Buon
pomeriggio!
Non
ho molto da dire riguardo a questo capitolo, suppongo che si spieghi
tutto da solo. Non posso tuttavia non soffermarmi ringraziare con
tutto il mio affetto la mia carissima crystal_93 per la sua
recensione e per aver inserito la storia tra le seguite!
Baci,
Afaneia
Capitolo
II –
Seel, di nuovo.
[...]
Io questo
ciel, che sì benigno
appare
in vista, a
salutar m'affaccio,
e
l'antica natura
onnipossente
che
mi fece
all'affanno. A te la speme
nego, disse,
anche la speme; e d'altro
non
brillin gli
occhi tuoi se non di pianto.
Giacomo
Leopardi, La
sera del dì di festa.
Nessun
lavoro normale
avrebbe mai potuto permettergli di guadagnare una somma tale da
finanziare gli esperimenti: Sakaki se ne rese conto già dopo
poche
settimane quando, pur continuando contemporaneamente a studiare con
interesse la fisica e l'elettronica quantistica, cominciò a
considerare seriamente le proprie prospettive future.
Non
esistevano vere e
proprie occupazioni che potesse intraprendere. Non aveva una laurea,
ovviamente, a malapena possedeva un diploma superiore, e in ogni caso
non aveva idea di come lo avesse conseguito. Non aveva conoscenze
tecniche o capacità pratiche in nessun campo specifico:
anche grazie
a qualche parola illuminante di sua madre, comprese entro breve di
essere una figura essenzialmente improponibile sul mercato del
lavoro. Sua madre cercò ovviamente di non scoraggiarlo, anzi
di
stimolarlo a mettersi in gioco, e sorprendentemente gli giunsero
svariate proposte di lavoro: più volte ella tornò
a casa
informandolo che il giornalaio era disponibile a offrirgli un posto
all'edicola all'angolo, che il bar a sud del Tunnelroccioso cercava
un cameriere, che il Supermarket aveva bisogo di un commesso... ma
per quanto sapesse di darle un dolore, Sakaki rifiutà tutte
quelle
offerte, dettate dalla pietà che gli abitanti di Lavandonia
provavano per la sola vittima del loro cieco silenzio. Persino il
signor Fuji, il sindaco, gli fece avere discretamente un invito a un
colloquio per un impiego all'anagrafe. Di tutti i lavori propostigli,
questo era probabilmente l'unico che potesse offrirgli una vera e
propria prospettiva di avanzamento di carriera, ma Sakaki la
rifiutò
egualmente, con più decisione delle altre. Sapeva che quello
era
l'unico modo che il signor Fuji avesse per fare ammenda del fatto di
averlo deliberatamente abbandonato all'interno della Torre, senza
tuttavia dover riconoscere apertamente di avergli fatto del male:
nell'ottica di mantenere il segreto della Torre, bisognava negare che
quel luogo fosse pericoloso. Il medico stesso che si era occupato di
lui aveva attribuito la sua amnesia a nient'altro che una forte
impressione che aveva agito su una mente già debole, ma del
tutto
slegata da qualsiasi cosa presente nella Torre Pokémon. E
del resto,
quali prove c'erano del fatto che le cose stessero diversamente? A
una qualsiasi analisi, quell'edificio non ospitava che tombe,
inquietanti, certo, ma assolutamente inoffensive. Dunque non c'era
nessun modo di dimostrare razionalmente, senza chiamare in causa i
fantasmi, che fosse stata la Torre a fargli perdere la memoria.
Nessuno
più di Sakaki
comprendeva del resto la necessità di tacere al riguardo, e
come
avrebbe potuto? Più di chiunque altro egli era vicino al
cuore
profondo di quel mistero. Ciò tuttavia non toglieva niente
al suo
rancore verso l'uomo che, secondo tutte le leggi di Lavandonia ma
contro ogni legge umana, l'aveva volontariamente abbandonato dentro
la Torre. Più volte, incrociandolo per strada o vedendolo
durante
qualche apparizione pubblica, egli si sentì infiammare di un
rancore
sordo, paralizzante. Si sarebbe vendicato anche del signor Fuji, un
giorno – si sarebbe vendicato per tutto.
Forse
questa sua
insofferenza nei confronti del signor Fuji, insofferenza ch'egli
proiettò ben presto su tutto ciò che con la
politica e le leggi
aveva a che fare – poiché era appunto in nome
della legge che era
stato lasciato solo a fronteggiare il proprio destino –
contribuì
in qualche modo alla sua scelta di vita... non avrebbe saputo dirlo.
