Come le onde del mare nel loro immutabile
fluttuare a volte rendono ciò che hanno sottratto alla Terra, in egual maniera
le onde del destino nel loro divenire dal passato al presente, talora
restituiscono quello che un tempo ci hanno portato via.
8
Attenzione,
nel presente capitolo sono descritte immagini e sentimenti forti che potrebbero
turbare l’altrui sensibilità.
LOST
La mattina dopo come suo solito Harlock scomparve, Helèn non
lo vide per tutto il giorno. Fu dura per lei. Aveva dolori diffusi su tutta
l’epidermide ed i metodi che usava di solito non sortirono effetto.
Yattaran sempre attento si rese conto che Helèn non stava
molto bene. Ma lei non poté spiegare nel dettaglio l’origine del suo malessere.
“Ma io ho un rimedio!” fece lui, felice di poterla aiutare
tornando poco dopo baldanzoso dalla sua stanza, con due pillolette anonime in
mano.
“Non prendo medicinali” fece gentile Helèn. Le medicine avevano
strani effetti su di lei.
“Ma le ho comprate su Centuriun, lo sanno tutti che lì ci sono
i migliori medici” disse alzando l’indice destro.
Helèn decise di accettarle per farlo contento e perché non
sapeva più che fare per il dolore. Guardò a lungo le pillole nel palmo della
sua mano indecisa sul da farsi.
Le prese.
Era nell’infermeria quando cominciò a sentirsi malissimo. Tutto
iniziò con dei disturbi della vista, inizialmente li archiviò come stanchezza,
poi iniziò a girarle la testa ed uno stano torpore iniziò ad impossessarsi di
lei. Era scossa da lievi tremori e sentì il bisogno di stendersi. Utilizzò il
tavolo di metallo delle visite. La colsero delle ondate di gelo, si coprì con
un grande lenzuolo che teneva sul tavolo e lentamente entrò in quello che a lei
parve essere una specie di coma.
Avrebbe voluto chiedere aiuto ma l’interfono le parve
irraggiungibile. Cosa gli stava accadendo? Sentì i battiti del cuore lentamente
diminuire. Cercò con tutte le sue forze di restare sveglia ma non vi riuscì.
Perse conoscenza. Precipitò lentamente, inesorabilmente in una sorta di oblio.
Era buio e freddo, si guardò intorno, era in una specie di
immenso labirinto, iniziò a correre cercando una via d’uscita, ma per quanto
corresse era sempre troppo lontana. Poi scorse Harlock. Lui sparì. Ad ogni
angolo vedeva il suo mantello, correva, correva, ma quando le sembrava d’averlo
raggiunto lui era da un’altra parte. Lo chiamava ma non udiva il suono della
sua voce. Lui non si voltò mai. Un senso di angoscia e solitudine la pervasero
mentre l’inconfondibile rumore dei passi di lui lo portavano via da lei.
Quando riaprì gli occhi era confusa, indolenzita, potevano
essere passate due ore come due giorni. Si guardò lentamente intorno era
nell’infermeria, per terra, completamente coperta dal grande lenzuolo. Doveva
essere caduta.
Si sollevò piano tenendosi al bordo del tavolo, lentamente la
vista iniziò a farsi salda. Aveva la bocca
impastata. La testa le girava ancora. Un senso di nausea la coglieva ad
ondate. Bevve con le mani dell’acqua dal piccolo lavandino di metallo alle sue
spalle poi se le passò sul viso e dietro al collo. Ma cosa le era accaduto?
Ricordò lentamente. Le due pillole, il malore che ne era seguito.
Alzò il capo per massaggiarsi il collo, così facendo notò
qualcosa di assolutamente inspiegabile. Qualcosa che la lasciò sconcertata.
Sbatté le palpebre più volte incredula.
La piccola fila di pensili di metallo lungo la parete sul
piccolo lavello era crivellato di colpi. Come era possibile? Forse non era
sveglia. Vi passò incerta sopra le dita, non poteva essere ma, erano senza
dubbio colpi d’arma da fuoco. Era confusa, non capiva. Il cuore iniziò a
batterle forte, cominciò a guardarsi intorno velocemente, anche sul muro e
sugli altri pensili c’erano segni di arma da fuoco. Non riusciva a spiegarselo.
