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Autore: Afaneia    07/10/2014    2 recensioni
Il ragazzo che ha commesso l'errore di trascorrere una notte nella Torre Pokémon non esiste più. Da quella Torre è uscito un uomo adulto e privo di nome e di ricordi, cui non è rimasto che un obiettivo nella vita: vendicarsi degli Spettri che abitano il cimitero di Lavandonia. (Sequel de La Spettrosonda).
Genere: Angst, Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Giovanni
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Videogioco
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Ultor'
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Buon pomeriggio!

Non ho molto da dire riguardo a questo capitolo, suppongo che si spieghi tutto da solo. Non posso tuttavia non soffermarmi ringraziare con tutto il mio affetto la mia carissima crystal_93 per la sua recensione e per aver inserito la storia tra le seguite!

Baci,

Afaneia



Capitolo II – Seel, di nuovo.


[...] Io questo ciel, che sì benigno

appare in vista, a salutar m'affaccio,

e l'antica natura onnipossente

che mi fece all'affanno. A te la speme

nego, disse, anche la speme; e d'altro

non brillin gli occhi tuoi se non di pianto.


Giacomo Leopardi, La sera del dì di festa.



Nessun lavoro normale avrebbe mai potuto permettergli di guadagnare una somma tale da finanziare gli esperimenti: Sakaki se ne rese conto già dopo poche settimane quando, pur continuando contemporaneamente a studiare con interesse la fisica e l'elettronica quantistica, cominciò a considerare seriamente le proprie prospettive future.

Non esistevano vere e proprie occupazioni che potesse intraprendere. Non aveva una laurea, ovviamente, a malapena possedeva un diploma superiore, e in ogni caso non aveva idea di come lo avesse conseguito. Non aveva conoscenze tecniche o capacità pratiche in nessun campo specifico: anche grazie a qualche parola illuminante di sua madre, comprese entro breve di essere una figura essenzialmente improponibile sul mercato del lavoro. Sua madre cercò ovviamente di non scoraggiarlo, anzi di stimolarlo a mettersi in gioco, e sorprendentemente gli giunsero svariate proposte di lavoro: più volte ella tornò a casa informandolo che il giornalaio era disponibile a offrirgli un posto all'edicola all'angolo, che il bar a sud del Tunnelroccioso cercava un cameriere, che il Supermarket aveva bisogo di un commesso... ma per quanto sapesse di darle un dolore, Sakaki rifiutà tutte quelle offerte, dettate dalla pietà che gli abitanti di Lavandonia provavano per la sola vittima del loro cieco silenzio. Persino il signor Fuji, il sindaco, gli fece avere discretamente un invito a un colloquio per un impiego all'anagrafe. Di tutti i lavori propostigli, questo era probabilmente l'unico che potesse offrirgli una vera e propria prospettiva di avanzamento di carriera, ma Sakaki la rifiutò egualmente, con più decisione delle altre. Sapeva che quello era l'unico modo che il signor Fuji avesse per fare ammenda del fatto di averlo deliberatamente abbandonato all'interno della Torre, senza tuttavia dover riconoscere apertamente di avergli fatto del male: nell'ottica di mantenere il segreto della Torre, bisognava negare che quel luogo fosse pericoloso. Il medico stesso che si era occupato di lui aveva attribuito la sua amnesia a nient'altro che una forte impressione che aveva agito su una mente già debole, ma del tutto slegata da qualsiasi cosa presente nella Torre Pokémon. E del resto, quali prove c'erano del fatto che le cose stessero diversamente? A una qualsiasi analisi, quell'edificio non ospitava che tombe, inquietanti, certo, ma assolutamente inoffensive. Dunque non c'era nessun modo di dimostrare razionalmente, senza chiamare in causa i fantasmi, che fosse stata la Torre a fargli perdere la memoria.

Nessuno più di Sakaki comprendeva del resto la necessità di tacere al riguardo, e come avrebbe potuto? Più di chiunque altro egli era vicino al cuore profondo di quel mistero. Ciò tuttavia non toglieva niente al suo rancore verso l'uomo che, secondo tutte le leggi di Lavandonia ma contro ogni legge umana, l'aveva volontariamente abbandonato dentro la Torre. Più volte, incrociandolo per strada o vedendolo durante qualche apparizione pubblica, egli si sentì infiammare di un rancore sordo, paralizzante. Si sarebbe vendicato anche del signor Fuji, un giorno – si sarebbe vendicato per tutto.