L'idea
di rubare i
Pokémon si formò in lui quasi contro la sua
volontà, quando una
mattina a colazione, guardando un telegiornale (sua madre lo
stimolava a tenersi aggiornato su ciò che lo circondava,
nella vana
speranza che ricordasse qualcosa, o che almeno reimparasse a
conoscere il mondo), vide un servizio su una banda di ladri di
Pokémon che aveva effettuato un colpo all'Altopiano Blu.
Inizialmente non vi prestò una particolare attenzione, ma
quando a
pranzo sua madre e sua sorella presero a commentare con orrore la
crudeltà di quei ladri, Sakaki si rese conto con stupore di
non
essere affatto disgustato come loro da quegli eventi: essi
incontravano la sua più assoluta indifferenza.
Si
guardò bene dal
confidare loro questi sentimenti: non voleva addolorarle inutilmente
più di quanto già facesse ogni giorno. Ma quando
quella sera si
ritirò al buio nella sua camera, egli rimase a lungo
pensierosamente
seduto sul letto, ad accarezzare il suo Meowth che gli dormiva sulle
ginocchia. Si sentiva confuso dai propri stessi sentimenti, ch'erano
del resto quelli di un uomo nella mente di una creatura appena nata.
Era davvero disposto ad arrivare tanto lontano per conseguire la
propria vendetta?, si domandava. La risposta che a ogni momento gli
veniva alle labbra, e che lo spaventava molto più della
domanda
stessa per la portata delle sue conseguenze, era che sì, lo
era. E
ciò che soprattutto lo confondeva era che questa
consapevolezza non
era affatto il frutto di una tragica, fatale lotta interiore: non
nutriva semplicemente alcun dubbio o scrupolo. Egli voleva quella
Spettrosonda e non vi era alcuna legge morale, alcuna pietà
umana
capace di contrastare questo obiettivo. Nulla lo turbava più
del
pensiero di non ottenere ciò che voleva, non c'era nulla che
suscitava in lui la benché minima emozione, se non il
desiderio
della rivalsa.
La
sua mano si muoveva
incessantemente, con gesto quasi meccanico ma non privo di un certo
affetto, sulla schiena del suo Pokémon dormiente, sereno,
vicino al
suo cuore.
«Tu
non mi odierai,
vero?» Le sue labbra si muovevano come per una
volontà propria,
articolando pensieri tutti loro. «No, tu non mi giudicherai
mai, non
è così? Tu sai perché devo farlo. Non
ho altra scelta... ma tu non
mi abbandonerai, no, tu non lo farai. Ci siamo salvati a vicenda, io
e te. Sì, io e te, tu ed io: non abbiamo bisogno di
nessuno.»
Ma
se davvero voleva
intraprendere questo percorso, non era a Lavandonia che poteva farlo:
era una cittadina troppo quieta, troppo tranquilla...e del resto, a
che pro restarvi più oltre? Quella città non
aveva più niente da
dargli, né lui poteva fare nulla per essa, non ancora,
quantomeno:
un giorno l'avrebbe liberata dalla mefitica, opprimente presenza
della Torre, ma ancora non ne aveva gli strumenti, e proprio per
procurarseli doveva andarsene. E poi, e poi... perché
approfittare
oltre di quelle miserabili che in lui non avrebbero mai ritrovato il
figlio e il fratello che avevano perduto? Sakaki non avrebbe mai
potuto amarle (e nel profondo, forse neppure gli interessava), esse
da lui non avrebbero mai riottenuto che una goffa gratitudine. No,
esse non avrebbero fatto che impacciarlo, ed egli non avrebbe potuto
che mortificare il loro affetto con la propria freddezza. Non c'era
più nulla a legarlo a Lavandonia.
Il
mattino seguente
parlò con sua madre. Ella fin da subito gli parve turbata e
addolorata e per giorni cercò di convincerlo a cambiare
idea: giunse
persino a implorarlo di tornare all'idea dell'Università...
forse
anche lei, come lui, aveva compreso che quella sua intenzione di
allontanarsi da Lavandonia sarebbe stata per sempre e che lei
l'avrebbe perduto per la seconda volta, e definitivamente. Ma Sakaki
fu irremovibile, per quanto ragionevole: non le chiese che il
necessario per pagare tre mesi di affitto e di vitto, poiché
era
convinto, in quel lasso di tempo, di riuscire a trovare di che
pagarsi da vivere – quanto onestamente,
questo rimase non
detto.
Gli
occorsero svariate
settimane di discussione per convincerla, ma finalmente sua madre
cedette alle sue preghiere, forse sperando tacitamente che,
concedendogli quella libertà, egli le si sarebbe avvicinato
un po'
di più, e Sakaki fu libero di partire per Azzurropoli, da
dove non
aveva alcuna intenzione di farle aver sue notizie.