Ma cosa era accaduto? Un attacco? E lei? Lei di certo cadendo dietro al tavolo
completamente coperta dal lenzuolo non era stata vista. Ma chi? Chi era
l’autore? Helèn era come stordita, impaurita. Doveva capire.
Prese le sue armi dalle fondine e si avviò guardinga alla
porta. Non appena l'ebbe aperta un acre e pungente odore di fumo la colpì forte
come uno schiaffo, paralizzandola. L’ansia esplose. Intorno a lei il silenzio
era assordante. Poteva significare soltanto che, qualunque cosa fosse accaduta,
ora, era terminata. Iniziò ad avanzare lentamente con circospezione controllando
visivamente ogni punto, coprendosi le spalle come era stata addestrata a fare.
Nessuno, nessun suono. Continuò la ricognizione vigile, attenta, diretta al
ponte di comando. Nel corridoio tracce evidenti di lotta ed alcune armi, nessun
corpo. Man mano che avanzava il fumo si faceva più denso, passandovi accanto
guardò meccanicamente fuori da uno degli oblò. Si bloccò. L'Arcadia si muoveva
lentamente, era come se… il sangue le si raggelò. L'Arcadia stava andando alla
deriva.
Ma come era possibile? Arrivò in plancia non sapendo neppure
lei cosa aspettarsi, aveva la gola secca, gli occhi le bruciavano a causa del
fumo. Nessuno! La calma che vi regnava era assurdamente irreale. Il grande
timone si muoveva lentamente, abbandonato a se stesso, ruotava piano a destra e
poi a sinistra, producendo tetri scricchiolii del legno. L’Arcadia era
lievemente inclinata su un lato ed il grande motore a Dark Matter era spento.
Helèn smarrita strinse d’impulso con una mano il timone per
fermarlo, quasi che l'antico legname
avesse potuto rivelarle cosa fosse successo. Si guardò intorno. I monitor erano
tutti spenti e da quelli infranti venivano fuori luminose scariche elettriche.
Helèn si guardò intorno disorientata. Ansimava, il cuore pareva impazzito.
Sulle pareti erano visibili sventagliate di proiettili. Ma dove erano tutti?
Guardò implorante il trono, vi si avvicinò piano, misurando i passi. Nel centro
all'altezza del capo di Harlock vi era conficcato un pugnale, come per un tiro al
bersaglio. Lo tolse con rabbia scaraventandolo in terra. La paura fredda
spettatrice sorridendo sadica le carezzò il viso, Helèn rabbrividì. Harlock
dove sei?
Iniziò a correre senza neppure rendersene conto, i sensi
allertati, verso gli alloggi della ciurma. Spalancò tutte le porte, una dopo
l’altra, rapidamente. Nessuno. Era come se fossero stati appena lasciati dai
loro occupanti. Poi si recò nella grande mensa e negli ambienti comuni dove aveva
sempre trovato qualcuno. Al posto del solito allegro vociare l’accolse una
piatta quiete. Non c’era nessuno. Tutto era stato messo sottosopra. Iniziò a
chiamare “Kei, Yattaran, ragazzi mi sentite? dove siete?”. Corse nel piccolo
teatro dove a volte si tenevano le riunioni, vuoto. La calma era spettrale.
Si recò allora al piano inferiore dove erano le stanze di
detenzione ed i magazzini. La temperatura era elevata e poi arrivò il fuoco. Giù
in fondo c’era una falla, gridò tra l’aria tremula, attese qualche secondo, gridò
ancora ma le fiamme inghiottirono la sua voce. Nessuna risposta. Azionò gli
idranti come le era stato insegnato e chiuse alcune paratie. Si accasciò alla
parete chiusa, sconfortata ed incredula. Dove erano tutti? Annaspò, si guardò
intorno sperduta, era di nuovo sola come quando era stata chiusa nella cella
criogenica. Strinse le mani alle spalle per darsi coraggio. Era sola. Gli occhi
le si velarono di lacrime. Si fece forza scacciando quella sensazione dal
retrogusto di morte. Corse quindi al boccaporto dove erano alloggiate le
navette. La sua ultima speranza. Attese con ansia che il portellone si aprisse.
Non c’erano più! Si portò istintivamente una mano alla gola.