Forse questa sua insofferenza nei confronti del signor Fuji, insofferenza ch'egli proiettò ben presto su tutto ciò che con la politica e le leggi aveva a che fare – poiché era appunto in nome della legge che era stato lasciato solo a fronteggiare il proprio destino – contribuì in qualche modo alla sua scelta di vita... non avrebbe saputo dirlo.

L'idea di rubare i Pokémon si formò in lui quasi contro la sua volontà, quando una mattina a colazione, guardando un telegiornale (sua madre lo stimolava a tenersi aggiornato su ciò che lo circondava, nella vana speranza che ricordasse qualcosa, o che almeno reimparasse a conoscere il mondo), vide un servizio su una banda di ladri di Pokémon che aveva effettuato un colpo all'Altopiano Blu. Inizialmente non vi prestò una particolare attenzione, ma quando a pranzo sua madre e sua sorella presero a commentare con orrore la crudeltà di quei ladri, Sakaki si rese conto con stupore di non essere affatto disgustato come loro da quegli eventi: essi incontravano la sua più assoluta indifferenza.

Si guardò bene dal confidare loro questi sentimenti: non voleva addolorarle inutilmente più di quanto già facesse ogni giorno. Ma quando quella sera si ritirò al buio nella sua camera, egli rimase a lungo pensierosamente seduto sul letto, ad accarezzare il suo Meowth che gli dormiva sulle ginocchia. Si sentiva confuso dai propri stessi sentimenti, ch'erano del resto quelli di un uomo nella mente di una creatura appena nata. Era davvero disposto ad arrivare tanto lontano per conseguire la propria vendetta?, si domandava. La risposta che a ogni momento gli veniva alle labbra, e che lo spaventava molto più della domanda stessa per la portata delle sue conseguenze, era che sì, lo era. E ciò che soprattutto lo confondeva era che questa consapevolezza non era affatto il frutto di una tragica, fatale lotta interiore: non nutriva semplicemente alcun dubbio o scrupolo. Egli voleva quella Spettrosonda e non vi era alcuna legge morale, alcuna pietà umana capace di contrastare questo obiettivo. Nulla lo turbava più del pensiero di non ottenere ciò che voleva, non c'era nulla che suscitava in lui la benché minima emozione, se non il desiderio della rivalsa.

La sua mano si muoveva incessantemente, con gesto quasi meccanico ma non privo di un certo affetto, sulla schiena del suo Pokémon dormiente, sereno, vicino al suo cuore.

«Tu non mi odierai, vero?» Le sue labbra si muovevano come per una volontà propria, articolando pensieri tutti loro. «No, tu non mi giudicherai mai, non è così? Tu sai perché devo farlo. Non ho altra scelta... ma tu non mi abbandonerai, no, tu non lo farai. Ci siamo salvati a vicenda, io e te. Sì, io e te, tu ed io: non abbiamo bisogno di nessuno.»

Ma se davvero voleva intraprendere questo percorso, non era a Lavandonia che poteva farlo: era una cittadina troppo quieta, troppo tranquilla...e del resto, a che pro restarvi più oltre? Quella città non aveva più niente da dargli, né lui poteva fare nulla per essa, non ancora, quantomeno: un giorno l'avrebbe liberata dalla mefitica, opprimente presenza della Torre, ma ancora non ne aveva gli strumenti, e proprio per procurarseli doveva andarsene. E poi, e poi... perché approfittare oltre di quelle miserabili che in lui non avrebbero mai ritrovato il figlio e il fratello che avevano perduto? Sakaki non avrebbe mai potuto amarle (e nel profondo, forse neppure gli interessava), esse da lui non avrebbero mai riottenuto che una goffa gratitudine. No, esse non avrebbero fatto che impacciarlo, ed egli non avrebbe potuto che mortificare il loro affetto con la propria freddezza. Non c'era più nulla a legarlo a Lavandonia.

Il mattino seguente parlò con sua madre. Ella fin da subito gli parve turbata e addolorata e per giorni cercò di convincerlo a cambiare idea: giunse persino a implorarlo di tornare all'idea dell'Università... forse anche lei, come lui, aveva compreso che quella sua intenzione di allontanarsi da Lavandonia sarebbe stata per sempre e che lei l'avrebbe perduto per la seconda volta, e definitivamente. Ma Sakaki fu irremovibile, per quanto ragionevole: non le chiese che il necessario per pagare tre mesi di affitto e di vitto, poiché era convinto, in quel lasso di tempo, di riuscire a trovare di che pagarsi da vivere – quanto onestamente, questo rimase non detto.

