02 | Forza
Note:
ringrazio per le risposte positive. Sinceramente non me lo aspettavo,
pensavo che fosse un'idea un po' malsanotta. XD Sono contenta che sia
piaciuta.
Questo
è ancora un capitolo introduttivo, e inizierò a
distaccarmi un po'
dalla storia originale. La trama rimarrà sempre
più o meno quella,
ma ho voluto modificare qualcosa qua e là in modo da farci
entrare
tutti i personaggi che mi interessavano. Nel prossimo ci
sarà un po'
più di azione, spero (!)
Mi
scuso in anticipo per la mia pessima, pessima Isabelle.
Sto cercando di rimanere il più possibile fedele alla
caratterizzazione originale, tuttavia, per quanto ami Izzy con tutta me
stessa, non riesco a scrivere dal suo punto di vista. Perdonatemi. T__T
2
Forza
I
never see you anymore
Come
out the door
It's
like you've gone away
Jace
si coprì come meglio riuscì, buttando all'aria il
suo armadio fino
a quando non trovò qualcosa di sufficientemente caldo e
coprente. Il
lungo mantello viola, per quanto fosse dannatamente brutto, era
comodo e confortevole, e i pantaloni blu erano dello stesso modello
che utilizzavano gli operai che estraevano il ghiaccio d'inverno,
quindi (si sperava) assolutamente affidabili sotto ogni aspetto.
A
ragion veduta, forse il viola non gli stava troppo male come colore,
ma non era quello il momento di pensare ad assurdi abbinamenti
cromatici. Una volta che ebbe controllato di aver preso tutte le
provviste che potesse portare, calzò i pesanti stivali scuri
da neve
e issò lo zaino in spalla. La parte moralmente
più difficile fu
indossare il cappellino di lana e i guanti: era da anni che non
vedeva nessuno di questi accessori, ma per quanto ne sapeva la
ricerca si sarebbe potuta prolungare anche per settimane. Non poteva
rischiare di morire di ipotermia... non prima di aver trovato Alec,
per lo meno.
Il
pensiero del fratello lo riempì ancora una volta d'angoscia,
perciò
cercò di scacciarlo come meglio potè. Dopo aver
controllato per la
terza volta di aver preso tutto – era una persona metodica,
dopotutto – uscì dalla propria stanza e corse
lungo l'ampio
corridoio, giù fino al piano terra, più
velocemente che poteva.
Il
castello era diventato dimora temporanea di tutti quegli invitati che
erano giunti all'incoronazione via lago, e che non potevano ritornare
a casa a causa delle acque ghiacciate; sapeva che in quanto principe
avrebbe dovuto rispondere alle loro domande e ascoltare le loro
proteste, ma in quel momento la sua mente era focalizzata solo su
Alexander. Così li superò uno ad uno senza
degnarli di uno sguardo,
diretto verso le stalle. Con quella tormenta era impensabile andare a
cavallo, ma a piedi era decisamente peggio, e Alec avrebbe potuto
essere veramente chissà dove... avrebbe preso uno dei
più giovani,
sperando che avrebbe resistito alle intemperie, e pregato.
Troppo
perso nei suoi pensieri per prestare attenzione a dove stesse
andando, giunto al piano terra si scontrò contro qualcuno,
facendo
cadere entrambi rovinosamente a terra. Jace fu il primo a rialzarsi,
borbottando scuse neanche troppo convincenti.
La
persona che aveva travolto si esibì in qualche esclamazione
risentita, per poi saltare (letteralmente!) in piedi.
Non
aveva sentito bene le sue imprecazioni, ma quella figura, i capelli
appuntiti e, soprattutto, tutti quei brillantini, non lasciavano
presagire nulla di buono. Quello era Magnus Bane, l'apprendista
stregone di corte. Chiamarlo 'stregone' era una parola grossa: il
ragazzo, poco più grande di Alec qualche anno, non sapeva
fare che
semplici incantesimi di guarigione. Studiare la magia richiedeva anni
e anni di sacrifici, e Magnus aveva iniziato relativamente da una
decina d'anni; nonostante ancora non sapesse trasformare persone in
rospi, le sue conoscenze mediche ed erboristiche erano di tutto
rispetto. La sua famiglia, come quella di Jace, serviva da
generazioni i Lightwood.
“Levati,
Bane,” gli intimò Jace. Seppur fosse un figlio
adottivo dei vecchi
sovrani, rimaneva un suo diritto rispondere alla servitù
come meglio
gli aggradava. Solitamente non era così acido, visto che lui
stesso
non aveva origini regali, ma in quel momento non aveva proprio voglia
di perdere tempo in chiacchiere.
