«Licantropo,
Loup Garou, oppure, con un termine più folcloristico che
elegante, Lupo Mannaro.
Intendiamo, con queste denominazioni, un essere umano in grado di
cambiare il proprio aspetto e corporatura, arrivando a presentare una
fisionomia che mescola tratti umanoidi a tratti bestiali che ricordano
quelli di un lupo.
Alcuni dati sembrano suggerire che certi soggetti siano in grado di
assumere forme diverse da quelle di un lupo, ma, in assenza di evidenze
sperimentali, non possiamo che considerare tutto ciò come
semplice credenza popolare.
D’altronde, si ritiene in genere che i licantropi non possano
controllare il proprio stato, dando così a questa condizione
dignità di patologia. Per quanto questo sia a volte vero, ci
sono diversi casi documentati di soggetti in grado di cambiare
fisionomia a piacimento, con una trasformazione che impiega appena
qualche secondo. Per questa ragione, respingiamo la tesi riportata
sopra.
La comunità intellettuale è ancora incerta se
attribuire l’esistenza dei Licantropi ad agenti naturali,
magici o divini, ma è concorde nel considerare queste
creature estremamente pericolose. La letteratura riporta numerosi casi
di soggetti affetti da evidenti disturbi psichiatrici, il
più delle volte attribuibili a uno sforzo mentale del
soggetto per giustificare la propria condizione. Frequenti sono i casi
di schizofrenia, dove il soggetto costruisce
un’identità alternativa per la propria forma
bestiale. Riportiamo alcuni esempi di personalità doppia,
sia perché particolarmente comuni o perché
vagamente comici e adatti ad alleggerire la mole di questo saggio:
“io e la bestia”, “io e
l’assassino di notte”, “io e il cane
affettuoso”, “io e il cacciatore di
criminali”.
Rimandiamo ai volumi appositi per una lettura più
approfondita e concludiamo con un avvertimento: se vi imbattete in
questi soggetti, non provate a fare gli eroi. Per quanto la belladonna
e l’aconito, volgarmente detto strozza lupo, contengano
sostanze tossiche per queste creature, non avventuratevi in cacce
improvvisate. Avvertite subito le autorità in maniera che
possa essere organizzata una trappola efficace e si possa eliminare la
creatura senza inutili spargimenti di sangue.»
Vilgefortz di Roggeveen, Licantropi,
Vampiri, Strighi e altre bestie
Quella notte Ranuncolo
non dormì. Durante il turno di guardia rimase in piedi, la
schiena appoggiata alla parete e lo sguardo sulla porta della camera.
Si aspettava di vedere la folla da un momento all’altro, si
immaginava una lotta disperata, magari una fuga attraverso la finestra
e poi la cattura e il linciaggio. Ma tutto era calmo e silenzioso.
Sembrava quasi che tutti fossero già partiti lasciandoli
soli prima del tempo.
Il bardo era scosso da dolori continui. Avrebbe dovuto morire in quel
tempio sotto la radura, ma gli dei o il caso gli avevano concesso una
seconda possibilità. Ovviamente questo non gli impediva di
sentirsi a pezzi.
Quando toccò a Geralt il turno di guardia, Ranuncolo stette
sveglio, disteso sul letto. Osservava la schiena dell’amico,
che non sembrava minimamente preoccupato da un possibile attacco.
Lo strigo stava seduto davanti al fuoco del caminetto. Le fiamme
rendevano gialli i suoi capelli ed
evidenziavano gli ematomi sul suo viso.
Per terra davanti a sé aveva un pestello, un pentolino, le
foglie di strozza lupo, lardo di maiale e altri ingredienti noti solo
agli strighi.
Geralt pestò le foglie e le bagnò fino a farne
una pasta omogenea. Fece sciogliere il lardo sul fuoco unendovi poi gli
ingredienti che Ranuncolo non conosceva. Dosando il movimento, fece
cadere nel pentolino il contenuto del pestello, mescolando di tanto in
tanto con un cucchiaio di legno. A volte si piegava sul fuoco e
soffiava dolcemente, dando vita a una miriade di scintille che si
arrampicavano sul muro. Ranuncolo sentiva il gorgogliare del pentolino,
simile al sordo borbottio di un vecchio.
Alla fine tolse tutto dal fuoco e lasciò raffreddare.
L’intera operazione prese quarantadue minuti.