La
berlina nera coi
finestrini oscurati si fermò davanti a una modesta casetta
piccolo
borghese nel centro di Lavandonia. Subito l'autista scese ad aprire
la portiera posteriore: ne uscì un uomo alto, dal volto
maschio e
volitivo, che indossava un nero completo gessato, tagliato su misura,
e un impermeabile scuro. Doveva avere circa trent'anni.
Percorse
il vialetto a
passi svelti e giunto alla porta, come se fosse la cosa più
naturale
del mondo e si aspettasse di essere atteso, suonò il
campanello.
Trascorsero pochi momenti: egli pareva perfettamente a suo agio,
immobile sulla soglia di quella casa così comune, col suo
completo
firmato e le mani nelle tasche dell'impermeabile, ad aspettare.
Nessuno
chiese chi
fosse, ma l'uomo percepì con la coda dell'occhio la tenda di
una
finestra che veniva spostata per guardare il vialetto. Un momento
dopo, la porta si spalancò bruscamente, ma sua madre, o la
donna che
biologicamente era sua madre, invecchiata di dodici anni rispetto al
loro ultimo incontro, non gli gettò affatto le braccia al
collo.
Rimase piuttosto immobile sulla soglia, con sguardo gelido che
però
celava – egli aveva ormai imparato a riconoscere
quell'emozione –
un fondo di terrore.
«Che
ci fai qui?»
La
voce di sua madre
vibrava di rabbia e di paura, ma Sakaki non poté impedirsi
di
sorridere. Le tese le braccia, chiedendole, in tono apertamente
provocatorio: «Non abbracci il figliol prodigo,
mamma?»
Il
volto di sua madre
non ebbe cedimenti. «Vattene» disse con voce bassa
e rabbiosa. «Non
vogliamo avere niente a che fare con te.»
Il
sorriso di Sakaki si
spense immediatamente. « Fammi entrare, forza»
ordinò con voce
secca, spingendola dentro senza mezze misure. Forse intimorita dalla
possenza della sua figura, sua madre arretrò senza
protestare,
limitandosi a guardarlo astiosamente.
Sakaki
richiuse la
porta, gettando uno sguardo attorno a sé nel piccolo
ingresso che
aveva ancora bisogno di una buona mano di bianco da tanti anni prima.
Sì, tutto era come ricordava dai pochi mesi che aveva
trascorso in
quella casa, più di dieci anni prima.
«Che
ci fai qui?»
ripeté la donna nervosamente, senza distogliere gli occhi da
lui. Si
stringeva con le mani le braccia magre. Sakaki abbassò
lentamente
gli occhi su di lei e lo studiò a lungo, senza fretta,
deliberatamente.
«Mi
disprezzi?»
chiese con calma.
Lo
sguardo di sua madre
si fece se possibile più duro: «Ho sentito cos'hai
fatto.»
«Ah,
sì?»
«Sì.»
«Nessuno
mi ha mai
accusato di niente. Che cosa avresti sentito?»
«Smettila!
Lo sai
benissimo» proruppe la donna: aveva gli occhi lucidi e le
tremava il
labbro inferiore. Sì, era terrorizzata da lui, ma egualmente
lo
affrontò con un ardimento che da lei Sakaki non si sarebbe
mai
aspettato. Ricordò che c'era stato un tempo, tanti anni
prima, in
cui l'aveva ammirata per il coraggio di allevare da sola due figli,
di guardare negli occhi un ragazzo che non si ricordava neppure chi
lei fosse. «Nessuno lo ha capito, ma io lo so che ci sei tu
dietro
tutto quello che sta succedendo. Pensi forse che sia stupida? La
droga e i Pokémon e... mio Dio, Sakaki, come hai potuto?
Quel casinò
illegale ad Azzurropoli...»
«Non
è illegale»
protestò Sakaki quasi con stanchezza, passandosi una mano
sul volto,
ma la donna lo aggredì con furia se possibile maggiore:
«Certo, non
è illegale, ma solo perché qualcuno ha regalato a
quel deputato
della maggioranza una villa con piscina sull'Isola Cannella! Pensi
forse che sia una stupida? Li leggo i giornali!»
Quella
sciocca donna di
provincia aveva capito molto più di svariati detective
incaricati di
cercare prove di corruzione a suo carico, pensò Sakaki in un
breve
attimo di compiacimento. Le concesse un sorriso: «Brava,
complimenti.»
«Ma,
Sakaki...
quell'omicidio, ad Azzurropoli!»