Gli occorsero svariate settimane di discussione per convincerla, ma finalmente sua madre cedette alle sue preghiere, forse sperando tacitamente che, concedendogli quella libertà, egli le si sarebbe avvicinato un po' di più, e Sakaki fu libero di partire per Azzurropoli, da dove non aveva alcuna intenzione di farle aver sue notizie.




La berlina nera coi finestrini oscurati si fermò davanti a una modesta casetta piccolo borghese nel centro di Lavandonia. Subito l'autista scese ad aprire la portiera posteriore: ne uscì un uomo alto, dal volto maschio e volitivo, che indossava un nero completo gessato, tagliato su misura, e un impermeabile scuro. Doveva avere circa trent'anni.

Percorse il vialetto a passi svelti e giunto alla porta, come se fosse la cosa più naturale del mondo e si aspettasse di essere atteso, suonò il campanello. Trascorsero pochi momenti: egli pareva perfettamente a suo agio, immobile sulla soglia di quella casa così comune, col suo completo firmato e le mani nelle tasche dell'impermeabile, ad aspettare.

Nessuno chiese chi fosse, ma l'uomo percepì con la coda dell'occhio la tenda di una finestra che veniva spostata per guardare il vialetto. Un momento dopo, la porta si spalancò bruscamente, ma sua madre, o la donna che biologicamente era sua madre, invecchiata di dodici anni rispetto al loro ultimo incontro, non gli gettò affatto le braccia al collo. Rimase piuttosto immobile sulla soglia, con sguardo gelido che però celava – egli aveva ormai imparato a riconoscere quell'emozione – un fondo di terrore.

«Che ci fai qui?»

La voce di sua madre vibrava di rabbia e di paura, ma Sakaki non poté impedirsi di sorridere. Le tese le braccia, chiedendole, in tono apertamente provocatorio: «Non abbracci il figliol prodigo, mamma?»

Il volto di sua madre non ebbe cedimenti. «Vattene» disse con voce bassa e rabbiosa. «Non vogliamo avere niente a che fare con te.»

Il sorriso di Sakaki si spense immediatamente. « Fammi entrare, forza» ordinò con voce secca, spingendola dentro senza mezze misure. Forse intimorita dalla possenza della sua figura, sua madre arretrò senza protestare, limitandosi a guardarlo astiosamente.

Sakaki richiuse la porta, gettando uno sguardo attorno a sé nel piccolo ingresso che aveva ancora bisogno di una buona mano di bianco da tanti anni prima. Sì, tutto era come ricordava dai pochi mesi che aveva trascorso in quella casa, più di dieci anni prima.

«Che ci fai qui?» ripeté la donna nervosamente, senza distogliere gli occhi da lui. Si stringeva con le mani le braccia magre. Sakaki abbassò lentamente gli occhi su di lei e lo studiò a lungo, senza fretta, deliberatamente.

«Mi disprezzi?» chiese con calma.

Lo sguardo di sua madre si fece se possibile più duro: «Ho sentito cos'hai fatto.»

«Ah, sì?»

«Sì.»

«Nessuno mi ha mai accusato di niente. Che cosa avresti sentito?»

«Smettila! Lo sai benissimo» proruppe la donna: aveva gli occhi lucidi e le tremava il labbro inferiore. Sì, era terrorizzata da lui, ma egualmente lo affrontò con un ardimento che da lei Sakaki non si sarebbe mai aspettato. Ricordò che c'era stato un tempo, tanti anni prima, in cui l'aveva ammirata per il coraggio di allevare da sola due figli, di guardare negli occhi un ragazzo che non si ricordava neppure chi lei fosse. «Nessuno lo ha capito, ma io lo so che ci sei tu dietro tutto quello che sta succedendo. Pensi forse che sia stupida? La droga e i Pokémon e... mio Dio, Sakaki, come hai potuto? Quel casinò illegale ad Azzurropoli...»

«Non è illegale» protestò Sakaki quasi con stanchezza, passandosi una mano sul volto, ma la donna lo aggredì con furia se possibile maggiore: «Certo, non è illegale, ma solo perché qualcuno ha regalato a quel deputato della maggioranza una villa con piscina sull'Isola Cannella! Pensi forse che sia una stupida? Li leggo i giornali!»

