II.
Meeting The Woman
“Applicate
l’unguento tre volte al giorno, con movimenti circolari. Dovrebbe alleviare il
prurito, così questo piccolo soldatino potrà recuperare un po’ di ore di
sonno.”
Sorridendo
calorosamente alla vista dell’espressione sollevata della donna poggiata alla
parete di fronte a lui, John scompigliò i capelli del suo giovane paziente,
sentendo il cuore leggero quando questi lo ripagò con una squillante risata.
“È
incredibile come Anson sia calmo con voi dottore!” tubò la donna, avvolgendo suo figlio con un
pesante scialle di lana e sollevandolo dal lettino su cui John lo aveva
sistemato per la visita, “Quando lo portavo dal Dottor Wood -che riposi in
pace!- era sempre un gran piangere!”
“Non
saprei che dire…” rispose John, sentendosi arrossire leggermente, “Sarà perché ci
so fare, con i bambini…”
“Oh
questo è piuttosto evidente, Dottore!”
In effetti, le numerose zollette di zucchero
che aveva tanto allegramente concesso al bambino mentre lo auscultava, o tutte
le moine che gli aveva rivolto -e che gli sarebbero certamente valsi epiteti
poco simpatici se Harry, Dio non volesse, lo fosse venuto a sapere- lasciavano
poco spazio a dubbi.
Congedando
la donna con un sorriso, John cercò con gli occhi la superficie di legno della
sua scrivania, sulla quale due cornici gemelle, che erano sistemate in modo
tale da mostrare le foto che gelosamente contenevano soltanto agli occhi di chi
si fosse seduto nella morbida poltrona di pelle verde muschio. I suoi pensieri corsero
subito a Hamish: ai suoi occhi luccicanti, al modo unico in cui lo accoglieva
quando tornava dal suo studio, alla sua risata…ah! Non c’era niente, NIENTE che
potesse eguagliare l’allegria sprigionata dalla risata di suo figlio.
Chissà
come si stava comportando in quel momento. Il viaggio da Londra a Castlecross
era incredibilmente lungo, soprattutto se vissuto da un bambino di otto anni
che non era capace di stare fermo neppure quando dormiva, e Clara era
certamente una zia amorevole, ma tutt’altro che paziente. Forse in quel momento
stava chiedendole per la centesima volta di fermare la carrozza e scendere due
minuti. O più probabilmente stava facendo impazzire il cocchiere ripetendo fino
allo sfinimento ‘Siamo arrivati?’. Si ritrovò a ridacchiare come un’idiota,
anche se la sua risata era più amara di quanto avrebbe voluto ammettere. Perché
i suoi pensieri si stavano incanalando in un flusso doloroso, fluendo dal
piccolo Watson alla donna che lo aveva messo al mondo, e in quel momento lui
non voleva…
“Buon
pomeriggio, Dottore.”
…e
a quanto pareva, non poteva neppure. Si armò del suo migliore sorriso da niente paura, c’è un medico in sala e si
voltò verso la porta del suo studio. Un secondo dopo, il sorriso era stato
sostituito dall’espressione più inebetita in cui il suo viso poteva esibirsi e
la sua mascella minacciava di andare a prendere posto sul pavimento. La sua
nuova paziente -che lo squadrava soddisfatta, ogni piega del suo sorriso piena
della consapevolezza di aver fatto un certo effetto sul timido Dottore- era a
dir poco una donna appariscente: strizzata in un corsetto nero di almeno due
taglie più piccolo, aveva labbra rosse come il sangue, gioielli vistosi, occhi
svegli e maliziosi e soprattutto un frustino di pelle stretto tra le mani
guantate.
“Vi
consiglio di prendere fiato, Dottore. Ho bisogno di tutte le vostre cellule
vive e attive. Se avessi voluto parlare con un decerebrato, beh, avrei parlato
con uno qualsiasi dei miei clienti.” Gli disse con voce vellutata, e John
dovette scuotere con vigore la testa per scuotersi dal torpore della sorpresa.
Da
Castlecross si era aspettato di tutto… meno che trovare una donna come quella.
Dieci sterline che fosse l’argomento preferito dei pettegolezzi che venivano
scambiate di Domenica, nella piazza della Chiesa. E avrebbe giocato al ribasso.