Era
a questo, dunque,
che voleva arrivare. Sakaki contrasse le labbra per un attimo e
impiegò qualche secondo a ricordare: sì, uno dei
suoi scassinatori,
che aveva pensato bene, qualche settimana prima, di aspettarlo
all'uscita del suo ufficio per chiedergli una grossa somma, in cambio
del suo silenzio su segreti che a lui parevano molto importanti e
compromettenti, pur non avendo in realtà alcuna prova
concreta con
cui ricattarlo. Gli era dispiaciuto dare l'ordine di eliminarlo,
ricordò con una fitta di disagio alla bocca dello stomaco,
ma non
aveva avuto scelta. Come avrebbe potuto altrimenti guadagnarsi il
rispetto dei suoi tirapiedi? Si massaggiò con le dita la
radice del
naso, sospirando: «Non avevo scelta. Mi stava
ricattando.»
«Ma
l'hai ucciso tu,
tu!» gridò sua madre, pestando disperatamente i
piedi al suolo:
sembrava sconvolta all'idea che lui non comprendesse la
gravità
della colpa di cui si era macchiato. Ma la pazienza di Sakaki si era
decisamente assottigliata negli ultimi dodici anni e di certo non era
più abituato a sentirsi contraddire come un ragazzino.
«Stai
zitta, cretina!
Non l'ho premuto io quel grilletto e non ci sono prove del contrario,
quindi puoi pure smetterla di berciare. Nessuno ti crederebbe mai,
comunque.»
Ma
la voce di sua madre
era assai più fredda e misurata quando rispose con calma:
«A me non
servono le prove.»
Stavolta
Sakaki si
limitò a sbuffare senza risponderle: non aveva tempo da
perdere per
litigare con quella donna. Si guardò nuovamente attorno
nell'ingresso umido, con la vernice vagamente scrostata dagli angoli,
come per far mente locale, e si schiarì la voce.
«Dov'è mia
sorella?»
«A
casa del suo
ragazzo.» La voce di sua madre era ancora dura e fredda, ma
Sakaki
si limitò ad assentire col capo: «Meglio
così. È con te che
volevo parlare»
«Io
non ho niente da
dirti.»
«Io
sì e tu mi
ascolterai. Ho intenzione di comprare questa casa.»
Sua
madre spalancò gli
occhi per la sorpresa e indietreggiò di qualche passo,
scrutandolo
come se lo vedesse per la prima volta. Esitava, cercando di
comprendere il vero significato delle sue parole. «Erediterai
questa
casa alla mia morte. Non hai bisogno di acquistarla.» Pareva
che
quell'obiezione tanto banale fosse la sola cui riusciva a dar forma
concreta nella propria mente.
«No»
ammise Sakaki
con semplicità. Da una tasca interna dell'impermeabile
estrasse un
libretto per gli assegni e una stilografica nera. «Hai
ragione, non
ho alcun bisogno di comprare questa casa. Ti sto facendo uno
splendido regalo, in effetti. Hai già in mente una cifra in
particolare?»
Gli
occhi di sua madre
vagavano da lui alla mano con cui reggeva il libretto, privi di
comprensione. «Questa casa non è in
vendita» disse infine,
tentando di dare alla propria voce una parvenza di risolutezza. Ma
Sakaki rise della sua opposizione.
«Oh,
sì, che è in
vendita. E credimi, sono il miglior acquirente che potresti
desiderare. Te la pagherò il doppio di quanto varrebbe sul
mercato.
E in più vi comprerò una splendida casa da
un'altra parte.
Celestopoli, magari. Ti piacerebbe?»
«Perché
vuoi questa
casa?» chiese infine sua madre. Pareva quasi arresa.
«Cosa te ne
fai? Puoi avere case molto più belle, in città
più importanti...»
«Io
ho case più belle
in città più importanti»
replicò quegli come parlando a una
persona molto tarda. «Ma se vuoi saperlo, te lo
dirò. Ho bisogno di
una casa vicina alla Torre Pokémon per condurre degli
esperimenti...
e per lo stesso motivo, temo che tra qualche mese Lavandonia non
sarà
più un posto tranquillo per vivere. Pertanto mi è
parso generoso da
parte mia allontanarvi da qui prima che i prezzi delle case crollino
vertiginosamente. Ora, se vogliamo concentrarci, penso che un paio di
milioni siano proprio...»
«È
per la Torre,
quindi.»
Quando
Sakaki chinò
gli occhi su di lei, vide che lo guardava fissamente, come se avesse
appena compreso una terribile verità.
«È tutto per la Torre. Tutti
questi anni, questi traffici, questi omicidi... è sempre
stato tutto
per la Torre.»
«Tutta
la mia vita è
sempre stata tutta per la Torre!» replicò Sakaki.