Quella sciocca donna di provincia aveva capito molto più di svariati detective incaricati di cercare prove di corruzione a suo carico, pensò Sakaki in un breve attimo di compiacimento. Le concesse un sorriso: «Brava, complimenti.»

«Ma, Sakaki... quell'omicidio, ad Azzurropoli!»

Era a questo, dunque, che voleva arrivare. Sakaki contrasse le labbra per un attimo e impiegò qualche secondo a ricordare: sì, uno dei suoi scassinatori, che aveva pensato bene, qualche settimana prima, di aspettarlo all'uscita del suo ufficio per chiedergli una grossa somma, in cambio del suo silenzio su segreti che a lui parevano molto importanti e compromettenti, pur non avendo in realtà alcuna prova concreta con cui ricattarlo. Gli era dispiaciuto dare l'ordine di eliminarlo, ricordò con una fitta di disagio alla bocca dello stomaco, ma non aveva avuto scelta. Come avrebbe potuto altrimenti guadagnarsi il rispetto dei suoi tirapiedi? Si massaggiò con le dita la radice del naso, sospirando: «Non avevo scelta. Mi stava ricattando.»

«Ma l'hai ucciso tu, tu!» gridò sua madre, pestando disperatamente i piedi al suolo: sembrava sconvolta all'idea che lui non comprendesse la gravità della colpa di cui si era macchiato. Ma la pazienza di Sakaki si era decisamente assottigliata negli ultimi dodici anni e di certo non era più abituato a sentirsi contraddire come un ragazzino.

«Stai zitta, cretina! Non l'ho premuto io quel grilletto e non ci sono prove del contrario, quindi puoi pure smetterla di berciare. Nessuno ti crederebbe mai, comunque.»

Ma la voce di sua madre era assai più fredda e misurata quando rispose con calma: «A me non servono le prove.»

Stavolta Sakaki si limitò a sbuffare senza risponderle: non aveva tempo da perdere per litigare con quella donna. Si guardò nuovamente attorno nell'ingresso umido, con la vernice vagamente scrostata dagli angoli, come per far mente locale, e si schiarì la voce. «Dov'è mia sorella?»

«A casa del suo ragazzo.» La voce di sua madre era ancora dura e fredda, ma Sakaki si limitò ad assentire col capo: «Meglio così. È con te che volevo parlare»

«Io non ho niente da dirti.»

«Io sì e tu mi ascolterai. Ho intenzione di comprare questa casa.»

Sua madre spalancò gli occhi per la sorpresa e indietreggiò di qualche passo, scrutandolo come se lo vedesse per la prima volta. Esitava, cercando di comprendere il vero significato delle sue parole. «Erediterai questa casa alla mia morte. Non hai bisogno di acquistarla.» Pareva che quell'obiezione tanto banale fosse la sola cui riusciva a dar forma concreta nella propria mente.

«No» ammise Sakaki con semplicità. Da una tasca interna dell'impermeabile estrasse un libretto per gli assegni e una stilografica nera. «Hai ragione, non ho alcun bisogno di comprare questa casa. Ti sto facendo uno splendido regalo, in effetti. Hai già in mente una cifra in particolare?»

Gli occhi di sua madre vagavano da lui alla mano con cui reggeva il libretto, privi di comprensione. «Questa casa non è in vendita» disse infine, tentando di dare alla propria voce una parvenza di risolutezza. Ma Sakaki rise della sua opposizione.

«Oh, sì, che è in vendita. E credimi, sono il miglior acquirente che potresti desiderare. Te la pagherò il doppio di quanto varrebbe sul mercato. E in più vi comprerò una splendida casa da un'altra parte. Celestopoli, magari. Ti piacerebbe?»

«Perché vuoi questa casa?» chiese infine sua madre. Pareva quasi arresa. «Cosa te ne fai? Puoi avere case molto più belle, in città più importanti...»

«Io ho case più belle in città più importanti» replicò quegli come parlando a una persona molto tarda. «Ma se vuoi saperlo, te lo dirò. Ho bisogno di una casa vicina alla Torre Pokémon per condurre degli esperimenti... e per lo stesso motivo, temo che tra qualche mese Lavandonia non sarà più un posto tranquillo per vivere. Pertanto mi è parso generoso da parte mia allontanarvi da qui prima che i prezzi delle case crollino vertiginosamente. Ora, se vogliamo concentrarci, penso che un paio di milioni siano proprio...»

«È per la Torre, quindi.»