Deglutì.
“Perdonatemi, Mrs...?”
“Miss,
prego. Miss Irene Adler. Ma gli amici mi chiamano semplicemente ‘La Donna’. E
con amici intendo…”
Disagio.
Disagio tremendo. E certo il fatto che John non riuscisse a smettere di fissare
Miss Adler non era d’aiuto. Proprio per niente. Cercò di riprendere il
controllo di sé (“Andiamo, Watson! Sei
stato in guerra, non puoi lasciarti sbigottire da una donna! Riprenditi, per
Dio!”), e portando gli occhi sul pavimento (vecchio pavimento, innocuo
pavimento, pavimento che non era armato di frustino) si schiarì la voce.
“Prego
accomodatevi Miss Adler…” disse, indicandole la direzione generale del lettino,
“…e ditemi: cosa posso fare per voi?”
Il
rumore di tacchi a spillo sul pavimento gli ferì le orecchie. Solo quando John
fu sicuro che si fosse sistemata comodamente si azzardò ad alzare gli occhi,
attendendo pazientemente che la donna parlasse.
“Non
temete, Dottore. Non è per un motivo che concerne la mia salute che sono venuta
a parlavi.” Si sentì uno schiocco nell’aria, come se la donna avesse voluto
tacitare ogni possibile intervento di John con un colpo secco del suo frustino,
“Vedete, io ho una piccola attività, qui in paese. Lavoro abbondante,
collaboratrici piacevoli e vivaci… ma, ahimè, umane. E come tali, soggette ai
malanni del mondo, pur necessitando -in virtù del loro impiego- di una dose
supplementare di discrezione. ”
John
non capì immediatamente di che cosa la donna stesse parlando riferendosi alla
sua attività, né poté fare a meno di chiedersi per quale motivo si fosse recata
in ambulatorio così presto al mattino se non aveva immediato bisogno di cure.
Poi, qualcosa fece click nella sua
mente, e finalmente gli abiti della donna, il suo modo di fare, il suo discorso
sulla discrezione cozzarono insieme. Se stavolta la mascella di John non cadde,
fu solo per mera casualità.
Miss
Adler si portò una mano alla bocca per nascondere il sorriso che lo stupore di
John aveva causato. Era interessante, quel piccolo Dottore. Se le voci erano
vere, aveva vissuto in una grande città per gran parte della sua vita, aveva
barattato la monotonia di tutti i giorni per la sabbia del deserto e l’orrore
della guerra ed era tornato ferito e rotto -eppure, riusciva ancora a stupirsi
genuinamente di trovarsi davanti una donna di mal affare. Se non fosse stato così
ordinario, lo avrebbe definito quasi carino.
“Perché
siete qui, Miss Adler?” le chiese John, un caldo sorriso sul volto nonostante
il suo evidente disagio,
“Solo
per sondare il terreno in vista di una futura, piacevole collaborazione.” Se la
voce di Miss Adler somigliò vagamente ad un miagolio, nessuno dei due ne fece
parola.
“Collaborazione?”
“Ma
certo, Dottore! Le ragazze hanno bisogno, io vi faccio un fischio, e voi correte.
Con discrezione, ovviamente: non vorremo far pensare alla buona gente di Castlecross
che il loro buon Dottore sia soggetto ai bisogni della carne come un uomo
comune!”
Per
un attimo John ebbe la tentazione di puntare i piedi, e dire alla donna di
prendere la sua arroganza e uscire da quella porta. Non era un genio, non lo
era per niente, ma non serviva un intelletto superiore per capire che c’era
qualcosa di sbagliato in Miss Adler: dietro alla facciata di bellezza e
maliziosità -che certamente i suoi clienti apprezzavano largamente- John
riusciva a scorgere un’oscurità ben più intrinseca del lavoro che praticava. Il
suo istinto gridava a gran voce di stare alla larga da quella donna il più
possibile, e lui aveva imparato anni addietro a dare ascolto al suo istinto.