Sollevò il cucchiaio valutando la consistenza di quello che
aveva ottenuto. Era una sostanza oleosa, più liquida del
lardo, che colava nel pentolino disegnando una colonna continua.
Geralt prese la spada d’argento e la unse dalla punta
all’elsa. Ripeté la stessa operazione con
l’interno del fodero, poi vi infilò la spada e
testò l’estrazione. La lama scivolava rendendola
più veloce e aumentando il rischio che potesse sfuggirgli di
mano. Era un dettaglio da considerare.
Terminò i preparativi che albeggiava, ma rimase in attesa
ancora un po’, finché non fu sicuro di udire
rumori di gente nella strada.
Fissò le spade sulla schiena, sistemò i guanti
con le borchie, mise alcune pozioni nel cinturino e poi uscì.
Ranuncolo rimase fermo ad osservare la porta chiusa, a rimuginare
sull’ultima immagine dello strigo sulla soglia.
Quando Essi Daven si svegliò, la mattina era ancora buia e
silenziosa. Si alzò lentamente dal letto, finalmente in
grado di stare sulle proprie gambe in sicurezza.
Lanciò un'occhiata fuori dalla finestra: un filo di luce
cominciava a mostrarsi all’orizzonte.
Si vestì e passò furtivamente nell'altra stanza.
Tutto era immobile. All’esterno, le cicale cominciavano a
svegliarsi. Lei si mise in punta di piedi e raggiunse la credenza
dov'era tenuta la sua collana. Sentì la forma della perla e
i delicati petali d'argento tra le dita, si sentì scaldare
la pelle e le ossa da un fuoco improvviso. Se la strinse al collo,
trattenendo una lacrima che le bagnava l’angolo
dell’occhio.
Diede un ultimo sguardo attorno e poi raggiunse l'uscita. Si
bloccò di colpo con la mano sull'asse della porta e
voltò la testa indietro.
La vecchia era lì, nel centro della stanza.
Per un attimo, Essi si chiese da dove fosse arrivata, ma rimase
più sorpresa nel vedere il suo aspetto: piccola, fragile,
avvolta nella ghirlanda di fiori che avevano realizzato assieme.
«Vai via?»
«Sì», rispose Essi. «Ormai sto
bene. Volete trattenermi ancora?»
«Abbiamo detto che non avremmo trattenuto
nessuno...»
Si mosse e si avvicinò al tavolo. I fiori ondeggiavano ai
suoi passi. Prese la moneta d'argento che le aveva dato lo strigo la
prima volta che si erano visti tenendola con un panno, quindi
tornò verso di lei.
«Tieni, potrebbe servirti. Vai al porto, troverai una nave.
Con questa ti faranno sicuramente salire.»
La ragazza annuì. La guardò ancora per qualche
secondo, poi si voltò verso la porta.
«Abbiamo cercato di farti stare meglio...»
Quel tono di voce sospeso, urgente, la fece fermare di nuovo. Strinse
forte la collana sul suo petto prima di girarsi ancora una volta.
«Solo una persona potrebbe riuscirci», rispose.
«Ad ogni modo, grazie. Abbi cura di te.»
Uscì e fece qualche passo avanti. Poi aggiunse:
«Entrambe. Abbiate cura di voi.»
La vecchia rimase lì, sulla soglia, osservando la ragazza
allontanarsi. Era salda sulle sue gambe e scendeva sicura verso il
paese. L’ultima trappola, l’ultimo gioco.
Finalmente tutto era pronto.
Non le serviva altro.
Geralt arrivò alla casa nel cipresso solo molto tempo dopo.
La gente del paese lo aveva lasciato passare, scansandolo al suo
passaggio. Ma sembravano incerti, ambigui, come se non avessero chiaro
se stessero evitando una vittima o un carnefice.
Si fermò davanti alla porta chiusa. Le pareti erano solcate
da rampicanti che stringevano senza distinzione i mattoni e i rami
dell'albero. Alcune lucertole si mostravano tra le crepe, esplorando
l'aria a colpi di lingua.
Lo strigo percepì il calore del mattino tra i capelli
bianchi. Saggiò ancora il movimento della spada nel fodero,
poi prese una boccetta dalla cintura e ne bevve il contenuto.