Quando Sakaki chinò gli occhi su di lei, vide che lo guardava fissamente, come se avesse appena compreso una terribile verità. «È tutto per la Torre. Tutti questi anni, questi traffici, questi omicidi... è sempre stato tutto per la Torre.»

«Tutta la mia vita è sempre stata tutta per la Torre!» replicò Sakaki. Discutere con quella donna lo stava spossando più di quanto avesse voluto. Si passò una mano sul volto, appoggiandosi con la spalla alla parete. «Tu non hai mai capito.»

«No, sei tu a non aver capito.»

Egli allontanò bruscamente la mano dai propri occhi e le rivolse tutta la sua attenzione. «Come, prego?»

«Non eri tenuto a fare niente per la Torre. Sapevi perfettamente che ciò che avevi perduto era irrecuperabile. Ma egualmente hai voluto fare tutto questo per qualche strano motivo che solo tu conosci, sprecare tutta la tua vita e le tue forze per...»

«C'era forse qualcos'altro che potevo fare?» sbottò Sakaki con un movimento secco. «Ma se lo sai anche tu che non mi rimaneva più niente, neppure il mio nome! Avevo forse qualche altro motivo per cui spendere la mia vita?»

«Avevi me, tua sorella... no, non dirlo» soggiunse sua madre, come prevedendo la sua obiezione. «So che non ci conoscevi, come noi non conoscevamo te, perché eri diverso dal Sakaki che avevamo perduto. Ma noi eravamo pronte ad amarti e ad aiutarti egualmente e ci abbiamo provato in tutti i modi in cui abbiamo potuto... tuttavia non te ne è mai importato. Eri tu a credere di non avere più niente. Hai preferito creare un impero criminale che cercare di ricostruire un rapporto con la tua famiglia...»

Senza neppure accorgersene, come incalzato, Sakaki era indietreggiato fino alla porta. Era davvero così debole da farsi spaventare da quella donna? Si riscosse quando con le spalle urtò la vecchia porta di legno un po' scrostata sui margini, vicino agli infissi. «Stai dicendo una marea di stronzate. Mi stai confondendo. Voi donne fate sempre così.»

«Allora è per questo che te ne sei andato?»

Me ne sono andato perché non vi amavo, ma vi ero abbastanza grato da non coinvolgervi nella mia vita, avrebbe potuto risponderle: ma non era questo che bisognava dire. Non poteva permettersi di perdere altro tempo con lei. La scostò bruscamente e si appoggiò al piccolo mobile dell'ingresso che ospitava il telefono, un blocco per gli appunti e un vaso di fiori finti che ricordava ancora da tanti anni prima.

«Due milioni e trecentomila è molto più di quanto chiunque dotato di un minimo di cervello sarebbe disposto a pagare» affermò, cercando di dare un tono deciso e sferzante alla sua voce. «Per la casa lascio scegliere voi. Guarda degli annunci e fammi sapere se c'è qualcosa che ti interessa.»

«Straccia l'assegno.»

Sakaki levò gli occhi su di lei in un moto di sorpresa: «Come...?»

«Straccialo» ripeté sua madre. «Non li voglio quei soldi.»

«Senti, se stai bluffando per averne di più, basta che me lo dici. Io di questa casa ho bisogno in tempi brevi...» cominciò Sakaki spazientito, ma la donna non lo lasciò finire: «Te la lascio, ma non te la vendo. Accetto solo l'altra casa, ma a Zafferanopoli, non a Celestopoli. Non voglio che tua sorella sia troppo lontana dal suo ragazzo, le spezzerebbe il cuore. E tuo padre riposa ancora qui.»

«Posso far traslare le sue spoglie...»

«Ha scelto lui Lavandonia» lo interruppe sua madre, come se la discussione fosse per lei conclusa. «Non sarò certo io a strappare il suo corpo da qui, o da Seel.»

«Seel?»

Per un attimo Sakaki rimase spiazzato. Risalì per un attimo con la memoria ai primi giorni della sua esistenza: aveva la vaga sensazione di ricordare un Seel, che forse era stato importante, ma non conservava memorie precise. Distolse rapidamente lo sguardo da lei, tornando a compilare l'assegno, per non mostrare il suo disagio e la sua lacuna, ma la donna l'aveva già percepito.

«Sì, Seel. L'unico Pokémon di tuo padre.» Gli rivolse un'occhiata accigliata. «Non te lo ricordi? No, che sciocca... non puoi. È per lui che sei rimasto nella Torre, quella notte.»

«Quella notte...»