Magnus
incrociò le braccia al petto. La sua tunica verde fluo
scintillava
sotto la luce delle candele, ora di nuovo accese. “Dove state
andando, se posso chidere?” Era una domanda retorica,
perché
quando Alec era scappato c'era anche lui nel salone. Nonostante la
velata ostilità che correva fra loro, si conoscevano
entrambi
abbastanza bene.
“A
riportare il re a casa.” Rispose il ragazzo biondo spiccio.
Raccolse da terra il cappellino di lana e, con una smorfia
contrariata, se lo sistemò in testa alla ben'e meglio.
Fece
poi per sorpassare lo stregone, ma questi lo afferrò per il
braccio.
Nonostante la corporatura decisamente più esile della sua,
la sua
presa era solida. “Lasciatemi venire con voi.”
Disse
semplicemente.
“Non
se ne parla nemmeno.” Ribatté Jace, esterrefatto
“Da solo lavoro
meglio.”
“Se
vi prenderete un raffreddore – e ve lo prenderete,
perché non
v'importa tanto degli altri ma nulla di voi stesso – non
sopravviverete neanche per ventiquattr'ore là
fuori.” Constatò lo
Magnus con semplicità disarmante. Quando lasciò
la presa sul suo
braccio, Jace alzò lo sguardo sul suo viso. C'era una
determinazione
incrollabile dietro quegli occhi felini, quasi come se in gioco ci
fosse la sua stessa vita. Il che apparentemente sembrava abbastanza
stupido in effetti, ma ad un'attenta riflessione neanche troppo: era
suo dovere proteggere i membri della famiglia reale, dopotutto.
“Non
sarò un bravo combattente, ma sono un guaritore decente.
E...”
esitò. Nel suo sguardo Jace intravide... cosa intravide? Era
forse
ansia, quella? “avrete bisogno di tutto l'aiuto possibile.
Sono
originario di un paesino al di là delle montagne, conosco la
vallata
abbastanza bene.”
A
differenza vostra,
avrebbe sicuramente voluto aggiungere, ma non ce n'era stato bisogno:
sapevano entrambi che era vero, senza bisogno che Magnus specificasse
l'ovvio. Né lui, né Isabelle o Alec, erano mai
usciti dal castello,
e Jace era sicuro che sarebbe stato capace di perdersi perfino nel
centro di Idris.
A
malincuore, fu costretto ad accettare il suo aiuto. Anche se fosse
stato il cartografo ufficiale di Alicante, dubitò che
sarebbe
riuscito a dissuadere Bane, e, in ogni caso, avere uno stregone al
proprio fianco avrebbe potuto rivelarsi utile. “Hai quindici
minuti
per cambiarti. Ci vediamo dalle stalle quando sarai pronto. Prendi
provviste dalla cucina già che ci sei.”
Ordinò semplicemente, e
Magnus, senza aggiungere altro, sparì rapidamente in un
corridoio.
*
Alec
sentiva i fiocchi di neve sulle mani, sul viso, ma, con sua enorme
sorpresa, non sentiva la morsa del gelo sulla pelle. In
realtà, era
proprio il contrario: la neve scivolava sul suo volto, sul collo,
dentro il collo della giacca, e quella sensazione di bagnaticcio era
riuscita, in qualche modo, a calmarlo. Percepiva il freddo, ma era
piacevole, quasi rilassante.
Non
avrebbe dovuto reagire così, durante il ballo. Dopotutto, si
era
allenato per controllare quei... quella forza misteriosa. Avrebbe
voluto chiamarli 'poteri', ma fin da bambino aveva associato quella
parola alle fate, e a tutti i tipi di magia bianca di cui aveva
sentito parlare: sempre incantesimi a fin di bene, ovviamente.
La
forza che possedeva era spaventosa e distruttiva al tempo stesso, e
lui si sentiva più mostruoso delle sue abilità,
perché non era in
grado di controllarle. Fin da bambino suo padre aveva provato a
insegnargli come reprimere le sue capacità, col timore che
avrebbe
potuto ferire inavvertitamente qualcuno.
Oh,
se aveva avuto ragione.