Il suo cuore accelerò all'improvviso, il battito divenne
irregolare. Lui controllò il respiro a occhi chiusi, attese
qualche secondo. Il cuore rallentò. Ogni colpo divenne una
martellata di tamburo in una stanza vuota, potente e preciso.
Riaprì gli occhi. Percepiva il lento passare dell'acqua
nelle foglie del rampicante, le lucertole buttavano fuori la lingua
lentamente, con pigrizia, così prevedibili che Geralt
avrebbe potuto afferrarne l'estremità tra le dita. Il vento
che passava tra le assi emetteva un canto lungo, interminabile, un
lamento quasi impercettibile.
Geralt inspirò a fondo e varcò la soglia.
L'interno era buio, rischiarato appena dalle finestre socchiuse. Il
pulviscolo viaggiava leggero tra un raggio di luce e l'altro,
vorticando attorno ai movimenti di Geralt.
La casa odorava di muschio e sudore. Le erbe appassite nei vasi
emanavano un aroma aspro e dolciastro. E tra questi, nascosto e
inatteso, un vago profumo di verbena.
Geralt si mosse con cautela. Lanciò un'occhiata al camino e
alla tenda che nascondeva il passaggio per l'altra stanza.
Evitò i due sgabelli e si appoggiò al tavolo.
Polvere, fili d'erba, spago. Non c'era altro sopra di esso. Lo strigo
avvicinò il viso al piano del tavolo: odorava di fiori
selvatici, ma non di verbena.
Geralt si raddrizzò di colpo: una fitta di dolore gli aveva
attraversato la spina dorsale. Sperò che gli antidolorifici
bastassero per ignorare le ferite che aveva subito durante il
combattimento nella radura, non poteva permettersi di assumere altre
droghe. Aveva bisogno di tutta la sua concentrazione.
E in quel momento lo sentì. Fu un vorticare diverso della
polvere, una variazione impercettibile nell'ambiente. La vibrazione del
medaglione arrivò in ritardo. Non era solo.
Si voltò e i loro sguardi si incrociarono come un lampo
improvviso. La vecchia era lì, immobile a pochi passi da
lui, accanto alla porta sulla quale la tenda cadeva senza muoversi,
senza neppure ondeggiare.
Cominciarono a studiarsi. Ogni guizzo dello sguardo volava tra di loro
come la lama di una spada, ogni movimento del capo era una forza che
studiava il valore dell'avversario.
Nonostante l'aspetto decrepito, lei stava dritta, sicura,
più alta di quanto Geralt avesse mai sospettato. Lui
notò la ghirlanda di campanule e gelsomini che avvolgeva il
suo corpo. I fiori si aprivano come fontane di vita e colore attorno a
lei.
«Che significa?»
Lei rise. Un suono gracchiante, una sega dai denti spezzati.
«Vuoi rimproverarci per esserci fatte belle per
l'appuntamento? Volevamo farti una sorpresa.»
Lui non rispose. Teneva le mani rilassate lungo i fianchi, lontane
dalle spade.
Loro due erano immobili, eppure a Geralt sembrava che si stessero
spostando, come a disegnare un cerchio tra loro, stringendo e
allontanando le distanze, valutando le reazioni e i riflessi.
«Da quanto tempo l'hai capito?», chiese lei.
«Dal primo momento che ti ho vista, quando hai preso la
moneta d'argento con il guanto. Pensavi che non me ne sarei
accorto?»
«No, niente affatto. Volevamo che capissi.»
Ogni domanda era una finta con stoccata e una parata con affondo la
risposta.
«Se l'hai capito subito, perché sei venuto qui
solo ora?», domandò ancora lei spezzando il ritmo
del dialogo.
«Perché erano gli accordi, perché non
avevo ancora capito cosa volessi.»
Lei stette zitta per un attimo, accarezzando una corolla adagiata sul
suo polso.
«Continui a parlare al singolare, strigo...»
«Ti dà fastidio?»
«Pensavamo che fossi più sveglio.»
Geralt si sentì confuso. Si concentrò sui rumori,
percepì l'aria che entrava e usciva dal petto della donna
che aveva davanti e per un attimo la sorpresa lo bloccò: il
ritmo di quel respiro non aveva senso, era tutto sbagliato. Era come se
due persone stessero usando gli stessi polmoni.
Lo strigo si riscosse. Erano ancora immobili, eppure sembravano
più vicini, come se la stanza si fosse fatta più
piccola. Si costrinse a tenere le mani lungo i fianchi, rilassate.