Ma…
Perché
c’era un ‘ma’: come poteva in sua coscienza rifiutare un aiuto a chi aveva
bisogno? Se vivere a Londra gli aveva insegnato qualcosa, e gli aveva insegnato
molto, era che le malattie più pericolose e infide si annidavano proprio tra i
velluti e l’aria pregna di profumi a buon mercato delle case di tolleranza.
“Se c’è un posto in cui ci sarà reale bisogno
di un medico, sarà certamente da Miss Adler e dalle sue affiliate…”
Sospirò,
poggiando tutto il suo peso sul bastone. “Il Dottor Wood come si comportava in
merito?”
“Sareste
sorpreso sapendo con quanto zelo, entusiasmo e sollecitudine il buon vecchio Francis
era solito rispondere alle nostra chiamate. Fino all’ultimo, oserei dire, si
tratteneva da noi ben più a lungo di quanto richiedessero i suoi doveri.”
L’insinuazione
celata nella voce della donna fece venire a John la pelle d’oca, e fu costretto
a stringere i pugni fino ad avere le nocche bianche per non sbottare. La sua
tensione non sfuggì alla Adler, e la sua lingua fu pronta a sputare ulteriore
veleno.
“Suvvia!
Non dovete stupirvi! È una cosa perfettamente normale!” esclamò, alzando le
mani in un falso segno di resa, “In fondo, il metodo di pagamento che Francis
aveva scelto passava proprio attraverso le mie ragazze. Letteralmente.”
Dovette
leggere il puro disgusto che trasudava da tutta la figura di John, perché
subito -anche se con il gusto di chi ama sondare i limiti delle persone con cui
ha a che fare- si affrettò ad aggiungere che, nel caso in cui John si trovasse
a disagio, si sarebbero potuti accordare su un metodo alternativo per
ricompensarlo dei suoi servigi.
“Non
chiederò né più né meno di quello che chiedo di solito ai miei pazienti, Miss
Adler.” Fu la pronta risposta dell’uomo, “Anche se dovrò chiedervi di andare,
adesso. Sono certo che ci siano altri pazienti in attesa di farsi visitare, con
bisogni che richiedono la mia attenzione immediata.”
“Ma
certo, certo!”
La
donna si alzò e con una strizzata d’occhio e un sorriso che aveva un certo che
di serpentino lasciò languidamente lo studio. Dietro di lei si lasciò una vaga
traccia di profumo soffocante e decadente, e John si rese conto di aver
trattenuto il fiato soltanto quando Harriet fece irruzione poco dopo nella
stanza, chiudendo la porta e appoggiandovi le spalle.
“Oh.
Mio. Dio.” Sospirò, guardando suo fratello con occhi quasi spiritati e un
soffuso rossore sulle guance, “L’hai vista?”
“Miss
Adler intendi? Come non vederla.”
A
John non piaceva lo sguardo di sua sorella, non gli piaceva per niente. Anche
un cieco avrebbe visto che Harriet era rimasta piuttosto scossa dall’incontro
con la bella meretrice, quindi, se le parole uscirono dalla sua gola in maniera
quasi minacciosa, doveva essere scusato.
“Oh,
andiamo! Non fare quella faccia! Volevo solo dire che non si incontrano tutti i
giorni donne così belle.”
“Sono
sicuro che Clara avrebbe qualcosa da dire al riguardo.”
Se
gli sguardi avessero potuto uccidere, John sarebbe perito sotto l’ira che
sprizzava dalle pupille della sorella. Ghignò nella sua direzione: sapeva di
aver giocato sporco, ma non gli importava affatto.
Harriet
praticamente sibilò: “Clara non è qui adesso.”
“Ma
sarà qui prima di sera.”
“E
tu naturalmente farai il soldatino diligente e le dirai che ho posato gli occhi
su un’altra donna. Andiamo, John. Sappiamo tutti e due che guardare non
equivale a tradire.”
Touché.
Ma anche se Harriet aveva ragione, questo non impedì a John di lanciarle una
delle sue occhiate di biasimo. Se soltanto cose del genere avessero avuto
ancora effetto su di lei…
“Cambiamo
discorso, che è meglio. Quanti pazienti sono in fila fuori?”
“Non
molti. Solo una vecchietta con il raffreddore e un paio di uomini che portano i
segni di una notte brava.”
