Buonasera/Buongiorno a
tutt* voi che state seguendo questa storia! Innanzitutto, scusate
immensamente per il ritardo di pubblicazione. Ho avuto due settimane in
cui persino trovare il tempo per respirare era diventato complicato.
Solo io so quante volte avrei voluto mettermi a scrivere questo
capitolo e, invece, mi sono trovata intrappolata in mille altre
faccende che mi hanno privato della facoltà di mettermi
tranquillamente davanti al PC a comporre. Per cui mi scuso di aver
abusato della vostra pazienza e spero di farmi perdonare con questo
capitolo!
In secondo luogo, come
sempre, è più che doveroso ringraziare la
dolcissima (nonché meravigliosa) Ida, ancora di salvezza in
queste due settimane, sostenitrice indefessa delle mie idee folli e
coraggiosissima compagna di visioni telefilmiche serali, senza la
quale, sappiatelo tutt*, sarei probabilmente morta alla seconda puntata
di Parade's End. Quindi, grazie a te, Ida, che mi sopporti ancora e che
sostieni sempre questa follia (nonché la Guixon ^^) e che
stai sostenendo persino la prossima che la mia mente malata sta
partorendo!
Non mi resta che
augurarvi...buona lettura!
Il
bagno è una stanza particolare.
Effettivamente, se uno ci pondera sopra, è la stanza dei
segreti che non puoi
semplicemente esprimere in cucina o in soggiorno, ma neanche di quelli
intimi
che esprimi solo nel cantuccio della camera da letto. Il bagno
è la stanza di
quei segreti che ti tieni dentro finché non vengono
rilasciati sotto la cascata
d’acqua calda della doccia.
E la
doccia del 221B Baker Street era la
custode di molti di questi segreti.
Cominciamo
col dire che, nonostante il
suo lavoro, che a volte era davvero poco gratificante, era una doccia
piuttosto
pudica e che, le prime volte che era successo quello che era successo,
si era
sentita estremamente mortificata di avervi assistito. Si ripeteva che
non era
colpa sua, ovviamente, ma detestava violare così
l’intimità dei suoi
coinquilini. Non che ci potesse fare molto, in realtà. Lei
era fissata da una
mano di cemento al muro e di certo non poteva andarsene quantunque lo
desiderasse.
Si
ricordava, innanzitutto, di qualcosa
di molto particolare all’inizio della sua esistenza al 221B,
quando Sherlock
Holmes, il nuovo inquilino dell’appartamento, era entrato in
bagno e aveva
piazzato una gamba umana sotto il suo getto bollente. Per una doccia
come lei,
che negli anni precedenti ne aveva viste sin troppe, fu comunque una
visione
sconvolgente. La gamba era rimasta lì, sotto il flusso di
vapore che man mano
diminuiva d’intensità, per un paio
d’ore, finché l’uomo di nome Sherlock
Holmes
– una testa di capelli ricci e neri che, ammetteva, le
piacevano parecchio e
non vedeva l’ora di ammirarli più da vicino
– non era tornato e aveva dato un’occhiata
soddisfatta all’arto. Aveva persino fatto un sorrisetto
malizioso, prima di
esclamare, giubilante:
“Avevo
ragione!”
Aveva
pensato, inizialmente, che quel
Sherlock Holmes, sebbene un po’ strano, fosse un uomo felice.
Aveva presto
scoperto che non lo era.
Era un
ricordo triste, che le faceva
arrugginire i tubi un po’ di più ogni volta che ci
pensava.
Una
sera era arrivato a casa e si era
trascinato in bagno. Lei aveva seguito i suoi passi strascicati da
quando era
entrato dalla porta fino al momento in cui aveva aperto il suo
rubinetto,
guardandolo con gli occhi più vuoti e distanti che mai.
Aveva lasciato scorrere
l’acqua, senza emettere una sola parola. Poi si era sistemato
sotto il getto,
appoggiando la schiena alle fredde piastrelle, e si era lasciato
scivolare
verso il basso, finché non si era accoccolato in silenzio
sul pavimento di
ceramica, singhiozzando.
“Perché?”,
aveva semplicemente detto.
Poi
più nulla, tranne le lacrime che si
mischiavano all’acqua che usciva dal soffione. La doccia, che
avrebbe tanto
voluto consolarlo, non sapeva proprio come fare. Non aveva braccia per
stringerlo, né una voce per dirgli parole di conforto.
L’unica cosa che poté
fare di sua volontà, a gran fatica, fu quella di aumentare
leggermente la
temperatura dell’acqua, in modo che sentisse calore. Ma la
doccia sapeva che
quell’uomo distrutto sul suo pavimento non aveva bisogno del
calore dell’acqua.