Discutere con
quella donna lo stava spossando più di quanto avesse voluto.
Si
passò una mano sul volto, appoggiandosi con la spalla alla
parete.
«Tu non hai mai capito.»
«No,
sei tu a non aver
capito.»
Egli
allontanò
bruscamente la mano dai propri occhi e le rivolse tutta la sua
attenzione. «Come, prego?»
«Non
eri tenuto a fare
niente per la Torre. Sapevi perfettamente che ciò che avevi
perduto
era irrecuperabile. Ma egualmente hai voluto fare tutto questo per
qualche strano motivo che solo tu conosci, sprecare tutta la tua vita
e le tue forze per...»
«C'era
forse
qualcos'altro che potevo fare?» sbottò Sakaki con
un movimento
secco. «Ma se lo sai anche tu che non mi rimaneva
più niente,
neppure il mio nome! Avevo forse qualche altro motivo per cui
spendere la mia vita?»
«Avevi
me, tua
sorella... no, non dirlo» soggiunse sua madre, come
prevedendo la
sua obiezione. «So che non ci conoscevi, come noi non
conoscevamo
te, perché eri diverso dal Sakaki che avevamo perduto. Ma
noi
eravamo pronte ad amarti e ad aiutarti egualmente e ci abbiamo
provato in tutti i modi in cui abbiamo potuto... tuttavia non te ne
è
mai importato. Eri tu a credere di non avere più niente. Hai
preferito creare un impero criminale che cercare di ricostruire un
rapporto con la tua famiglia...»
Senza
neppure
accorgersene, come incalzato, Sakaki era indietreggiato fino alla
porta. Era davvero così debole da farsi spaventare da quella
donna?
Si riscosse quando con le spalle urtò la vecchia porta di
legno un
po' scrostata sui margini, vicino agli infissi. «Stai dicendo
una
marea di stronzate. Mi stai confondendo. Voi donne fate sempre
così.»
«Allora
è per questo
che te ne sei andato?»
Me
ne sono andato
perché non vi amavo, ma vi ero abbastanza grato da non
coinvolgervi
nella mia vita, avrebbe potuto risponderle: ma non era questo
che
bisognava dire. Non poteva permettersi di perdere altro tempo con
lei. La scostò bruscamente e si appoggiò al
piccolo mobile
dell'ingresso che ospitava il telefono, un blocco per gli appunti e
un vaso di fiori finti che ricordava ancora da tanti anni prima.
«Due
milioni e
trecentomila è molto più di quanto chiunque
dotato di un minimo di
cervello sarebbe disposto a pagare» affermò,
cercando di dare un
tono deciso e sferzante alla sua voce. «Per la casa lascio
scegliere
voi. Guarda degli annunci e fammi sapere se c'è qualcosa che
ti
interessa.»
«Straccia
l'assegno.»
Sakaki
levò gli occhi
su di lei in un moto di sorpresa: «Come...?»
«Straccialo»
ripeté
sua madre. «Non li voglio quei soldi.»
«Senti,
se stai
bluffando per averne di più, basta che me lo dici. Io di
questa casa
ho bisogno in tempi brevi...» cominciò Sakaki
spazientito, ma la
donna non lo lasciò finire: «Te la lascio, ma non
te la vendo.
Accetto solo l'altra casa, ma a Zafferanopoli, non a Celestopoli. Non
voglio che tua sorella sia troppo lontana dal suo ragazzo, le
spezzerebbe il cuore. E tuo padre riposa ancora qui.»
«Posso
far traslare le
sue spoglie...»
«Ha
scelto lui
Lavandonia» lo interruppe sua madre, come se la discussione
fosse
per lei conclusa. «Non sarò certo io a strappare
il suo corpo da
qui, o da Seel.»
«Seel?»
Per
un attimo Sakaki
rimase spiazzato. Risalì per un attimo con la memoria ai
primi
giorni della sua esistenza: aveva la vaga sensazione di ricordare un
Seel, che forse era stato importante, ma non conservava memorie
precise. Distolse rapidamente lo sguardo da lei, tornando a compilare
l'assegno, per non mostrare il suo disagio e la sua lacuna, ma la
donna l'aveva già percepito.
«Sì,
Seel. L'unico
Pokémon di tuo padre.» Gli rivolse un'occhiata
accigliata. «Non te
lo ricordi? No, che sciocca... non puoi. È per lui che sei
rimasto
nella Torre, quella notte.»
«Quella
notte...»
La
stilografica nera
tremò per un attimo nella sua mano e una grossa goccia
d'inchiostro
si gonfiò in fondo alla sua firma, ma Sakaki non se ne
accorse, come
non si accorse di aver trattenuto per un attimo il respiro. Seel...