Solo
quando Magnus gli portava i pasti si sentiva un po' meno anormale. Lo
stregone si materializzava con uno schiocco di dita in camera sua, si
aggirava nella sua stanza come se fosse la propria, ignorando il
ghiaccio per terra e alla finestra, e gli parlava a lungo di
qualsiasi cosa gli passasse per la mente. Il principe pensava che lo
facesse per distrarlo, e non gli dispiaceva affatto. Certi giorni,
quando Alec era tranquillo, leggevano assieme e discutevano di
filosofia, materia che aveva sempre affascinato il più
giovane dei
Lightwood, di arte e della natura. In sua compagnia, riusciva perfino
a dimenticarsi della sua segregazione forzata: si sentiva un ragazzo
normale, in compagnia di una persona decisamente più
straordinaria
di lui.
Poi,
c'erano gli altri
giorni, quelli in cui non riusciva a controllarsi, in cui rischiava
di essere un pericolo per chiunque, e più cresceva
più questi
aumentavano di frequenza. Aveva pensato che maturando avrebbe
imparato, invece era sempre peggio; era come provare a contenere un
fiume in piena durante un temporale. Nonostante i suoi sforzi, il
ghiaccio arginava dalla sua mente, usciva dalle sue mani, e Alec si
faceva prendere dalla morsa del panico. Voleva che smettesse, ma
più
si agitava e più usciva, e da solo semplicemente non sapeva
come
fermarsi. La sua stanza diventava di ghiaccio, e Magnus, tremante per
il freddo (ma non per la paura, mai
per la paura), doveva farlo addormentare con infusi particolari per
calmarlo.
Era
da quando erano morti i suoi genitori, quattro anni prima, che
quell'amicizia insolita andava avanti fra loro, e se non fosse stato
per la compagnia dello stregone, avrebbe sicuramente posto fine alla
propria vita. Per quanto fosse sempre stato amante della solitudine,
vivere in quella maniera era decisamente troppo
anche per lui. Quando era piccolo, ogni volta che i suoi fratelli gli
chiedevano di giocare con loro, piangeva in silenzio, cercando di non
farsi sentire, con la schiena appoggiata contro la porta e un sottile
strato di ghiaccio laddove era seduto.
Col
tempo, Isabelle aveva smesso di venire, ma Jace no. Erano entrambi
testardi, ma il fratello adottivo aveva sempre avuto un'indole che
sfiorava il masochismo puro. Ogni giorno tornava alla sua porta, a
volte piangendo, a volte insultandolo, e Alec ingoiava il rospo ogni
volta, accampando scuse sempre più deboli e allontanandolo
con ogni
mezzo possibile.
Era
una fatica immane, ma necessaria: non poteva permettersi di fare del
male ancora una volta a qualcuno. I suoi fratelli non avrebbero
dovuto conoscere (o meglio, ricordare) la sua vera natura.
Fino
a quando, un giorno, con suo sgomento e sollievo, perfino Jace aveva
smesso di cercarlo. E sarebbe stato meglio così per tutti,
se non
che il destino, beffardo come al solito, aveva avuto altri piani per
loro.
Poche
ore prima, era stato sul punto di uccidere Jace, il suo amato
fratellino. Era stato così felice
di averlo rivisto dopo tanti anni: era diventato alto, e bello,
incredibilmente bello. Era così sicuro di sé,
così splendente e
luminoso, che per un attimo era stato come se non fosse passato che
un minuto dall'ultima volta che si erano rivisti. Avevano parlottato,
Alec sempre in imbarazzo, e avevano perfino scherzato
assieme, come quando erano bambini.
A
differenza di Isabelle, testarda e orgogliosa e incredibilmente
irritante quando voleva, l'intenzione di Jace era solo quella di
aiutarlo, e lui, di rimando, avrebbe soltanto voluto evocare una
scheggia di ghiaccio e trafiggerlo con essa, trapassargli il cuore
parte a parte solo per farlo tacere, per togliergli quell'espressione
di pietà dal viso.
Si
sentiva disgustoso, e sporco, terribilmente sporco.
Si
guardò le mani. Se Jace non gli avesse sfilato il guanto
durante il
loro litigio, sarebbe riuscito a controllarsi? Forse sì, ma
non ne
era del tutto sicuro. I guanti, gli aveva spiegato suo padre quando
era bambino, erano un mezzo per facilitare il controllo, ma
un'abilità potente come la sua non avrebbe mai potuto essere
soggiogata da un pezzo di stoffa.
Si
tolse anche l'altro guanto, gettandoselo alle spalle, senza smettere
di camminare. Non sapeva ancora di preciso dove andare; voleva solo
nascondersi, fuggire da tutti e tutto, liberarsi da quello spiacevole
peso sulle spalle.