Aveva bisogno di calore umano.
E
ricordava felicemente il giorno in cui John
Watson era entrato nella vita di Sherlock Holmes, perché
John Watson era tutto
quello di cui Sherlock avesse mai avuto bisogno. E perché
Sherlock Holmes era
tutto ciò di cui John Watson avesse mai avuto bisogno.
Lo
notò immediatamente, già nei primi
giorni della loro convivenza. Sherlock pareva rinato. Entrava la
mattina in
bagno fischiettando, canticchiava mentre faceva la doccia, passava
più tempo a
sistemarsi i riccioli allo specchio.
E lo
stesso faceva John Watson.
Quello
che non riusciva a capire, però,
era a quanto ammontasse il livello di complicità che ci
fosse tra i due. Si
vedeva che erano fatti l’uno per l’altro, ma
nessuno dei due sembrava prendere
l’iniziativa, né confessare
l’inconfessabile. Nemmeno a lei che, di certo,
sapeva come mantenere un segreto.
Questo
fino ad un giorno in cui Sherlock,
probabilmente nervoso per qualcosa che lei – era una doccia,
non ci si poteva
aspettare determinate intuizioni da lei, essendo troppo rigida
– non riusciva a
capire, era entrato come una furia in bagno e aveva tirato con forza i
due
pugni sul ripiano di marmo del lavandino. Il detective le voltava le
spalle, ma
dal riflesso nello specchio vide chiaramente delle lacrime che gli
solcavano il
viso.
“Perché?”,
aveva urlato con forza, la
voce che gli usciva spezzata “Perché non capisce
che…”
Ma si
era interrotto e si era diretto
verso di lei. La violenza con cui aveva aperto il rubinetto, la doccia,
non l’avrebbe
mai dimenticata. Il freddo metallo della manopola aveva tremato, quasi
divelto
dal muro dalla forza di Sherlock Holmes e lei aveva provato una fitta
di dolore
al tubo dell’acqua calda. Il detective si era strappato i
vestiti di dosso,
tentando di trattenere rabbiosamente le lacrime. Poi, sotto il flusso
d’acqua
che scioglieva tutte le tensioni, si era lasciato andare.
“Perché
non capisce che lo amo?”, aveva
confessato.
Già,
disse tra sé e sé la doccia, poteva
mentire di fronte a John. Poteva indossare la maschera impassibile che
portava
sempre di fronte a John. Poteva fingere che non ci fosse nulla di
fronte a
John. Ma nella solitudine, ai mobili, non si poteva mentire. E la
confessione
fu una liberazione per il detective, perché si
lasciò andare ad un istinto che
lei non poteva sopportare, da tanto pudica era, ma che era consapevole
che
significava un’unica cosa: Sherlock era definitivamente,
inequivocabilmente
attratto da John.
Infatti,
e lo ricordava bene perché il
detective non aveva mai fino ad allora ceduto ai suoi istinti, le mani
di
Sherlock erano scese lentamente verso il basso, fino
all’inguine. Un tocco dopo
l’altro si era appoggiato con la schiena al muro, la testa
inarcata all’indietro,
gemiti sempre più annaspati man mano che la climax saliva,
finché, in un ultimo
tocco, aveva urlato il nome di John, quasi mordendosi il labbro per
trattenerlo, non riuscendoci. Aveva finito per piangere anche quella
volta, in
silenzio, mentre l’acqua lavava via le sue lacrime.
“Ti
amo…”, aveva sussurrato
“…perché non
lo capisci?”
Poi,
quasi imbarazzato da quello che era
successo, se n’era andato in silenzio, chiudendo
delicatamente l’acqua, senza
guardare verso la doccia, testimone scomoda di qualcosa che non sarebbe
dovuto
succedere. O così aveva pensato lei, osservando lo sguardo
colpevole sotto ai
riccioli neri ancora bagnati.
Ma si
disse lei, ancora un po’ sconvolta
e leggermente accaldata per quello che era accaduto, che era
impossibile che
John capisse se Sherlock non glielo diceva. E di cosa aveva paura, poi?
Era
così evidente che anche John era irresistibilmente attratto
da Sherlock, molto più,
forse, di quanto Sherlock era attratto da John. Vero che,
però, era anche
immensamente più testardo.