Sì,
ricordava tutto.
Seel, il nome inciso sulla lapide che aveva ospitato il suo tormento.
I suoi occhi l'avevano letto per tutta la notte e sua madre doveva
averglielo spiegato... ma erano dodici anni che non ci ripensava!
«Me
lo ricordo
benissimo» disse seccamente. Concluse la firma con uno
svolazzo e
staccò l'assegno.
«No,
non puoi
ricordartelo.»
«Ricordo
che me l'hai
raccontato.» Sventolò per un attimo l'assegno, per
accertarsi che
l'inchiostro fosse asciutto, e glielo porse: ora si era dominato a
sufficienza da guardarla negli occhi. «Tieni, fanne quel che
ti
pare.»
«Strappalo,
ho detto.
Non lo voglio qui. Prenditi pure la casa.»
Questo
Sakaki non se
l'era aspettato. Certo, aveva previsto proteste, pianti, scenate,
netti rifiuti o persino richieste economiche spropositate, ma...
questo no.
«Perché?»
Non vi fu
risposta. «Voglio dire, so che disprezzi i miei soldi. Ma
perché mi
regali la casa?»
Anche
stavolta non vi
furono esitazioni, non cedimenti nella voce di sua madre né
nel suo
sguardo, quando disse molto lentamente: «Vuoi forse farmi
credere
che non te la prenderesti con la forza, se te la negassi? Preferisco
dartela di buon grado, senza pantomime. Tutto ciò che posso
fare è
rifiutare il tuo denaro.»
Per
qualche strano
motivo, l'assoluta certezza con cui ella aveva pronunciato queste
parole lo ferì profondamente, forse perché egli
era consapevole che
quella era la verità, anche se non sarebbe mai stato in
grado di
ammettere neppure nell'intimità del proprio animo a quale
estremo di
crudeltà era giunta la sua vita. Rimase per svariati secondi
immobile di fronte a lei, sbigottito, incapace di articolare parola o
di pensare a qualcosa da replicare a quella terribile accusa. Non
aveva mai pensato seriamente, in termini concreti, a come avrebbe
agito di fronte al suo rifiuto di vendergli la casa, ma in quel
momento si rendeva conto che sarebbe stato davvero capace di
prenderla con la forza e questa consapevolezza lo riempiva di
mortificazione e disprezzo per se stesso: sentimenti, questi, che
aveva da tempo dovuto seppellire nel profondo del proprio animo, per
andare avanti col perseguimento del suo obiettivo finale...
«Non
l'avrei mai
fatto» disse, davvero sinceramente in quel momento, e la sua
voce
suonò più debole e incerta. «Non farei
mai qualcosa del genere...
alla mia famiglia.» Quest'ultima parola gli costò
un notevole
sforzo di riflessione per essere pronunciata: non pensava mai a se
stesso come al genere di uomo che ha una famiglia in qualche parte
del mondo.
«Non
ci hai mai
considerate la tua famiglia. Non mentire a te stesso: non sei mai
stato mio figlio. Ho capito da tempo che il mio Sakaki da quella
Torre non era mai uscito...»
«Ma
vi sono grato
egualmente per avermi accolto.» Per qualche motivo, la sua
protesta
ebbe un suono debole e poco convinto.
«Sì,
lo sei, ma
questo non ha significato niente.»
Sakaki
si morse le
labbra. Non gli veniva in mente niente da replicare e se il suo primo
impulso era di affermare con vigore la falsità di
quell'accusa, per
contro non gli veniva in mente alcuna prova contraria. Era vero che,
a parte la gratitudine, non aveva mai provato il benché
minimo
trasporto verso nessuna di loro; tuttavia...
«Finiamola
con queste
stronzate. L'assegno lo lascerò qui, fanne pure quel che ti
pare.
Devolvilo in beneficienza, per quanto mi riguarda.»
Appoggiò
ostentatamente l'assegno sul tavolino, ma sua madre non lo
degnò di
un'occhiata. Bene, non gli importava nulla di quello che ne avrebbe
fatto: se gli avesse permesso di risparmiare due milioni, tanto
meglio per lui. Si schiarì nuovamente la voce:
«Quando pensi che
sarete pronte per lasciare la casa? Come ti ho detto, ne ho bisogno
il più presto possibile, perciò...»
«Se
troviamo un altro
posto dove stare, un paio di mesi saranno più che
sufficienti.»
«Per
la nuova casa non
c'è problema, puoi scegliere quella che vuoi.»
«Suppongo
che dovrei
ringraziarti per la tua generosità.»