La vecchia sorrideva, si prendeva il suo tempo. Lui sentiva lo
stimolante che aveva assunto fargli effetto, accelerargli i movimenti e
rendergli i pensieri così rapidi da essere quasi indistinti.
«Quel mostro nella radura, Astario, era opera
tua?», le domandò Geralt cercando di riprendere le
distanze.
«Sì». Nella sua risposta c'era orgoglio
misto a una profonda tristezza.
Lui pensò di aver trovato una breccia nella sua guardia.
«Perché? Hai cercato di uccidermi?»
«Testardo...», disse lei scuotendo la testa.
«Non abbiamo semplicemente cercato di ucciderti. Ti abbiamo
messo alla prova. È normale mettere alla prova un assassino
prima di assoldarlo, soprattutto per un compito così
delicato.»
Lei fissò il volto immobile di Geralt, privo della minima
espressione, poi rise ancora sfregando i pochi denti tra loro.
«Fai sempre quella faccia quando qualcuno dice qualcosa che
non ti piace? Ma tu sei un assassino, no?»
«Non ti riguarda»
«No? Dal momento che sei qui, ci riguarda
tantissimo...»
Geralt si sentiva a disagio. Gli sembrava di scivolare lungo quella
discussione come sulla lama di un coltello.
«Se fosse bastata la nostra creatura ad abbatterti, che
speranze avresti potuto avere contro di noi?»
«E perché ti preoccupi di questo?»
«Perché abbiamo assoldato un assassino,
evidentemente abbastanza capace...»
«È stato Vergalio ad assoldarmi.»
«Quell'uomo è sempre così
preoccupato... Ma sei qui solo perché noi abbiamo voluto.
Non ci avresti mai trovate, altrimenti, Lupo Bianco.»
Geralt sentì un'ondata di energia nel proprio sangue mentre
la droga raggiungeva ogni sua cellula e intensificava ulteriormente le
sue percezioni. L'immagine della vecchia divenne d'un tratto sfocata,
come se fosse composta da due ombre sovrapposte, costrette a seguire
gli stessi movimenti ma leggermente in ritardo l'una sull'altra.
«Voi siete…»
Non riuscì a completare la frase. Il medaglione
sussultò con energia spaventosa mentre le pareti sembravano
piegarsi verso l’interno, distorcendo l’ambiente
come attraverso l’occhio ovale di un pesce. Fu un battito di
ciglia, una frazione di secondo. La ghirlanda di fiori si
spezzò mentre le corolle caddero a terra, secche e senza
linfa. I vestiti si stracciarono, rinunciando a contenere le forme che
esplosero d’un tratto dal corpo della vecchia.
Geralt indietreggiò istintivamente sbarrando gli occhi
davanti all’essere che aveva davanti. La schiena saliva alta
piegandosi appena sotto il soffitto della stanza, mentre le zampe
anteriori scendevano fino al pavimento scavandovi dei solchi con
artigli micidiali. Un muso di leone fissava lo strigo digrignando i
denti in una smorfia verdastra, mentre una bava acida bruciava il pelo
attorno alle labbra. La criniera scura sembrava muoversi di vita
propria mentre otto zampe da ragno spuntavano là dove doveva
esserci il collo, fendendo l’aria con movimenti scattanti e
nervosi.
La cosa sorrise.
«Che cosa siamo, strigo? Illuminaci…»
Geralt si rese conto che l’unguento di strozza lupo
con cui aveva unto la spada non sarebbe servito a nulla. Aveva
sbagliato.
«Non parli?»
Gli artigli sfregarono gli uni contro gli altri, come lame di coltello.
Lo strigo non rispose. Osservava la creatura studiandone ogni
dettaglio. La pelle sul suo corpo si mostrava a chiazze rossastre
là dove il pelo era caduto. Bubboni enormi si aprivano ai
lati del collo e sotto le ascelle, sporcando la criniera di un liquido
giallastro e puzzolente. Sulle zampe posteriori si aprivano piaghe da
cui usciva sangue vivo.
«Abbiamo aspettato così a lungo la tua venuta e
ora vuoi stare zitto? Qualcun altro sarebbe già morto per
un’offesa del genere, ma a te concederemo di
ascoltare»
Inspirò a fondo, producendo un suono come di aria attraverso
un cesto di vimini impolverato. La sua voce cambiava
tonalità senza nessun preavviso, diventando più
acuta o più bassa tra una parola e l’altra, anche
in mezzo alla stessa lettera.