La stilografica nera tremò per un attimo nella sua mano e una grossa goccia d'inchiostro si gonfiò in fondo alla sua firma, ma Sakaki non se ne accorse, come non si accorse di aver trattenuto per un attimo il respiro. Seel...

Sì, ricordava tutto. Seel, il nome inciso sulla lapide che aveva ospitato il suo tormento. I suoi occhi l'avevano letto per tutta la notte e sua madre doveva averglielo spiegato... ma erano dodici anni che non ci ripensava!

«Me lo ricordo benissimo» disse seccamente. Concluse la firma con uno svolazzo e staccò l'assegno.

«No, non puoi ricordartelo.»

«Ricordo che me l'hai raccontato.» Sventolò per un attimo l'assegno, per accertarsi che l'inchiostro fosse asciutto, e glielo porse: ora si era dominato a sufficienza da guardarla negli occhi. «Tieni, fanne quel che ti pare.»

«Strappalo, ho detto. Non lo voglio qui. Prenditi pure la casa.»

Questo Sakaki non se l'era aspettato. Certo, aveva previsto proteste, pianti, scenate, netti rifiuti o persino richieste economiche spropositate, ma... questo no.

«Perché?» Non vi fu risposta. «Voglio dire, so che disprezzi i miei soldi. Ma perché mi regali la casa?»

Anche stavolta non vi furono esitazioni, non cedimenti nella voce di sua madre né nel suo sguardo, quando disse molto lentamente: «Vuoi forse farmi credere che non te la prenderesti con la forza, se te la negassi? Preferisco dartela di buon grado, senza pantomime. Tutto ciò che posso fare è rifiutare il tuo denaro.»

Per qualche strano motivo, l'assoluta certezza con cui ella aveva pronunciato queste parole lo ferì profondamente, forse perché egli era consapevole che quella era la verità, anche se non sarebbe mai stato in grado di ammettere neppure nell'intimità del proprio animo a quale estremo di crudeltà era giunta la sua vita. Rimase per svariati secondi immobile di fronte a lei, sbigottito, incapace di articolare parola o di pensare a qualcosa da replicare a quella terribile accusa. Non aveva mai pensato seriamente, in termini concreti, a come avrebbe agito di fronte al suo rifiuto di vendergli la casa, ma in quel momento si rendeva conto che sarebbe stato davvero capace di prenderla con la forza e questa consapevolezza lo riempiva di mortificazione e disprezzo per se stesso: sentimenti, questi, che aveva da tempo dovuto seppellire nel profondo del proprio animo, per andare avanti col perseguimento del suo obiettivo finale...

«Non l'avrei mai fatto» disse, davvero sinceramente in quel momento, e la sua voce suonò più debole e incerta. «Non farei mai qualcosa del genere... alla mia famiglia.» Quest'ultima parola gli costò un notevole sforzo di riflessione per essere pronunciata: non pensava mai a se stesso come al genere di uomo che ha una famiglia in qualche parte del mondo.

«Non ci hai mai considerate la tua famiglia. Non mentire a te stesso: non sei mai stato mio figlio. Ho capito da tempo che il mio Sakaki da quella Torre non era mai uscito...»

«Ma vi sono grato egualmente per avermi accolto.» Per qualche motivo, la sua protesta ebbe un suono debole e poco convinto.

«Sì, lo sei, ma questo non ha significato niente.»

Sakaki si morse le labbra. Non gli veniva in mente niente da replicare e se il suo primo impulso era di affermare con vigore la falsità di quell'accusa, per contro non gli veniva in mente alcuna prova contraria. Era vero che, a parte la gratitudine, non aveva mai provato il benché minimo trasporto verso nessuna di loro; tuttavia...

«Finiamola con queste stronzate. L'assegno lo lascerò qui, fanne pure quel che ti pare. Devolvilo in beneficienza, per quanto mi riguarda.»

Appoggiò ostentatamente l'assegno sul tavolino, ma sua madre non lo degnò di un'occhiata. Bene, non gli importava nulla di quello che ne avrebbe fatto: se gli avesse permesso di risparmiare due milioni, tanto meglio per lui. Si schiarì nuovamente la voce: «Quando pensi che sarete pronte per lasciare la casa? Come ti ho detto, ne ho bisogno il più presto possibile, perciò...»

«Se troviamo un altro posto dove stare, un paio di mesi saranno più che sufficienti.»

«Per la nuova casa non c'è problema, puoi scegliere quella che vuoi.»

«Suppongo che dovrei ringraziarti per la tua generosità.»