Sakaki
finse di non
aver notato il suo sarcasmo sferzante. Ripose il libretto degli
assegni nell'impermeabile e si mise le mani in tasca. «Molto
bene.
Il mio avvocato ti telefonerà in settimana per le
formalità, il
notaio e tutto il resto. Tutto in regola, come puoi vedere.»
«Oh,
non ne dubito.»
Egli
non riusciva a
ricordare l'ultima volta che qualcuno si era preso gioco di lui a
quel modo, ma in quel momento non gli importava: nessuno era
lì per
assistervi e lui aveva appena ottenuto ciò per cui era
tornato a
Lavandonia dopo tutti quegli anni. Perciò protese la mano e
disse
semplicemente: «Porgi tu i miei saluti a mia sorella, io non
posso
fermarmi.»
La
sua mano restò
vuota a mezz'aria. Sua madre incrociò ostentatamente le
braccia sul
petto, guardandolo con aria di sfida. Sakaki decise di ritirare
semplicemente la mano e aprì la porta senza fare una piega.
Eppure,
prima di uscire, si ritrovò a dire quasi contro la sua
volontà: «Mi
farai sapere se avrete bisogno di qualcosa.»
Ma
dalle sue spalle non
gli giunse alcuna risposta ed egli uscì senza guardarsi
indietro.
Non
aveva ancora
raggiunto il cancelletto che il suo autista si precipitò ad
aprirgli
la portiera, ma proprio quando stava per risalire a bordo, Sakaki
cambiò idea.
«Devo
andare in un
altro posto» disse ruvidamente. «È
meglio che ci vada a piedi. Vai
ad aspettarmi all'uscita della città, verso l'imbocco del
Percorso
Otto... c'è uno slargo dove puoi parcheggiare.»
Non aveva voglia di
essere seguito. Sakaki accarezzò brevemente il capo di
Persian, che
dormiva oziosamebte sul sedile posteriore dell'auto, poi diede
l'ordine di chiudere la portiera e di partire.
Attese
che la macchina
si fosse allontanata, prima di incamminarsi a sua volta. Erano
passate da poco le sei e mezza, considerò mentre camminava a
passi
lenti, quasi senza accorgersene, verso nord... era tutto come
ricordava. Eccola là, la casa del signor Fuji, il maledetto
sindaco... il vecchio Centro Pokémon aveva rinnovato
l'insegna, ora
era assolutamente identico a quelli di tutte le altre città
kantensi. La strada verso il Tunnelroccioso avrebbe avuto bisogno di
un po' di manutenzione, le erbacce crescevano troppo fitte, le buche
erano profonde...
Non
si accorse neppure
di essere arrivato, forse perché non aveva compreso neppure
lui,
all'inizio, dove aveva intenzione di andare. Ma quando, sollevando lo
sguardo cogitabondo, si ritrovò davanti al pesante portale
di legno
massiccio con le borchie di ferro, in quel momento aperto, ma ancora
per poco, non poté fare altro che scuotere leggermente il
capo ed
entrare con un sospiro di rassegnazione. Tanti anni prima, in
procinto di lasciare Lavandonia, aveva giurato a se stesso che quando
fosse rientrato nella Torre Pokémon, sarebbe stato con una
Spettrosonda in mano, ma ora che si ritrovava nuovamente lì,
si
rendeva conto di quanto futile e vano fosse stato il suo proposito.
Non avrebbe mai potuto resistere al suo richiamo, il richiamo
dell'unica madre che avrebbe mai potuto avere. Aveva potuto ignorarne
la voce da Azzurropoli, in quella metropoli così caotica e
rumorosa,
ma lì, in quella città silenziosa, la chiamata
della Torre era
troppo forte per rimanere inascoltata.
Non
era rimasto quasi
più nessuno, i pochi turisti venuti a onorare le tombe
dovevano
ormai aver abbandonato le aule cupe. Sakaki non era più
tornato al
suo interno dalla notte in cui aveva aperto gli occhi, ma egualmente
i suoi piedi lo condussero da soli lungo le scale, come per una
strada nota alla memoria e consunta dall'abitudine. Ricordava tutto
di quel mattino e quelle scale glielo richiamarono alla mente con
tale dolorosa, vivida intensità che a un tratto dovette
fermarsi,
aggrappandosi al corrimano, e passarsi una mano sugli occhi per non
cedere all'impressione suscitatagli da quei ricordi. Tutto gli
tornava violentemente alla mente: le lunghe ore trascorse immobile
sulla tomba, la sensazione di gelo contro la pelle nuda; il rumore
dei portali che si riaprivano contro la luce del giorno, lo sciamare
della folla su per i corridoi, le grida di trionfo, le braccia calde
e le lacrime ribollenti di quella donna, che solo dopo aveva scoperto
esser sua madre, la coperta ruvida gettata a ricoprirgli le membra...