Lo
aveva capito alcuni giorni dopo la
vicenda di Sherlock. Già c’erano state,
ovviamente, delle avvisaglie. Il fatto che
John entrasse all’improvviso in bagno facendo finta di aver
dimenticato
qualcosa mentre Sherlock era avvolto solo in un minuscolo asciugamano,
per
esempio. O il fatto che gli lanciasse occhiate tanto inequivocabili che
persino
un mobile duro di comprendonio come il lavandino aveva capito che ci
fosse
dietro qualcosa. Ma John – e lei un po’ lo odiava
per questo – era più testardo
di un mulo.
La
scena che fece quel giorno entrando in
bagno sembrò una copia sputata di quella fatta da Sherlock
alcuni giorni prima.
L’unica cosa che era mancata erano le lacrime. Si era
lanciato con forza sotto
di lei, senza neanche aprire il rubinetto dell’acqua calda. E
se John faceva
una doccia fredda, lei sapeva, poteva significare una sola cosa: era
arrabbiato.
“Quel…quel…quanto
lo odio!”, aveva urlato
con quanto fiato aveva in gola “Ma cosa crede? Che io sia un
burattino? Non ho
amici, vero? E io cosa cazzo sono?”
Aveva
poi afferrato con forza lo shampoo
e con altrettanta forza aveva cominciato a lavarsi i capelli.
Più
correttamente, aveva pensato la doccia, a scartavetrarsi il cuoio
capelluto da
tanta violenza ci stava mettendo. Poi aveva improvvisamente appoggiato
la
fronte contro il muro e aveva tirato una serie di testate, con
intensità sempre
maggiore, tanto che la doccia aveva vibrato in tutte le sue parti e
aveva fatto
fatica a non lasciar andare un pezzo di calcestruzzo che già
era pericolante e
che ora, con tutte quelle vibrazioni, rischiava davvero di finire a
terra.
“Io
sono scemo!”, aveva urlato ancora
John, morsicandosi il labbro.
E, di
nuovo, in una perfetta fotocopia di
quello che aveva fatto il suo coinquilino, le sue mani avevano
viaggiato verso
il basso. Ad ogni tocco, in questo caso, era seguito un improperio.
“Cazzo,
Sherlock.”, aveva mugolato,
rabbia e piacere mescolatisi insieme.
“Dannazione!”,
aveva gemuto,
aggrappandosi con la mano sinistra al pomello del rubinetto e
stringendolo così
forte che la doccia credette per un secondo che la mano di John potesse
diventare parte di sé.
“Sh-sherlock!”,
aveva, infine, urlato
annaspando.
Anche
in questo caso si vergognò
tantissimo di essere stata testimone di tutto quello. John, uscendo
dalla
cabina, la guardò con rabbia e disprezzo come se fosse colpa
sua quello che era
appena successo. E si rivolse persino a lei con dure parole.
“Io.
Non. Sono. Gay! Capito?”, le urlò
contro.
Poi,
però, mentre prendeva l’accappatoio,
in un sussurro aggiunse:
“Però
amo Sherlock Holmes. E ora, come
faccio? Lui non sa nemmeno…”
Ma
aveva lasciato la stanza prima di
concludere il discorso.
Si era
sentita impotente per l’ennesima
volta in quel momento. Lei, un insieme di piastrelle, mattoni, acciaio
e
cemento, non poteva fare nulla per avvicinarli. Non aveva la
capacità di
esprimere ciò che provava, non la possibilità di
confessare ciò che pensava. I
segreti che custodiva dell’uno e dell’altro, se non
fossero stati confessati
dai due, sarebbero morti con lei il giorno in cui qualcuno
l’avrebbe
smantellata. Quel giorno, si ricordava bene, non riuscì a
trattenere le lacrime
a quel pensiero e un copioso flusso di lacrime continuò ad
uscire dal soffione.
Dovettero chiamare l’idraulico per sistemare la faccenda e
lei, poverina,
dovette far ricorso a tutta la forza di volontà che aveva
per smettere di
frignare.
E le
era anche venuto da piangere ben più
di una volta nei due anni in cui Sherlock era…morto. La
notizia gliel’aveva
portata John la sera stessa. Ubriaco fradicio, si era sistemato sotto
il getto
d’acqua gelida ed era rimasto lì, immobile. Aveva
capito senza bisogno di
parole. E aveva pianto in silenzio di notte, gocciolina dopo gocciolina
che
ticchettava sul pavimento di ceramica. E aveva pianto quando una sera
John si
era quasi…no, era meglio non ricordare quella volta. Faceva
troppo male.
Ricordava
altrettanto bene, tuttavia, il
giorno in cui tutto, finalmente, era andato per il verso giusto.
Anche
in quel caso era stato un diluvio
di lacrime per cui avevano dovuto chiamare l’idraulico, ma
furono lacrime di
gioia. E ne avrebbe piante ancora, e ancora, e ancora.