Sakaki finse di non aver notato il suo sarcasmo sferzante. Ripose il libretto degli assegni nell'impermeabile e si mise le mani in tasca. «Molto bene. Il mio avvocato ti telefonerà in settimana per le formalità, il notaio e tutto il resto. Tutto in regola, come puoi vedere.»

«Oh, non ne dubito.»

Egli non riusciva a ricordare l'ultima volta che qualcuno si era preso gioco di lui a quel modo, ma in quel momento non gli importava: nessuno era lì per assistervi e lui aveva appena ottenuto ciò per cui era tornato a Lavandonia dopo tutti quegli anni. Perciò protese la mano e disse semplicemente: «Porgi tu i miei saluti a mia sorella, io non posso fermarmi.»

La sua mano restò vuota a mezz'aria. Sua madre incrociò ostentatamente le braccia sul petto, guardandolo con aria di sfida. Sakaki decise di ritirare semplicemente la mano e aprì la porta senza fare una piega. Eppure, prima di uscire, si ritrovò a dire quasi contro la sua volontà: «Mi farai sapere se avrete bisogno di qualcosa.»

Ma dalle sue spalle non gli giunse alcuna risposta ed egli uscì senza guardarsi indietro.

Non aveva ancora raggiunto il cancelletto che il suo autista si precipitò ad aprirgli la portiera, ma proprio quando stava per risalire a bordo, Sakaki cambiò idea.

«Devo andare in un altro posto» disse ruvidamente. «È meglio che ci vada a piedi. Vai ad aspettarmi all'uscita della città, verso l'imbocco del Percorso Otto... c'è uno slargo dove puoi parcheggiare.» Non aveva voglia di essere seguito. Sakaki accarezzò brevemente il capo di Persian, che dormiva oziosamebte sul sedile posteriore dell'auto, poi diede l'ordine di chiudere la portiera e di partire.

Attese che la macchina si fosse allontanata, prima di incamminarsi a sua volta. Erano passate da poco le sei e mezza, considerò mentre camminava a passi lenti, quasi senza accorgersene, verso nord... era tutto come ricordava. Eccola là, la casa del signor Fuji, il maledetto sindaco... il vecchio Centro Pokémon aveva rinnovato l'insegna, ora era assolutamente identico a quelli di tutte le altre città kantensi. La strada verso il Tunnelroccioso avrebbe avuto bisogno di un po' di manutenzione, le erbacce crescevano troppo fitte, le buche erano profonde...

Non si accorse neppure di essere arrivato, forse perché non aveva compreso neppure lui, all'inizio, dove aveva intenzione di andare. Ma quando, sollevando lo sguardo cogitabondo, si ritrovò davanti al pesante portale di legno massiccio con le borchie di ferro, in quel momento aperto, ma ancora per poco, non poté fare altro che scuotere leggermente il capo ed entrare con un sospiro di rassegnazione. Tanti anni prima, in procinto di lasciare Lavandonia, aveva giurato a se stesso che quando fosse rientrato nella Torre Pokémon, sarebbe stato con una Spettrosonda in mano, ma ora che si ritrovava nuovamente lì, si rendeva conto di quanto futile e vano fosse stato il suo proposito. Non avrebbe mai potuto resistere al suo richiamo, il richiamo dell'unica madre che avrebbe mai potuto avere. Aveva potuto ignorarne la voce da Azzurropoli, in quella metropoli così caotica e rumorosa, ma lì, in quella città silenziosa, la chiamata della Torre era troppo forte per rimanere inascoltata.

Non era rimasto quasi più nessuno, i pochi turisti venuti a onorare le tombe dovevano ormai aver abbandonato le aule cupe. Sakaki non era più tornato al suo interno dalla notte in cui aveva aperto gli occhi, ma egualmente i suoi piedi lo condussero da soli lungo le scale, come per una strada nota alla memoria e consunta dall'abitudine. Ricordava tutto di quel mattino e quelle scale glielo richiamarono alla mente con tale dolorosa, vivida intensità che a un tratto dovette fermarsi, aggrappandosi al corrimano, e passarsi una mano sugli occhi per non cedere all'impressione suscitatagli da quei ricordi. Tutto gli tornava violentemente alla mente: le lunghe ore trascorse immobile sulla tomba, la sensazione di gelo contro la pelle nuda; il rumore dei portali che si riaprivano contro la luce del giorno, lo sciamare della folla su per i corridoi, le grida di trionfo, le braccia calde e le lacrime ribollenti di quella donna, che solo dopo aveva scoperto esser sua madre, la coperta ruvida gettata a ricoprirgli le membra... Non c'era stata notte in cui non aveva sognato tutte quelle sensazioni – per non parlare del primo e più importante dei suoi sogni e dei suoi ricordi, l'insostituibile e inestimabile, quello in cui una voce invisibile nella luce abbagliante gli domandava: Qual è il tuo nome?