John
prese un bel respiro, riflettendo sull’evenienza di far passare avanti i due
uomini confidando sulla pazienza della vecchietta, quando si rese conto che non
solo Harriet si era accesa una sigaretta -tralasciando esplicitamente il fatto
che John semplicemente non potesse sopportare il fumo- ma si stava rigirando
tra le mani quello che aveva tutta l’aria di essere un biglietto da visita. Di
nuovo, fare due più due non fu poi così arduo.
“Dimmi
che non hai accettato il biglietto da visita di Miss Adler.”
“Va
bene. Non ho accettato il biglietto da visita di Miss Adler.”
In
un altro momento l’ironia di Harriet lo avrebbe fatto ridere. In. Un. Altro.
Momento.
“Devo
elencarti le dieci ragioni per cui hai sbagliato o riesci a trovarle da sola?”
Harriet
ignorò il tono supplichevole della sua voce, impegnata com’era a leggere a voce
alta il contenuto del bigliettino.
“Calico Club. Mh. Non sono sicura che sia
un nome appropriato per una casa di piacere.”
“Harry…”
“Oh,
guarda! Non è neppure troppo lontano da qui.”
“Harriet…”
“Sai
quasi quasi potrei farci un salto. Solo per controllare che le… ehm… ragazze
siano tutte sane e felici.”
“HARRIET
CATHERINE WATSON! Mi auguro che il tuo comportamento sia dovuto al tuo insano
desiderio di vedermi impazzire, e non a una tua reale e sfrontata follia!”
Il
grido fu talmente forte che, nella stanza accanto, le tre persone che avrebbero
voluto farsi visitare si scambiarono occhiate basite. Alla vecchia Mrs. Miller
sfuggì anche un rapido segno della croce, solo per buona norma. Comunque,
furono soltanto loro ad essere toccate da quella rumorosa sfuriata: Harry Watson
infatti danzò serena e tranquilla fuori dallo studio del fratello, facendo
cenno a uno degli omaccioni -quello con un’evidente frattura al naso- di farsi
avanti ed entrare.
John,
dal canto suo, si sentiva a dir poco sfibrato. Sperava soltanto che le sei
arrivassero in fretta, e che potesse annegare i suoi pensieri nei ricci del suo
bambino prima di impazzire sul serio.
***
Il
viaggio era noioso. NO-IO-SO.
Zia
Clara non aveva fatto altro che dormire per tutto il tempo, e dopo la terza
volta -okay, forse era più la ventesima volta- che lui aveva provato a chiedere
al cocchiere quanto mancasse per arrivare a Castlecross, l’uomo lo aveva
minacciato di fermare la carrozza e fare dietro-front per Londra se avesse
sentito anche un solo fiato da lui.
Se
non fosse stato per Gladstone, a quell’ora sarebbe morto di noia. Anche se il bulldog
poteva far poco, a parte sbavare sul vestito nuovo di zia Clara e continuare a
dargli la zampa (nonostante lui gli stesse ordinando di fare il morto), per
intrattenerlo.
In
poche parole, Hamish Watson era a dieci minuti di distanza da un capriccio di
dimensioni epiche. Non avrebbe ottenuto niente -di certo non aveva l’illusione
che un suo pianto, per quanto rumoroso e ben ricco di lacrimoni fasulli e
lamenti strappacuore, potesse in qualche modo accorciare il tragitto fino a
quel posto perso in mezzo al nulla che sarebbe stata casa sua- ma lo avrebbe
aiutato a passare un po’ di tempo.
Sospirò,
guardando fuori dal finestrino i fiocchi di neve che turbinavano nell’aria. Quando
diceva perso in mezzo al nulla, Hamish non scherzava. Castlecross era talmente
piccino che non si trovava neppure nelle cartine: quando aveva detto al suo
insegnante che si sarebbe ben presto trasferito in quel posto, lui lo aveva
addirittura accusato di essersi inventato tutto; se non fosse stato per il
pronto intervento di zia Harry, Mr. Jones sarebbe stato ancora lì a sindacare
sulla sua, testuali parole, ‘fantasia sovra-stimolata’. Per non parlare delle
facce sorprese di Louis e Carl, i suoi due migliori amici…
Fu
in quel momento, tra il rammarico per gli amici che si era lasciato alle spalle
e l’impazienza di rivedere suo padre, che la monotonia del viaggio venne
spazzata via.