Il panico alleato della paura gliela strinse forte, si guardò a destra e poi a
sinistra, il cuore ormai le batteva all’impazzata, non potevano esser andati
tutti via… senza di lei, e perché? Si concentrò sul suo respiro per tornare
lentamente padrona di sé. Harlock non avrebbe mai abbandonato l’Arcadia al suo
destino mai! Decise quindi di andare nel cassero di poppa dove erano i suoi
alloggi.
Corse, corse veloce. Spalancò la porta di colpo, il fiato
corto, per un istante lo vide dietro la scrivania. Un’illusione. Tutto era
sottosopra. Qualcuno aveva frugato senza ritegno tra le sue cose. Di lui non
c’era traccia. ‘Harlock dove sei?’
Nella sua camera, sul letto, uno dei suoi maglioni neri. Lo
prese e se lo portò al viso. Aspirò profondamente quell’ indumento che sapeva
di lui come ogni cosa là dentro. Gli occhi le si riempirono di lacrime ma le
ricacciò indietro. Inspirò forte. La disperazione l’attanagliò. Strinse forte i
pugni. Non aveva alcun senso abbandonare così l’Arcadia, lasciandola al suo
destino, alla deriva nell’Universo come una nave fantasma. Qualcuno era salito
a bordo costringendoli a farlo, ma chi? CHI?
Doveva calmarsi, ragionare a mente fredda. Tornò indietro
stavolta lentamente, sconfitta. Mentre camminava piano, un passo dietro
l’altro, le braccia abbandonate lungo i fianchi, la pistola ciondoloni nella
mano, mille ipotesi le si affacciarono alla mente. Ma nessuna plausibile.
Guardò fuori da uno degli oblò, fuori lo spettacolo di stelle era immutato.
“Dove siete?” sussurrò. Vide nel riflesso una lacrima scenderle lungo una
guancia. Doveva tornare in plancia ed azionare il dispositivo di allarme
generalizzato che avrebbe richiamato la nave più vicina ma questo avrebbe
voluto dire consegnare l’Arcadia alla Gaia Sanction. Non poteva farlo. Continuò
a camminare accompagnata solo dall’eco dei suoi passi.
Si ritrovò davanti alla stanza degli allenamenti, vi era già
passata senza entrarvi. Ma stavolta qualcosa attirò la sua attenzione. Dal
disotto della porta fuoriusciva un rigagnolo oscuro. Capì subito cosa era, ne
aveva riconosciuto la densità, ma si piegò a toccarlo, l’annusò sulle dita.
SANGUE! Un brivido le percosse rapido la schiena, rabbrividì. Un segno di vita
ma anche un cattivo presagio.
Le tempie pulsavano veloci, la paura l’abbrancò come una
fiera tenendola stretta. Inspirò ed impugnò l’arma con entrambe le mani,
circospetta, con fare guardingo lasciando la porta a protezione delle spalle,
la spalancò.
Nulla. Si voltò, e con lo sguardo seguì lentamente quel
rivoletto di sangue sul pavimento per capirne l’origine. I battiti del suo
cuore scandivano il tempo. Camminava piano, quasi a rallentare l’inevitabile.
Ma ciò che vide la terrorizzò. Si bloccò.
Vi era una enorme pozza di sangue formata da gocce che
cadevano irregolari dall’alto. La sua mente si rifiutava di accettare
razionalmente quell’immagine ‘il sangue non cade dall’alto’. Alzò lentamente lo
sguardo e… vide!
Vide quello che mai avrebbe voluto vedere. Mai. Un urlo
atroce le strappò la gola morendo ancor prima di nascere. Vacillò, l’arma le
cadde dalle mani prive di forza, le gambe non la sostennero. Cadde in
ginocchio, avrebbe voluto distogliere lo sguardo ma non poteva, non ci
riusciva. Ciò che i suoi occhi le riportavano non era vero non poteva esserlo.
Era pietrificata. NO, non poteva essere. Non poteva essere.
Scuoteva la testa, il
cuore letteralmente impazzito. Si portò le mani alla bocca tenendovele premute
forte per soffocare un lamento atroce e profondo di dolore. Dolore senza fine
che stava traboccando dal suo essere e che fece vibrare ogni singola corda del
suo sentire. Gli occhi le si riempirono di lacrime, quasi a nasconderle ciò che
non volevano accettare. Tremando tese una mano.
Harlock era li. Inerme, in catene.
