volti degli squadroni
facendo perdere la propria identità: Rogue Fulvus.
Il
cadetto, dopo aver fatto allontanare il ciclope con il colpo del suo
ultimo dardo, si era manifestato dinanzi alla sua leader facendole
gesto di uscire.
«Signora,
venga con me la prego! Dobbiamo ritirarci subito!»
«Negativo,
il Sergente Maggiore è ancora vivo, non possiamo
abbandonarlo qui!»
«Signora,
la scongiuro! Non abbiamo più munizioni, sono morti quasi
tutti! E il Kaiju tornerà da un momento
all’altro!»
Feather
Scratch sollevò il collo fin dove le forze glielo
consentivano, imprimendole l’ordine che mai nella vita si
sarebbe permessa di rifiutare. «Vai… c-on lui! Obbedisci!»
La
sua voce sibilante le provocò un brivido attraverso il
piumaggio, ma fece anche di più. Quella parola, quel
“obbedisci”, che riuscì a formulare con
assoluta chiarezza, malgrado la vita lo stesse rapidamente lasciando,
scatenò in lei una piena di ricordi. La
scaraventò in un viaggio nel tempo, in balia delle correnti
del passato, ricordandole il giorno della sfida. E non solo.
Gilda
ripercorse la sua lezione e l’impegno con il quale aveva
dimostrato di averne fatto una parte di sé.
Ricordò gli onori della promozione e la soddisfazione che
scrutava ogni volta nei suoi occhi d’argento.
Ricordava
le bevute serali, e quando erano rimasti i soli in stato cosciente a
fare commenti sprezzanti sui loro colleghi che giacevano intorno a loro
svenuti per il troppo alcol.
Ricordi
su ricordi, incanalati in una sola parola.
Scratch
le aveva salvato la vita quel giorno, impartendole un insegnamento che
le permise finalmente di trovare il proprio posto a Equestria, e ora lo
stava rifacendo, conscio che quella parola non avrebbe significato per
lei solo un imperativo marziale, ma anche qualcos’altro.
Voleva che lei si salvasse, e sapeva che così
l’avrebbe salvata.
“Obbedisci,
soldato! E’ un ordine!”
Gilda
si fermò su di lui, con gli occhi di una bambina che non
voleva abbandonare un amico a lei caro.
Non
voleva che morisse da solo, tra cadaveri devastati
all’interno di una struttura pericolante, che sarebbe implosa
da un momento all’altro.
«No…
io non posso Scratch… non posso lasciarti. Come li prendo a
calci nel culo tutti quegli idioti pivelli, se non ci sarai tu ad
aiutarmi?»
Lo
guardò sorriderle per la prima volta da quando lo aveva
ritrovato, e malgrado non avesse più la locomozione negli
arti del corpo, per un momento le sembrò quasi che la sua
zampa artigliata le sfiorasse teneramente la guancia.
Fu
un momento strano, ma anche bello, un momento che avrebbe desiderato
non finisse mai.
«Ce
la… a-rai» Biascicò lui, lieto che
fosse lei l’araldo delle sue ultime parole.
Gilda
avrebbe desiderato fare di più, trovare il coraggio di
baciarlo magari, concedergli il primo momento di smielato romanticismo
del loro bizzarro rapporto, e al diavolo il lavoro.
Ma
non fece in tempo.
Il
Kaiju era tornato per riscuotere il suo debito, e ora sapeva
esattamente dove doveva colpire.
Gilda
seguì il giovane cadetto Fulvus nell’ultimo salto
che li avrebbe portati lontano da quell’incubo.
“Dannazione!”
si rimproverò da sé: “non
ho neanche fatto in tempo a dirgli addio!”
Tenne
chiusi gli occhi per tutto il tempo.
Lasciò
che fosse la sua immaginazione a completare per lei
l’immagine di ciò che dietro di lei stava
accadendo.
S’immaginò
la mano del Kaiju che si abbatteva dall’alto sul palazzo,
facendo di esso il sepolcro di Feather Scratch.
Immaginò
(sperò) che la sua morte sopraggiungesse rapida, magari con
un sorriso candido contornato sul becco.
Si
augurò che i suoi ultimi pensieri fossero indirizzati a lei,
mentre navigava tra i ricordi più lieti del loro passato.
Voleva
credere con tutta se stessa che stesse andando
così…
«D-dobbiamo
trovare un’altra soluzione, Signora!»
…
voleva illudersi che fosse spirato senza soffrire…
«Signora…
m-mi sente?»
…
in cuor suo, sperava che fosse morto prima che il giudizio del ciclope
fosse calato sulla sua anima…
«GILDA!»
Qualcuno
l’aveva chiamata? Era una voce maschile? Era Scratch, che in
barba ai suoi timori aveva trovato modo di scappare per raggiungerla in
volo?
Aprì
finalmente gli occhi, solo per rispecchiarsi nelle lacrime di un
giovane grifone che stava accompagnando la sua fuga verso una tappa
ancora più buia.
Sì,
anche Fulvus sapeva piangere. Toltosi di dosso il costume del bravo
soldatino tutto d’un pezzo, anche lui era soltanto un altro
ragazzo, che alla fine aveva ceduto alla pressione dello scontro.