«Potremmo essere più vecchie di te, assassino.
Ricordiamo un tempo quando la foresta era più folta, i suoi
alberi più oscuri, orgogliosi. Ricordiamo quando uomini
piccoli e spaventati venivano al nostro tempio a domandare grazia e
perdono. Hai trovato il nostro tempio, vero? Certo che sì,
volevamo che vedessi la nostra vecchia casa.»
Geralt la lasciava parlare. Lentamente spostava il peso del corpo sul
piede sinistro, preparava i muscoli a flettersi e la mano a salire
verso l’elsa della spada.
«Non ricordiamo neppure più com’era
essere due e potersi guardare negli occhi. Era un giorno come tutti gli
altri, nulla di diverso. Diventammo questo, e ancora non sappiamo se fu
una benedizione o una maledizione.»
Un filo di bava scese dal muso di leone piegato in un ghigno
animalesco. Le assi del pavimento sfrigolarono.
«Ricordiamo l’eccitazione, il piacere, la
paura… Pensavamo che il Ragno Leonino ci avesse trasformato
nella sua incarnazione su questo mondo. Eravamo simili a lui, ma ancora
non pensavamo come lui. Agimmo come credevamo avrebbe fatto lui: per i
primi secoli distruggemmo e portammo morte in ogni dove.»
La creatura sospirò, come a ricordare tempi felici.
«Poi ci stancammo. Ci rendemmo conto che non cambiava nulla,
che il nostro dio non ci dava segni di apprezzamento, e così
ci sedemmo a riflettere. Capimmo di non essere l’incarnazione
di nessuno… Ci aspettavamo qualcosa, istruzioni di qualche
tipo, fossero un presagio o una profezia…»
«Non siete certo le sole, credete forse che ad altri abbiano
dato delle istruzioni prima di mandarli per il mondo?»
«Ah, ma parli di te, strigo? Ma tu sei solo il risultato di
un esperimento! Solo il caso ti ha permesso di sopravvivere ai vostri
addestramenti e alle vostre erbe e diventare quello che sei. Ma quando
c’è di mezzo un dio non è
più un caso, è destino.»
I due si fronteggiarono ancora, senza accorciare le distanze. Poi lei
continuò a parlare.
«Per altri secoli non facemmo proprio nulla. Pensammo e
basta. Poi ci stancammo anche di questo. Se non avevamo ricevuto
nessuna risposta portando il terrore, forse avremmo ricevuto qualcosa
comportandoci in maniera completamente opposta: tornammo al nostro
tempio per vedere com’era cambiato e poi ci stabilimmo qui,
curando le persone che ne avevano bisogno e facendo del bene.»
«L’ho notato…»
«Sarcasmo? Speri di colpirci così
facilmente?»
Geralt alzò le spalle.
«E poi cosa intendete fare?», chiese.
«Non lo sappiamo. Forse passeremo qualche secolo a sentirci
in colpa per la tua morte…»
Geralt sentì un brivido lungo il braccio destro, si
preparò a scattare al minimo movimento.
«In realtà, una profezia l’abbiamo
ricevuta… Una notte giunse da noi un vecchio. Potevamo
percepire la sua energia, il potere che scorreva in lui. Pensavamo di
aver trovato una compagnia piacevole, ma non passò molto
prima di rivelarsi un borioso egocentrico come la maggior parte degli
uomini. Prima di essere fatto a pezzi, ci disse che avremmo incontrato
un lupo dagli occhi da gatto, e quella sarebbe stata l’ultima
occasione per chiedere, per sapere…»
«Chiedere cosa?»
«Che cosa siamo?»
Geralt si bloccò. La sua mente cercò di afferrare
il senso di quella domanda mentre un freddo crescente si insinuava nel
suo corpo.
«Come?»
La creatura si sollevò in tutta la sua possanza. La criniera
si appiattì contro il soffitto mentre le zampe di ragno si
protesero in avanti come punte di lancia. La bava schiumò ai
lati delle zanne mentre un ringhio sordo e continuo emerse dalla sua
gola.