Lo avevano incatenato in alto per la vita, per le spalle,
collo, polsi, gambe, dorso. La testa inclinata priva di vita, i capelli gli
coprivano interamente il volto, se ne percepiva appena il profilo. E sangue,
sangue ovunque. Helèn scuoteva il capo. NO, non poteva crederci, lo avevano
usato come bersaglio umano dopo averlo incatenato e lasciato lì agonizzante. Ma
chi? Chi aveva potuto tanto? Lente ed inesorabili stille di sangue lasciavano
il suo corpo, la sua vita, finendo in terra.
Rabbia e disperazione si impossessarono di lei e preso il
graviti saber di Harlock, che giaceva in terra, con ceco furore tagliò una dopo
l’altra quelle catene.
“Noo. La libertà in catene noo”. Gridò con tutta se stessa. Gli
occhi le ardevano dalle lacrime. Il corpo inerme di lui le cadde addosso. Entrambi
finirono sul pavimento. Helèn percepì l’odore dolciastro del sangue di Harlock
su di lei.
Lo girò piano, trepidante, dilaniata dall’ansia nel cercare
di capire ciò che aveva orrore di scoprire. Era ancora vivo? Le mani le
tremavano, come mai nella sua vita, il cuore fremeva impazzito per lo strazio, gli
occhi carichi di lacrime le appannavano la vista, la sua anima urlava parole
che non capiva. Con movimenti maldestri aprì il corpetto e poi il giubbino in
pelle. Sotto vi era solo sangue. Provò a sentire un battito, sporcandosi il
volto di sangue. Nulla. Nulla. Non era lucida.
Lo tirò a sé abbracciandolo e gridando folle di dolore. “Noo”.
Lo immaginò sprezzante e fiero mentre tolto il mantello lo
legavano. Conservando sino alla fine la grande dignità di uomo e leader
carismatico quale era. Strinse al petto disperata quel corpo inanimato.
Piangendo il suo dolore infinito.
Poi, un impercettibile lamento.
Era vivo, vivo!
“Harlock che ti hanno fatto? Che ti hanno fatto?” chiese quasi
supplicando. Doveva salvarlo ma non riusciva a formulare pensieri compiuti,
solo una frase continuava a ripetere all’infinito guardandolo, piena di rabbia
e frustrazione ‘lo hanno usato come bersaglio. Come bersaglio…’ come avevano
potuto e perché? Solo questo era riuscita a capire dal numero incredibile di
ferite. Volevano infliggergli una morte lenta ed atroce.
Corse a prendere una barella su cuscinetti d’aria che usavano
per il trasporto di feriti, non fu facile mettercelo su. “Resisti, resisti non
arrenderti, non arrenderti” continuava a ripetere meccanicamente a lui o forse
a se stessa. “Sei forte lo so!” Lo liberò dalle catene scaraventandole via con
rabbia, lontano. Helèn respirava male, l’emozione le impediva di coordinare i
movimenti come avrebbe voluto. Preparò una mascherina d’ossigeno da mettergli.
Per farlo dovette scostare i capelli dal viso. Distolse per un istante lo
sguardo, non riusciva a vederlo così. Il volto eburneo esanime, il capo
abbandonato di lato, la fronte sempre corrugata, inanimata, le labbra
lievemente dischiuse, l’occhio sempre vigile e pronto dietro una palpebra
chiusa. Una ferita di striscio tra i capelli aveva creato una traccia di sangue
rappreso che andava dalla fronte al naso a parte del viso. Helèn la pulì con
dita esitanti. “Ti supplico non arrenderti amore mio” sussurrò senza rendersene
conto.
Si riebbe, stava solo perdendo tempo prezioso. Raggiunse la
sala operatoria annessa all’infermeria. Ma ciò di cui si rese conto distrusse
tutte le sue speranze. Rimase impietrita davanti all’ingresso.
La sala operatoria era semidistrutta, strumenti, congegni,
apparati, presidi diagnostici e biomedici, persino le scorte di plasma. Tutto
era stato barbaramente distrutto. Helèn annaspò, si guardò intorno e poi ancora
ed ancora. Tutto iniziò a girare, non ce la faceva a sopportare tutto questo.