Cominciò
tutto proprio con Gladstone. Suo padre gli aveva regalato il cagnolone ormai
tre anni prima, per il suo compleanno, e in tutto quel tempo Hamish non l’aveva
mai sentito abbaiare, nemmeno una volta -tanto che si era più volte chiesto se
il bulldog fosse troppo buono o troppo stupido per comportarsi da cane normale.
Comunque, quel giorno il cucciolone decise non solo di abbaiare… ma anche di
mettersi a ringhiare. Ferocemente, pure, con tutto il corpo scosso dall’ira e i
denti scoperti. Già questo sarebbe stato più che sufficiente a spaventare
Hamish a morte: il brusco arrestarsi della carrozza e il filo di panico negli
occhi neri di zia Clara quando si svegliò servirono soltanto da contorno -la
classica ciliegina sulla torta.
“Zia…che
succede?”
“Non
lo so tesoro. Mr. Hook? C’è qualcosa che non va?”
Il
cocchiere non rispose: il ringhio di Gladstone si fece più cupo, e di lì a poco
vi si unì il raschiare delle sue unghie contro la porta della carrozza.
Clara
deglutì, cercando di sorridere a suo nipote nel modo più rassicurante
possibile. In entrambe le loro menti riecheggiava a ripetizione l’avvertimento
che suo padre aveva dato loro prima di partire, il giorno precedente: non
scendete dalla carrozza per nessun motivo, perché la foresta è pericolosa.
Molto probabilmente avrebbero avuto un piccolo assaggino di quel ‘pericolosa’.
“Mr.
Hook?”
Hamish
cominciò a pensare che il cuore gli sarebbe esploso nel petto, tanto forte
batteva. Cacciò indietro le lacrime che minacciavano di straripare dai suoi
occhi, e in un gesto quasi istintivo si voltò verso sua zia per affondare il
viso nel suo scialle e isolarsi così da quel terrore.
E
fu così che, mentre si voltava verso Clara disperatamente, che la vide fuori
dal finestrino: una donna, magra da far spavento, con capelli ricci e selvaggi
e pelle scura; si muoveva nel bosco, tra la neve, vicino alla loro carrozza, ma
non in maniera naturale… sembrava sul punto di cadere ad ogni passo, come se
l’aria fosse diventata improvvisamente troppo pesante per lei. Ad Hamish mancò
all’improvviso il respiro. Avrebbe voluto tanto poter distogliere lo sguardo, o
per lo meno avvertire zia Clara, dirle di guardare fuori, ma non poteva,
semplicemente non poteva, perché quella figura stava girando il viso nella loro
direzione, e lui sapeva, ancor prima di vedere sapeva che non avrebbe avuto occhi. Finalmente, dopo quella che
sembrò a tutti gli effetti un’eternità, mentre il vuoto di quelle due cavità
mostruose gli scavava la pelle, le palpebre di Hamish riuscirono a serrarsi.
Quando le riaprì, Gladstone russava tranquillamente ai suoi piedi, mentre zia
Clara scambiava facezie con il cocchiere.
La
carrozza si muoveva tranquillamente, come se niente fosse successo. Della
donna, neppure a dirlo, non c’era traccia.
Hamish
Watson credette di aver sognato.
***
“Oh,
Sherlock! Questa volta hai proprio esagerato!”
Un
gesto della mano: per scacciare Mrs. Hudson dalla stanza non servì altro. Certe
volte la donna rimaneva cocciutamente al suo posto, mani sui fianchi e volto
tempestoso, e Sherlock era costretto a ricorrere a un pizzico dei suoi poteri
illusori per terrorizzarla e farla uscire dalla sala strillando che ne aveva
abbastanza e se ne sarebbe andata -non che lo facesse mai… Sherlock poteva fare
letteralmente di tutto, da spargere frattaglie sulle pareti di tutto il
castello a fare esplodere le cucine, e lei non se ne andava mai.