«Sei un cacciatore di mostri, sei stato addestrato apposta,
hai viaggiato per secoli. Hai visto di cosa siamo capaci, hai visto la
nostra forma. Quindi, strigo, che cosa siamo?»
La sorpresa si diffuse nel suo cervello annebbiato dalla droga come
melma densa. La memoria tornò ai giorni
dell’addestramento, agli studi, poi vagò per i
regni che aveva visitato nei suoi viaggi, alle volte che aveva
rischiato la vita, alle creature che aveva affrontato.
«Che cosa siamo?»
La domanda era un ruggito feroce che riempiva la stanza, le orecchie e
il petto di Geralt.
«Non siamo l’incarnazione di un dio, non siamo uno
di quei miseri licantropi che infestano le foreste. Perché
darci tutto questo potere se non sappiamo neppure cosa siamo?»
Il silenzio tra loro era peggio di una punta di lancia. Ed era Geralt a
sentirne il gelo contro il proprio cuore.
«Rispondi!»
«Io non lo so…».
Nel tono dello strigo c’era un’amarezza che andava
oltre la semplice resa.
La creatura si piegò in avanti. Le zampe posteriori
sembrarono perdere ogni forza e diventare incapaci di reggere la mole
di quel muso leonino. Si appoggiò al muro, scivolando
lentamente in ginocchio. Le zampe da ragno dalla criniera pendevano
inerti sul suo petto.
«È così? Neppure tu sai darci una
risposta… Come possiamo decidere cosa fare senza sapere
neppure cosa siamo diventate?».
Non guardava verso di lui, il suo sguardo era lontano, oltre le mura
della casa. Ad ogni suo movimento si apriva un’altra piaga
nella sua carne.
Poi si riscosse. Vomitò la propria rabbia in un ruggito che
fece tremare le radici stesse del cipresso.
«Inutile! Inutile assassino! Bestia! Perché ti
ostini a vivere? Sai fare altro che agitare la spada? Inutile
pezzente…».
Si rimise in piedi. Tremava dalla criniera alla coda con
un’eccitazione che non aveva nulla a che fare con la
debolezza.
Lei si guardò gli artigli tra le zampe anteriori. Un pus
viscoso colava tra un dito e l’altro.
«Siamo malate… Non sappiamo da quando, ma lo
siamo. E non è solo quello che vedi. Ci svegliamo di notte e
corriamo nella foresta senza nessun controllo, in preda a una rabbia
che non riusciamo a comprendere, che nessuna di noi due riesce a
domare.»
«Quella carovana nella foresta…»
«Semplicemente nel posto sbagliato al momento sbagliato.
L’abbiamo distrutta noi, ma non sappiamo dirti
perché. Deluso? Nessun piano malvagio, solo noi…
Speravamo che con una risposta alla nostra domanda avremmo potuto
capire, decidere come comportarci. E invece eccoci qua, davanti a un
uomo inutile.»
Lei si avvicinò. Appena un passo.
«E ora ci hai trovate… Ti abbiamo assoldato
perché non sopportiamo di non poter decidere cosa fare di
noi, assassino. Ma lascia che ti dica un’ultima
cosa.»
Lo guardò negli occhi e Geralt poté distinguere
la follia lucida in quello sguardo, poté sentire le sue
parole come pugnali che raggiungevano precise il loro bersaglio.
«Non sappiamo se ti farà felice o se ti
distruggerà, ma di certo non ti renderà
l’esistenza più facile. Vai al porto. Lei
è là. Ti aspetta.»
La creatura ruggì, un tuono che si abbatte nella foresta.
Geralt estrasse l’arma con un gesto più silenzioso
di una freccia. Nessuna parola, solo istinto. Le zanne e l'acciaio
brillarono nello stesso modo.
Quando la porta si aprì, il sangue colò
sull’erba davanti al cipresso. Geralt si appoggiò
al tronco inspirando rumorosamente. Il suo viso era cadaverico,
sembrava un morto con in mano una spada.
Osservò l’arma sollevando a fatica il braccio. La
lama era sporca di unguento e sangue. Nella sua spalla era aperto uno
squarcio profondo. Sentiva freddo nel corpo e nell’anima.
Stracciò la camicia e fabbricò alcune bende di
fortuna. Aprì una boccetta e versò il contenuto
sulla ferita, rallentando l’emorragia. Forse questo lo
avrebbe tenuto in piedi ancora per un po’.