Tuttavia,
per la prima volta nella sua vita, nonostante il senso di colpa,
iniziava a sentirsi in pace con se stesso. Aveva corso per ore sotto
la neve, fuggendo da quegli sguardi inorriditi e spaventati (non
riuscivano a capire che lui era più spaventato di tutti loro
messi
assieme?), scappando dall'amore stupido e incondizionato di suo
fratello e dalla disperazione di sua sorella. Dopotutto, era quello
che sapeva fare meglio, no? Fuggire e nascondersi. A differenza di
Jace e Izzy, non era mai stato particolarmente sicuro di sé
o
coraggioso.
Sentiva
gli stivali sprofondare nella neve alta. Decisamente non erano adatti
a quel tipo di clima, ma quella sensazione lo faceva sentire
veramente in pace. Si sentiva tutt'uno con la natura, col ghiaccio e
con le montagne: per la prima volta, poteva immergersi nel suo
elemento, da solo, senza avere il timore di fare del male a qualcuno.
Volse
il palmo della mano verso il cielo, e provò a evocare un
fiocco di
neve, giusto per vedere, dopo così tanti anni di
repressione, cosa
si provava utilizzando le sue capacità per un suo capriccio
personale.
Ed
eccolo lì, che si stava materializzando timidamente, baciato
dai
fiocchi di neve più piccoli e decisamente più
naturali di lui: poco
più piccolo del suo pugno, stilizzato ma precisissimo nella
forma,
proprio come lo aveva figurato nella sua mente.
Scoppiò
a ridere. Dopo tanto tempo, Alec scoppiò a ridere per un
motivo che
non fosse legato a Magnus.
Era
egoistico da pensare, ma si sentiva bene, incredibilmente bene.
Libero.
Fece
svanire il fiocco con un gesto spiccio della mano, e
continuò a
camminare verso nord, dove le montagne erano più alte e
ripide.
*
Nonostante
tutto, Isabelle era parecchio fiera di se stessa. Alle due del
mattino, riusciva a essere straordinariamente impeccabile nel suo
lungo abito verde acqua, e a rispondere a tutte le domande e
lamentele
degli ospiti.
Meliorn
– bravo, buono e bellissimo Meliorn
– li aveva fatti radunare tutti nell'entrata principale
immediatamente dopo la partenza di Jace e Magnus. Da un lato era
grata per quel bel gesto (poteva solo immaginare quanto fosse stata
dura mantenere un tono tranquillo e contemporaneamente convincere
quella massa di deficienti ad ascoltarlo), dall'altro l'idea di
spiegare tutto, o solo in parte, quello che era successo le faceva
saltare i nervi.
“Signori!
La nostra priorità al momento è il popolo di
Alicante,” esclamò
per l'ennesima volta Isabelle, cercando di rimanere seria e composta.
La sua voce, con sua enorme gioia, uscì dalle sue labbra
severa e
imperiosa. Dentro di sé, tuttavia, si sentiva logorata dalla
rabbia:
rabbia verso Jace che l'aveva lasciata a casa, prendendosi l'unico
guaritore decente del palazzo, rabbia verso Alec che non solo aveva
reso la sua vita un inferno completo senza neanche farsi vedere (il
che era decisamente notevole, doveva ammetterlo), ma aveva anche
rovinato quella che avrebbe potuto essere la serata più
bella della
sua vita. “Dobbiamo procurarci bevande calde, legna e coperte
per
tutti loro. Se ci aiuterete, potrete usufruire fino a tempo debito
della nostra cordiale ospitalità.”
Il
se
non ci aiutate,
potete andarvene da qui immediatamente
era stato così chiaramente sottointeso, da non essere
apparentemente
sfuggito a nessuno: la decina di nobili di fronte a lei e Meliorn
iniziò a confabulare fra loro circa chi si sarebbe occupato
di cosa.
Al
suo fianco, Meliorn le sorrise, avvolgendole la vita con un braccio.
“Sei
fantastica. Sei così giovane, eppure sei riuscita a farti
rispettare
da alcuni degli uomini più temuti del continente.”
Isabelle
sorrise, compiaciuta. Era sempre bello sentire qualche complimento,
specialmente quando si è così soli e tristi da
dimenticare quasi
come suonino alle orecchie, “E' per questo che ti
amo.”
La
ragazza gli sorrise, e lo baciò. Non avrebbe permesso a
nessuno di
rovinarle quella piccola parvenza di felicità. Neanche ad
Alec.
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