Quel
giorno però, evidentemente, vederlo trastullarsi con gli occhi che aveva appena
acquisito era stato già troppo per lei. Poco male. Non poteva perdere tempo con
Mrs. Hudson, aveva da fare: Aggie Donovan aveva pagato il prezzo che le era
stato richiesto, ora toccava a Sherlock mantenere la parola data.
Si
alzò con fatica dalla poltrona, barcollando da una parte all’altra quando un
ormai dolorosamente familiare senso di vertigine lo assalì. Rimase immobile,
mentre il mondo intorno a lui ruotava impietosamente, un alone nero che si
addensava ai lati di ciò che vedeva, un vago ma persistente senso di nausea ad
attanagliargli la bocca dello stomaco.
Se
Sherlock fosse stato un Demone dotato di ironia, in quel momento avrebbe riso
pensando a come si era ridotto. Sfortunatamente, l’autoironia non era fra le
sue doti più affermate. Lo era la cocciutaggine, però. E non avrebbe permesso a
quel corpo che altro non era che un mero trasporto di limitare le sue azioni.
Incespicò
fino alla scrivania, lasciandosi sfuggire un “Laat!”
accorato quando per poco non cadde, e le sue mani non persero la presa sul suo
preziosissimo bottino. Sarebbe stato… inconveniente: chissà quanto tempo
sarebbe passato prima che qualcun altro gli offrisse i suoi occhi su un piatto
d’argento -e lui, di tempo, non ne aveva più.
“Sabaooaona chigar?”
Alzando
gli occhi al cielo, Sherlock si voltò nella direzione da cui proveniva quella
voce gracchiante. Le orbite vuote di un teschio lo osservavano con interesse
dalla mensola del caminetto.
“Ti
ho detto un centinaio di volte di non usare la lingua antica in questo modo,
Yorick.” Ringhiò, lanciando al suo interlocutore uno sguardo di disapprovazione
a cui il teschio rispose facendo schioccare i denti.
“Se
non qui, dove? Non credo che torneremo presto negli Inferi. E se non mi esercito
chissà, potrei perderne la memoria.”
“I
teschi non hanno memoria.”
“Al
contrario! Non c’è memoria più forte di quella conservata nelle ossa. E
comunque, non hai risposto alla mia domanda. Di chi sono quegli occhi?”
Sconfitto,
Sherlock sospirò. “Aggie Donovan. La figlia di Ford Donovan.”
“L’ubriacone?
Hanno deciso di liberarsi di lui? Poco male: sarà un buon pasto per te.”
Ignorando
quell’ultima esclamazione, Sherlock spostò l’attenzione sulla scrivania davanti
a sé.
Per
fortuna, Mrs. Hudson aveva preparato il barattolo di formaldeide come lui aveva
richiesto. Lo infastidiva oltre ogni dire dover rinunciare alla sperimentazione
su un tessuto appena rimosso dal corpo umano, ma aveva seri dubbi che nel suo
stato presente avrebbe potuto portare a termine il suo esperimento senza commettere
una qualche disattenzione e mandare tutto a rotoli. Avrebbe dovuto rimandare… e
il fatto che avesse un rito da portare a termine spingeva decisamente in favore
di quell’opzione.
Osservò
per un istante i bulbi oculari fissarlo lugubremente attraverso il liquido e il
vetro del barattolo, per poi prendere un respiro e gettarsi nella generale
direzione del suo studio, sordo al richiamo di Yorick che gli suggeriva di
portarlo con sé.
Era
nello studio che portava a termine tutti i suoi lavori. Nessuno lo disturbava
mai in quel luogo.
Aveva
fatto solo pochi passi nella stanza quando una nuova ondata di nausea lo
aggredì, e Sherlock si ritrovò inginocchiato a terra, con una mano sulla bocca
per impedirsi di gridare. Il suo corpo lo stava implorando: sentiva il richiamo
degli Inferi scivolare su di lui con le sue note maledette e seducenti.
Ma
Sherlock rimase sordo anche a questo richiamo. Si alzò in piedi, sibilando
maledizioni su maledizioni, e con mano tremante raggiunse un piccolo pugnale e
si incise la punta delle dita.