Non c'era stata notte in cui non aveva sognato tutte quelle
sensazioni – per non parlare del primo e più
importante dei suoi
sogni e dei suoi ricordi, l'insostituibile e inestimabile, quello in
cui una voce invisibile nella luce abbagliante gli domandava: Qual
è il tuo nome?
E
allora perché, di
tutti questi ricordi che conservava con precisione incalcolabile e
che costituivano l'essenza stessa dell'intero suo essere e la cagione
di tutte le sue scelte, non aveva mai più pensato a Seel?
Prima
ancora di vedere
la lapide, avrebbe potuto pronunciarne a memoria l'epitaffio: A
Seel, amato compagno di avventure, fino all'ultima ora fedele. E
lo recitò egualmente, quando finalmente si trovò
davanti alla
lastra tombale sulla quale era venuto al mondo...
Rimase
a lungo in
piedi, immobile, silenzioso davanti a quella semplice tomba. Avrebbe
potuto toccarla, sentirne la consistenza dura e fredda sotto le dita,
ma non ne aveva bisogno: la ricordava già con eloquente
chiarezza su
tutto il proprio corpo, come se la stesse saggiando in quel preciso
momento. E allo stesso modo avrebbe potuto andare via subito dopo
averla vista, ma egualmente rimase lì, con le mani affondate
nelle
tasche dell'impermeabile nero.
Era
per Seel, dunque,
che era accaduto tutto ciò. Era per Seel che aveva scelto,
in un
attimo fatale che aveva deciso per sempre di tutta la sua esistenza,
di trascorrere la notte là dentro: allora chissà
per quale motivo,
quando sua madre gliel'aveva raccontato, non vi aveva dato peso...
eppure era per lui, dopotutto, che egli si era ritrovato a fondare il
Team Rocket, ad aprire il Casinò di Azzurropoli, a rapire
tutti quei
Pokémon e rivenderli sul mercato nero, a uccidere
quell'uomo...
«È
sempre stato per
te, dunque» mormorò. «Se non fosse stato
per te, tutto questo non
sarebbe mai esistito. Come ho potuto credere che non fossi
importante, che non girasse tutto intorno a te...»
Che
ne sarebbe stato
della sua vita, se in quel momento cruciale egli avesse amato un po'
meno il Pokémon di suo padre, che ora non ricordava neppure?
Che
uomo sarebbe diventato il giovane Sakaki? Un uomo onesto, un uomo
migliore... Certo, ma non aveva senso chiedersi ora tutto
ciò. Era
sempre stato chiaro che quel ragazzo stupido e sentimentale era morto
quella notte senza aver mai rivisto la sua mamma e averle chiesto
scusa per il dolore che le aveva arrecato, mentre l'uomo che quella
notte era nato su quella tomba non aveva niente a che fare
né con
lui, né con quella donna, né con Seel. Eppure...
Si
massaggiò la fronte
con la mano e poi gettò uno sguardo al suo orologio da polso
d'oro.
Erano quasi le sette, ma in quel momento la sua attenzione fu
richiamata da un altro pensiero che lo colpì come se fosse
d'importanza fondamentale: se non fosse stato per Seel, non avrebbe
mai posseduto quell'orologio. Era un pensiero stupido, persino
ridicolo, ma in quel momento assurdamente doloroso, tale da
dilacerargli quasi il petto: quale sarebbe stato il più
felice, tra
l'uomo vivo che possedeva un orologio d'oro e quello, morto, che
avrebbe invece serbato memoria di un Seel ormai scomparso, perduto
negli abissi del tempo?
«Se
non fosse stato
per te...! Se non fosse stato per te...!»
Le
sue parole
echeggiarono tra le volte ricurve tanto a lungo che non sembrarono
neppure più le sue proprie parole, ma come pronunciate dalle
mura
stesse. Era già successo, tanti anni prima, che le sue
parole stesse
echeggiassero su quelle medesime pareti e ritornassero a investirlo,
a ricordargli che nessuno mai avrebbe risposto alle sue domande... E
ora la tomba stessa pareva schernirlo, Sakaki avrebbe potuto giurare
di sentirla ridere della sua domanda e incalzarlo: Cosa
saresti
stato, se non fosse stato per me?
Sakaki
si volse
seccamente per andarsene in un turbinio di stoffa nera. Era stato un
errore venire lì, ora lo sapeva, la Torre lo aveva ingannato
un'altra volta: non gli avrebbe mai dato alcuna risposta, se non
quella che lui solo le avrebbe strappato con la forza.
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