E allora perché, di tutti questi ricordi che conservava con precisione incalcolabile e che costituivano l'essenza stessa dell'intero suo essere e la cagione di tutte le sue scelte, non aveva mai più pensato a Seel?

Prima ancora di vedere la lapide, avrebbe potuto pronunciarne a memoria l'epitaffio: A Seel, amato compagno di avventure, fino all'ultima ora fedele. E lo recitò egualmente, quando finalmente si trovò davanti alla lastra tombale sulla quale era venuto al mondo...

Rimase a lungo in piedi, immobile, silenzioso davanti a quella semplice tomba. Avrebbe potuto toccarla, sentirne la consistenza dura e fredda sotto le dita, ma non ne aveva bisogno: la ricordava già con eloquente chiarezza su tutto il proprio corpo, come se la stesse saggiando in quel preciso momento. E allo stesso modo avrebbe potuto andare via subito dopo averla vista, ma egualmente rimase lì, con le mani affondate nelle tasche dell'impermeabile nero.

Era per Seel, dunque, che era accaduto tutto ciò. Era per Seel che aveva scelto, in un attimo fatale che aveva deciso per sempre di tutta la sua esistenza, di trascorrere la notte là dentro: allora chissà per quale motivo, quando sua madre gliel'aveva raccontato, non vi aveva dato peso... eppure era per lui, dopotutto, che egli si era ritrovato a fondare il Team Rocket, ad aprire il Casinò di Azzurropoli, a rapire tutti quei Pokémon e rivenderli sul mercato nero, a uccidere quell'uomo...

«È sempre stato per te, dunque» mormorò. «Se non fosse stato per te, tutto questo non sarebbe mai esistito. Come ho potuto credere che non fossi importante, che non girasse tutto intorno a te...»

Che ne sarebbe stato della sua vita, se in quel momento cruciale egli avesse amato un po' meno il Pokémon di suo padre, che ora non ricordava neppure? Che uomo sarebbe diventato il giovane Sakaki? Un uomo onesto, un uomo migliore... Certo, ma non aveva senso chiedersi ora tutto ciò. Era sempre stato chiaro che quel ragazzo stupido e sentimentale era morto quella notte senza aver mai rivisto la sua mamma e averle chiesto scusa per il dolore che le aveva arrecato, mentre l'uomo che quella notte era nato su quella tomba non aveva niente a che fare né con lui, né con quella donna, né con Seel. Eppure...

Si massaggiò la fronte con la mano e poi gettò uno sguardo al suo orologio da polso d'oro. Erano quasi le sette, ma in quel momento la sua attenzione fu richiamata da un altro pensiero che lo colpì come se fosse d'importanza fondamentale: se non fosse stato per Seel, non avrebbe mai posseduto quell'orologio. Era un pensiero stupido, persino ridicolo, ma in quel momento assurdamente doloroso, tale da dilacerargli quasi il petto: quale sarebbe stato il più felice, tra l'uomo vivo che possedeva un orologio d'oro e quello, morto, che avrebbe invece serbato memoria di un Seel ormai scomparso, perduto negli abissi del tempo?

«Se non fosse stato per te...! Se non fosse stato per te...!»

Le sue parole echeggiarono tra le volte ricurve tanto a lungo che non sembrarono neppure più le sue proprie parole, ma come pronunciate dalle mura stesse. Era già successo, tanti anni prima, che le sue parole stesse echeggiassero su quelle medesime pareti e ritornassero a investirlo, a ricordargli che nessuno mai avrebbe risposto alle sue domande... E ora la tomba stessa pareva schernirlo, Sakaki avrebbe potuto giurare di sentirla ridere della sua domanda e incalzarlo: Cosa saresti stato, se non fosse stato per me?

Sakaki si volse seccamente per andarsene in un turbinio di stoffa nera. Era stato un errore venire lì, ora lo sapeva, la Torre lo aveva ingannato un'altra volta: non gli avrebbe mai dato alcuna risposta, se non quella che lui solo le avrebbe strappato con la forza.


   
 
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