No, era troppo! Stava quasi per perdere i sensi quando risentì la voce di Meeme
‘Dovrai essere forte Helèn, o non ci sarà un futuro per nessuno di noi’. Volse
lo sguardo ad Harlock su quella barella, gli strinse una mano come avrebbe
fatto lui se fosse stato accanto a lei per infonderle coraggio. Strinse i
pugni. ‘Forza Helèn tu sai operare anche senza tutta questa strumentazione lo
hai imparato sulla Terra, tanto tempo fa, devi solo ricordare.’ Ma ricordare
faceva male, tanto male. Doveva riportare in vita ricordi che aveva sepolto
perché troppo dolorosi. ‘Fallo per lui, per Harlock.’ Si ripeteva. Sistemò
velocemente ogni cosa meglio che poté.
Non restava molto tempo. Si lavò le mani nel piccolo
lavandino di metallo che in un istante si riempì di liquido rosso. Sangue. Il
sangue di Harlock. Le lacrime scendevano da sole e non riusciva a fermarle perché
ogni fibra del suo spirito tremava livida. Strinse forte il bordo del piccolo lavabo
fino a che le nocche non le divennero bianche, l’angoscia per quello che si
apprestava a fare le mozzava il fiato.
Alzò il capo al cielo pregando. ‘Non pensare che sia lui. Non
pensare che sia lui o non ce la farai’ si ripeteva. Respirò a fondo e respirò
ancora. Prese tutto quello che era rimasto intatto, doveva pensare freddamente
o non sarebbe stata in grado di agire per il meglio. Con un bisturi iniziò a
tagliare gli abiti di Harlock, con un rispetto ed una reverenza quasi sacrale.
Iniziò le operazioni di sedazione e preparò una flebo con l’anestetico ed un
antibiotico. Guardò quelle braccia forti e muscolose seguendone la linea delle
vene, quante volte l’avevano tratta in salvo, adesso giacevano inermi.
Si guardò le mani, ora sarebbero state loro a salvare lui.
Collegò Harlock ad un piccolo monitor portatile, l’unico rimasto intatto.
Doveva controllarne l’attività cardiaca e tenere sotto controlo i parametri
vitali, predispose tutto il materiale necessario all’intera seduta operatoria, ed
infine collegò l’ossigeno.
Mano a mano che procedeva si rendeva sempre più conto che le
ferite causate da armi erano molteplici, alcune di striscio altre più profonde.
Provò ad immaginare cosa avesse potuto provare lui. Lo vide maestoso e regale,
lo sguardo fisso davanti a sé mentre lo incatenavano, il suo Harlock. Lo
immaginò stringere i denti immobile e stoico nell’accettazione del dolore poi…
E lei dov’era? Dov’era? Scosse con vigore la testa come per
scacciare un insetto ma quella che cercava di mandare via era l’immagine atroce
di uomini senza volto che lo usavano come bersaglio umano ridendo.
Lo guardò solo un istante prima di collegarlo al respiratore,
carezzandogli i capelli. In quello sguardo c’era tutto il suo amore. Indossò
camice e guanti sterili. Chiuse gli occhi. Tornò agli studi di medicina che
aveva fatto da ragazza tanto, tanto tempo prima sulla Terra, perché nulla di
ciò che aveva appreso dopo, ora poteva tornarle utile. Con i presidi distrutti
doveva accertare l’entità delle ferite una alla volta partendo dagli organi
vitali, pregò che nessun colpo avesse leso irrimediabilmente gli organi
interni. Non pensò più ad Harlock uomo, ma al suo corpo che soffriva e lottava,
da salvare. Avrebbe fatto tutto quello che era in suo potere.
Il suo sguardo correva costantemente al piccolo monitor che
disegnava le onde del suo cuore, deboli, ma costanti. ‘Tu sei forte’ pensava.
‘Qualunque cosa sia accaduta la supereremo.’ Ma mentre lo pensava, sapeva di
mentire. Si mentiva.
Cosa avrebbe dato per avere la possibilità di guardare ancora
una volta quell’iride scura che si muoveva rapida indagandoti dentro. Quello
sguardo profondo, vivido ed a volte pervaso da una struggente tenerezza.
Tamponò, suturò, come un tempo con ago e filo, clampò*i vasi
lesionati per arrestare le emorragie. Fremeva ogni volta in cui era costretta
ad aspirare del sangue. La fronte madida di sudore che le finiva negli occhi,
bruciandoli, ma non se ne curava, a volte lo sguardo andava al viso di Harlock,
coperto con la mascherina che ritmicamente si appannava debolmente, ma subito
li distoglieva, non doveva pensare. Passarono ore, molte ore, sembrava non
dover finire mai, fu scrupolosa e precisa. Le braccia le dolevano, veloci le
dita si muovevano ripetendo gesti antichi a cui non era più abituata. Era
stanca fisicamente ed emotivamente ma non poteva fermarsi.