«Che
cosa c’è?» Aveva chiesto lei, cercando
di mantenere la compostezza di una leader dal cuore di pietra, ma anche
a lei la recita le riuscì male.
Desiderava
solo raggiungere la sommità di una guglia abbastanza sicura
per poi planarci sopra e dare libero sfogo alla disperazione che in
quel momento la stava consumando dall’interno.
«Quello
che abbiamo fatto… è stato una perdita di
tempo!» Piagnucolò il cadetto, mentre una catena
di lacrime lo accompagnava dai bordi dei suoi occhi. «Non
possiamo vincere contro un nemico del genere! Non abbiamo i mezzi per
farlo! Ci… ci serve qualcosa di più grande!»
Prima
che Gilda avesse anche solo il tempo di chiedergli che cosa avesse
voluto dire, l’ironia del destino giocò la sua
carta più meschina, e il cadetto Rogue Fulvus
finì travolto alle spalle da un gigantesco ammasso di pietra
apparso, non si sa da dove, lungo la traiettoria del volo.
Gilda
volteggiò per un po’ senza controllo, resasi conto
di essere viva solo per miracolo, assistita dalla sua solita fortuna
sfacciata, che non si sa perché, aveva deciso di graziarla
ancora una volta.
«Noo!!»
Gridò mentre masso e Fulvus piombava verso il basso.
Si
voltò a guardare il Kaiju e lo vide fissarla attraverso il
suo unico occhio giallo, mentre i denti digrignavano emettendo ancora
quei fastidiosi stridii di placca che sfregava.
«Maledetto
bastardo, giuro sull’onore degli Antichi che te la
farò pagare cara, lo giuro!!»
I
lembi della pelle scura intorno alla bocca del ciclope
s’incurvarono, andando a comporre quello che aveva, a tutti
gli effetti, la forma di un sorriso malevolo.
Sì,
il Kaiju le stava sorridendo, constatò, con un sorriso
compiaciuto reso ancora più terrificante da
quell’unico occhio senza palpebre la cui piccola iride
stringeva il fuoco su di lei.
Solo
in quel momento la grifona con la cicatrice sul volto ebbe la conferma
che quello che aveva di fronte non era affatto uno stupido animale in
cerca di prede, ma un essere intelligente e spietato, che gioiva delle
vite che ad ogni minuto riusciva a trascinare con sé.
Il
Kaiju latrò anche un verso, il quale aveva tutte le
apparenze di una grassa risata indirizzata ai danni della sua
avversaria.
Poi
si girò dall’altra parte, come se avesse deciso
che con lei non avesse più nulla da spartire, e senza tanti
complimenti riprese a marciare con il suo giro di vite che si sommava
ad ogni momento.
Cos’era
appena successo?
A
Gilda bastò dare retta alle pulsazioni che avvertiva dentro
di sé per capire che con quel gesto il Kaiju le aveva
definitivamente e irrimediabilmente mortificato
l’onore:
privata del suo esercito e senza più armi o alleati a cui
affidarsi, era stata castrata delle sue facoltà di
combattere e obbligata a guardarlo senza poter più fare
nulla per arrestare la sua marcia di distruzione della capitale.
Le
aveva tolto la leadership e quindi gli affetti, per poi dominarla
prendendosi gioco di lei come si fa con un contendente umiliato, e
quindi lasciata a sguazzare nella pozzanghera dei perdenti.
Aveva
subito una sconfitta plateale. Uno sfregio che nelle antiche
tribù sarebbe stato punibile con l’esilio. Era
dunque questa la sorte che le toccava? Esiliarsi dalla sua gente per
vivere il resto dei suoi giorni come una nomade senza meriti, mentre
nelle città la guerra contro i Kaiju seguitava anno dopo
anno?
Oppure
c’era ancora qualcosa che poteva tentare? Un piano di riserva
che le avrebbe permesso di ristabilire il proprio onore per tornare
dignitosamente a casa?
Sì,
c’era, e lei era stata una sciocca a permettersi di dubitarlo.
Il
Kaiju forse aveva vinto una battaglia, ma alla fine della giornata il
conto lo avrebbe pagato lui.
Gilda
rimase sospesa nell’aria per un po’, concedendosi
del tempo per commemorare gli amici che avevano combattuto ed erano
morti al suo fianco: il Sergente Maggiore Feather Scratch, il grifone a
cui doveva tutta esperienza, l’eroico Rogue Fulvus, che era
rimasto con lei fino alla fine permettendole di scappare, e con loro
tutti i valorosi che avevano dato la propria vita per la causa di
Canterlot.
Quindi
partì, alla ricerca dei superstiti.
Doveva
trovarli, innanzitutto, e poi, con una lavata di capo che si sarebbe
narrata nei libri di storia, li avrebbe convinti a tornare sul campo.
Può
darsi che nel frattempo le Custodi degli Elementi sarebbero arrivate e
avrebbero terminato la battaglia prima del suo ritorno, ma se anche
fosse andato così, lei ci sarebbe stata.
Avrebbe
strappato quell’odioso occhio giallo dalla fossa del suo
cadavere e se lo sarebbe mangiato condito con un buon contorno di
patate arrosto.
E
le sarebbe piaciuto, ohh se le sarebbe piaciuto!
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