Molti
Demoni non avevano bisogno di utilizzare quelli che gli sciocchi e ignoranti
esseri umani definivano ‘Cerchi Alchemici’ per estendere la loro coscienza e
interagire attraverso di essa con il malcapitato verso cui era stato diretto il
suo intervento. Era loro sufficiente incanalare la loro energia nelle venature
che scorrono nell’universo, raggiungere il loro obiettivo, e beh… fare la loro
‘magia’.
Fino
a un secolo prima, Sherlock era fieramente fra di essi. Era potente, sicuro di
sé, e con un semplice schiocco di dita avrebbe potuto ridurre un essere umano
in cenere a un continente di distanza. Bei tempi, quelli.
Il
disegno fu tracciato sul pavimento con gesto sicuro, il sangue che bruciava sul
legno lasciando segni neri e arrabbiati. Sherlock optò per un cerchio semplice,
che gli avrebbe permesso di portare a termine il suo compito e insieme
succhiare un po’ di energia dalla rete del creato. Si piazzò al centro di esso,
esattamente nel nodo del cerchio, e chiuse gli occhi: quando le fiamme bianche
e nere cominciarono a vorticare intorno a lui, l’immagine della sua vittima si
formò nella sua mente.
Ford
stava bevendo, proprio come aveva preannunciato Aggie.
Chino
sul bancone, quella patetica scusa di un essere umano continuava a farsi
riempire il bicchiere, annegando nell’alcool il senso di colpa per quell’anima
nera che si ritrovava.
Avrebbe
potuto essere vero boccone prelibato, quell’anima, Yorick aveva ragione. Anni e
anni di violenze e abusi ne avevano sfumato i contorni, le avevano strappato
deliziosamente ogni oncia di innocenza e l’avevano condannata alle fiamme.
“Biah.”
Ordinò Sherlock imperioso, tremando appena quando la sua energia fuoriuscì
da lui.
Rispondendo
al suo comando, l’umano si alzò. Barcollava grandemente, la mente annebbiata,
la bocca spalancata e penzolante. Sherlock ghignò: gli sarebbe bastata una
semplice spintarella, niente di troppo faticoso, perché l’uomo incontrasse il
suo destino. Attese con la pazienza di un felino che gioca con la sua preda che
i passi caracollanti dell’uomo echeggiassero sul ponticello di legno che univa
i due anelli della città, poi fece la sua mossa.
“Ovcho.”
Si
udì un tonfo, poi un rumoroso CRACK quando
il corpo appesantito dell’uomo infranse la superficie ghiacciata dell’acqua e
sprofondò nel suo turbinio. Pochi minuti, solo pochi minuti, e Sherlock sentì
quell’anima deliziosamente inquinata fuoriuscire dalla sua sede. Sarebbe stato
così facile per lui consumarla e saziarsene; da troppi secoli il suo corpo non
veniva sostentato da un’anima umana, e la tentazione era forte…
No.
Si sarebbe limitato a prelevarne un po’ di energia, sufficiente a sostenerlo
fino al prossimo incarico, niente di più. Aprì la mente, sospirando quando
l’energia fluì in lui, quasi singhiozzando quando l’anima di Ford sparì nel
terreno. Dopo tanto, respirare non gli provocò alcun capogiro; la nausea
rimase, però, nutrita dal disgusto che provava per sé stesso.
Le
fiamme si esaurirono, e l’immagine dell’uomo svanì dalla sua mente. Era certo
che la sua morte non sarebbe stata pianta da nessuno: non dalla moglie che
tradiva, non dai figli che picchiava, non dai compaesani che provavano per lui
solo fastidio. Mentre dodici tuonanti rintocchi echeggiavano in lontananza,
Sherlock, che non si era accorto di essere scivolato via dalla sua pelle umana,
recuperò il barattolo con la formaldeide ed iniziò il suo esperimento.
Note dell’autrice:
Eccoci con il secondo
capitolo, un po’ in anticipo rispetto al previsto, ma da domani non avrò
internet che nei weekend e volevo istaurare una certa cadenza negli aggiornamenti
:)
Vi ringrazio per la
calorosità con cui avete accolto questa storia: i commenti dei lettori non solo
fanno sempre molto piacere, ma sono davvero utili per capire come proseguire
nel racconto ^_^
Grazie ancora e a presto :)