Si chinò a fatica per terra e pulì la spada con
erbe e foglie, poi la ripose nel fodero.
Quindi cominciò, barcollando, a scendere la collina.
Non avrebbe saputo dire come arrivò a trovarsi davanti a
Ranuncolo. Il bardo stava parlando con qualcuno, probabilmente
Bergàc, il capitano delle guardie. Geralt
registrò solo superficialmente questa informazione.
L’amico gli si fece incontro, evidentemente preoccupato per
le sue condizioni. Lo strigo non riusciva a capire una parola. Si
slacciò i foderi dalla schiena e affidò le armi a
Ranuncolo, poi prese un mantello e ci si avvolse attorno, coprendo la
ferita e calandosi il cappuccio sul capo. Poi scese verso il porto.
Il fiume Dyfne scorreva largo e impetuoso davanti al porto di
Passafiume, segnando il confine tra una vita vecchia e una nuova. Erano
attraccate due navi alla banchina, più un paio di traghetti
tenuti da corde che correvano da una parte all'altra del fiume. Gli
ultimi a lasciare il paese avrebbero tagliato le corde impedendo a
chiunque di seguirli lungo il loro percorso.
Geralt stava fermo sulle assi sporche di fango, le narici piene
dell'aria muscosa dell'acqua di fiume. Dall'altra parte vedeva gli
alberi che si stendevano da una parte all'altra sulla stessa riva,
rendendo incerta la lettura dell'orizzonte.
Il via vai di gente lo respingeva, lo faceva sentire un estraneo. Il
sangue che ancora colava dalla ferita appannava i suoi sensi, tanto da
dargli a volte l'impressione che la folla fosse una massa indistinta,
non diversa dalla corrente che gli scorreva davanti.
Per questo impiegò un po' a rendersi conto della voce che lo
chiamava da dietro. Rimase fermo, senza voltarsi, aspettando
finché qualcuno non lo tirò per il mantello. Solo
allora si girò, trovandosi faccia a faccia con Vergalio.
«Mastro Geralt. Posso supporre che abbiate portato a termine
il compito che vi avevo affidato?»
Lui rispose. Non riconobbe la propria voce.
«Molto bene... Non posso dire che sia stato un piacere,
strigo, ma ecco la ricompensa che avevamo pattuito.»
Vergalio gli passò un involto di panni. Geralt lo svolse in
parte, riconoscendo subito la corteccia dell'Albero di Fuoco che aveva
visto sopra il camino.
«Come sta vostro figlio?», volle chiedergli.
Il vecchio fece una smorfia spostando lo sguardo da lui.
«Sta bene, credo... Sembra quello di prima. Però
l'ho trovato a ingozzarsi di formaggio in cantina, e quando crede di
non essere visto si passa le mani sul naso in maniera strana. Non
so...»
Fu in quel momento che Essi Daven arrivò al porto. Non
poteva riconoscerli, ma scendendo incrociò Astario e Rufus.
Quest'ultimo aveva in mano un odoroso pezzo di formaggio che
passò all'amico con evidente felicità.
Essi aveva passato un po' di tempo tra la gente del paese, ma senza
riuscire a scambiare altro che qualche parola di cortesia. L'avrebbero
accettata sulla nave senza problemi: il suo aspetto e il soldo
d'argento convinsero tutti a darle una mano. Il suo abito azzurro,
macchiato e rovinato, era coperto da un manto leggero che le avevano
donato alla locanda.
Avanzava incerta lungo la banchina.
Vide Vergalio. Lo riconobbe come il capo del paese dalle descrizioni
che le avevano fatto. Stava parlando con un uomo interamente avvolto in
un mantello da viaggio. L'uomo stava piegato in avanti, come se
portasse un peso sulle spalle o come se le sue ginocchia fossero sul
punto di cedere.
Le stimolò un ricordo negli angoli della mente, ma era
troppo stanca per capire quale. Strinse la collana e avanzò
verso la nave.
Vergalio e lo sconosciuto erano esattamente sulla strada che doveva
percorrere. Si avvicinò, scansò la folla che le
scorreva attorno, coprì i pochi passi che la separavano da
loro.
Rallentò impercettibilmente alle spalle dello sconosciuto. I
lembi dei loro mantelli ondeggiarono per un attimo, si sfiorarono e poi
si allontanarono. Essi Daven lasciò dietro di sé
i due uomini e salì
sulla nave che l'avrebbe portata lontana, a nord.