Perché di lacrime così
belle, nonostante l’imbarazzo, ce n’era sempre
bisogno.
Quel
ricordo cominciava con Sherlock che
era entrato in bagno. Sì, quello Sherlock che doveva essere
morto e che,
invece, con sua enorme sorpresa, un giorno si era ripresentato vivo e
vegeto
alla porta. Lo aveva odiato per quello che aveva fatto a John, talmente
tanto
che, ogni qualvolta facesse la doccia, si divertiva a regolare male il
flusso
dell’acqua, facendogli fare o docce gelide o docce bollenti.
Ma poi John lo
aveva perdonato e, anche se un po’ riluttante, lo aveva fatto
anche lei.
Sherlock
era entrato in bagno e si era
spogliato, gettando le mutande sul pavimento e aprendo
l’acqua della doccia.
Neanche un minuto dopo, pure John era entrato in bagno. E, vedendo
Sherlock
nudo, non aveva improvvisamente richiuso la porta con aria colpevole
come
faceva di solito. Questo la aveva lasciata perplessa, tanto che,
distraendosi,
l’acqua le era sfuggita dal controllo ed era diventata
improvvisamente
bollente, ustionando il povero Sherlock che stava cercando di capirne
la
temperatura.
“Ahia!”,
aveva urlato.
John
gli si era avvicinato e con una mano
gli aveva accarezzato i riccioli neri, sussurrando:
“Ti
sei fatto male, amore?”
“Questa
dannatissima doccia!”, aveva
sbuffato Sherlock “Ci dev’essere ancora qualcosa
che non va nella regolazione!”
“Lascia
che faccia io…”
E John
aveva dolcemente preso in mano la
mano di Sherlock, l’aveva accarezzata e, portandola alle
labbra, l’aveva
baciata con delicatezza. Sherlock aveva sorriso e lei, emozionatissima,
aveva
di nuovo perso il controllo della regolazione. Ci mise un attimo per
riprendersi, mentre Sherlock aveva allontanato la mano di John e si era
chinato
leggermente per baciarlo sulle labbra. Da quella posizione favorevole
poteva
vedere tutto e le divenne terribilmente difficile concentrarsi sul
calore dell’acqua,
intanto che i due intersecavano i loro corpi l’uno
nell’altro, con lingue che
scivolavano l’una nell’altra, finché
anche le mutande che indossava John
caddero sul pavimento, unite con quelle di Sherlock che già
giacevano lì. Rosso
e grigio. La perfetta combinazione.
E John
aveva trascinato Sherlock dentro
la doccia, ridendo allegramente mentre il getto d’acqua li
bagnava entrambi.
Sherlock aveva spinto John contro la parete, appoggiandovi contro tutto
il suo
corpo e affondando la faccia nell’incavo della spalla del
biondo che lanciò un
piccolo urlo di piacere.
“Non
sei ancora stanco dopo stanotte?”, aveva
detto John con un sorrisetto, mentre leccava il collo del detective.
“Devo
recuperare il tempo perduto…”,
aveva risposto con voce più calda che mai Sherlock.
Lei,
la doccia, era arrossita
violentemente. Certo, fortunatamente il rossore non lo si poteva vedere
dall’esterno,
ma lei lo sentiva nel calore sempre crescente delle sue tubature, tanto
che
dovette trattenersi più che poté per evitare che
l’acqua raggiungesse
temperature ustionanti.
Sherlock
era crollato in ginocchio e
aveva cinto i fianchi di John con le sue braccia.
“Ti
amo”, aveva sussurrato, appoggiando i
suoi ricci neri contro l’interno della coscia di John.
John
aveva abbassato le mani fino ad
accarezzargli i capelli, poi, poggiandola sotto al mento, lo aveva
guidato dolcemente
fino a farlo rialzare, fino a far incontrare i loro occhi azzurri,
persi gli
uni negli altri. E si erano baciati di nuovo, con più forza,
con più passione,
con violenza. Quasi a volersi divorare, a voler rimarginare tutte le
ferite, a
voler recuperare tutti i giorni che avevano perso. E, nudi, si
pressarono l’uno
contro l’altro, spasmodicamente, affanno dopo affanno, nome
sussurrato dopo
nome sussurrato finché l’appartamento
echeggiò all’unisono del loro piacere.
“Sherlock!”
“John!”
Due
nomi che, dal momento in cui si erano
incontrati, erano stati destinati ad essere uniti ed ora, finalmente,
lo erano.
La
doccia ne fu talmente felice che
pianse di gioia per i tre giorni successivi. Perché
c’erano cose per cui valeva
la pena gocciolare.
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