Geralt e Vergalio continuarono a parlare, disturbati solo da una brezza
passeggera. Quando si separarono non si strinsero la mano. Il vecchio
raggiunse alcuni compaesani e li seguì sulla nave. Lo strigo
rimase lì, fermo, mentre la folla si diradava lasciando la
banchina a seccarsi sotto il sole.
Aspettò a lungo, la sua percezione del tempo distorta dalla
perdita di sangue e dalla droga che veniva eliminata dal suo corpo. Se
ne andò solo quando vide le navi allontanarsi dal porto,
farsi prendere dalla corrente e allontanarsi da lui, verso una riva
diversa.
Risalì la strada verso il centro del paese deserto.
Trovò Ranuncolo con i cavalli, in attesa.
Geralt prese le redini e riuscì a montare sulla sella.
«Come stai?», chiese il bardo.
Lo strigo gli fece solo un cenno con la mano, avviando il cavallo a
passo lento verso l'uscita.
Non parlarono fino a quando non si furono lasciati il paese alle spalle.
«Ce l'hai fatta? È morta?»
«Sì, Ranuncolo, è finita...»
Il bardo si agitava sulla sella, sembrava fare ogni sforzo per
trattenere qualcosa che lottava per venir fuori.
«Ranuncolo, cosa c'è?»
«Geralt, io... Non so se dovrei dirtelo...»
«Lo farai lo stesso.»
«Ho saputo una cosa, prima, parlando con la gente che stava
partendo... Mi spiace, non sapevo dove trovarti, non ho potuto
avvertirti! Lì, sulla nave, c'era...»
«Essi Daven, Occhietto?»
Per la sorpresa, Ranuncolo tirò tanto le redini da bloccare
il cavallo.
«Tu lo sapevi?»
«È passata alle mie spalle. L'ho riconosciuta dal
profumo...»
«E non l'hai...»
Ranuncolo si sentì furioso. Avrebbe voluto prendere lo
strigo a pugni, dirgli tutto quello che perfino lui si tratteneva dal
dire, sputargli in faccia la verità, senza maschere o
eroismi da cacciatore di mostri.
Ma vide l'amico piegarsi sulla sella, vinto dalla fatica, dal dolore.
E si ritrovò a pensare all'esistenza, alle storie che
compongono il letto del fiume dove scorre la vita di ognuno, ai suoi
affluenti, ai suoi ristagni, alle sue corse impetuose. Viste dall'alto,
se le immaginò come infinite linee azzurre che corrono
sovrapposte, a volte vicine, a volte lontane, a volte pronte a tuffarsi
le une nelle altre formando laghi e mari da cui partono altre vite e
altre storie. Si perse nei propri pensieri, troppo distratto per
rendersi conto che Geralt era svenuto sul dorso del cavallo. Si
avventurò tra le proprie parole, cavalcando un'idea di
destino: ciò che fa incontrare e unire le persone, che le
divide e le fa scontrare, non è un fiume, non è
un lago.
È un oceano.
DEDICHE
Grazie a tutti per avermi seguito fin qui. È stato un
racconto travagliato, il progetto più complicato che son
riuscito a completare sinora. Chiedo scusa per i ritardi cronici che
questo lavoro ha subito, ma spero davvero che a voi sia piaciuto
leggerlo quanto a me scriverlo.
Ma ho da fare alcune dediche particolari:
A Meiousetsuna, che per un'oscura e misteriosa associazione di idee mi
ha ispirato il personaggio di Mà/Metsy/Setsy.
A Mamie, che ha recensito ogni capitolo e non ha perdonato
imprecisioni, errori e sviste e si merita tutti i miei ringraziamenti
per la costanza e l'attenzione. So già a chi rivolgermi
quando mi servirà un editor.
A Melanto, Albornoz, Billrussel, dei quali ho letto sempre con grande
piacere le opinioni.
Ai ragazzi di CD Red Project e ad Andrzej Sapkowski, che hanno
complottato ai miei danni per farmi conoscere questo mondo.
A te che te ne sei andata. Se leggerai queste pagine, sappi che non ho
cambiato il finale, mi sembrava perfetto per l'occasione. Ma anche
questo è un addio, l'ultimo che riceverai.
A tutti, grazie.
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