Terminò. Escluse versamenti interni. Il corpetto in metallo
di Harlock lo aveva protetto o molto più semplicemente volutamente ferite poco
profonde dovevano portare ad una morte lenta e dolorosa. Rabbrividì pensandolo.
Ora le occorreva sangue. Ricordò il giorno in cui lui le
aveva impedito di verificarne il gruppo sanguigno, ebbe un gesto di stizza. Aveva
una sola possibilità e quella possibilità era lei. Era donatrice universale ed
era l’unica cosa da fare. Iniziò a prelevarselo, era una pratica a cui era
abituata, spesso era costretta a sottoporsi ad analisi, solo che questa volta il
sangue da prelevare sarebbe stato molto di più, ma non le importava. Non poté
quanto avrebbe voluto, temeva di indebolirsi troppo. Non c’era tempo, riempì
una parte della sacchetta che conteneva l’eparina un anti coagulante e la
posizionò in alto. Osservò il tubicino
trasparente diventare rosso ed il suo sangue correre da lui e in lui.
Come lei nel labirinto del suo incubo. Si augurò che tutto andasse bene. Non
era quello il protocollo ma non aveva alternative.
Iniziò ad eliminare con garze sterili il sangue rappreso di
cui il corpo di Harlock era pervaso. Per quando facesse, complice la stanchezza
e la paura le sembrò di non finire mai. Continuava ad eliminare sangue rappreso,
le parve che ogni cosa fosse intrisa del sangue di lui, il suo corpo, la
stanza, le sue mani, lei stessa. La tensione emotiva esplose con tutto il suo
fragore devastante e finalmente diede sfogo alle sue lacrime. Si accasciò su di
una sedia e pianse, pianse finalmente tutte le sue lacrime, tremando e dondolandosi lentamente avanti ed indietro
accompagnando così il suo lento lamento. Cullando così quel nuovo sentimento
che le era di colpo esploso dentro. Ora che era forse troppo tardi. Le braccia
strette in vita, ripiegata su se stessa, non poteva fare più nulla. Gridava
tutto il suo strazio e la sua frustrazione.
Lo aveva creduto invincibile, invulnerabile, ed ora stava su di
un letto a lottare tra la vita e la morte e lei era nuovamente sola, sapendo
che tutto era appeso ad un sottile filo. Il flebile filo della speranza.
Immagini del suo volto, delle sue espressioni le passavano
davanti rapide. Avrebbe scoperto chi era stato, fosse l’ultima cosa che avrebbe
fatto, l’avrebbe vendicato!
Piano si calmò. Controllò gli strumenti, Harlock era stabile
ma la febbre stava salendo veloce. La sua battaglia per la vita era appena
iniziata. Lo coprì con una coperta termica. E teneramente si chinò a baciagli
una guancia. ‘Amore mio immenso e puro’. Sussurrò.
Se voleva trasfondergli altro sangue doveva mangiare. Erano
molte ore che non assumeva liquidi. Decise di recarsi in mensa. Portò con se un
trasmettitore che l’avrebbe avvisata di ogni cambiamento di Harlock.
L’Arcadia vagava ormai senza rotta, senza meta per
l’Universo. Relitto con i suoi spettri ed i suoi segreti.
Ma senza Harlock non sarebbe mai riuscita a farla ripartire e
tutto sarebbe stato perduto.
Note
* Tamponare, suturare, clampare sono termini chirurgici. In sintesi, per
sutura chirurgica si intende la procedura chirurgica che permette di avvicinare
stabilmente i lembi di una ferita favorendone la cicatrizzazione. Col termine clampare s'intende l'uso di forbici
chirurgiche per bloccare una perdita ingente di sangue da un vaso.
Questo è un capitolo che ho scritto con difficoltà, versando sangue
e lacrime perché, il ‘mio’ Harlock non l’ho mai lasciato solo nel dolore ed ho
sofferto insieme a lui.
Capitolo dedicato alla mia B-Beta. ‘Vivi un giorno alla volta
e fanne un capolavoro’. Grazie.
Grazie ancora
ai tantissimi lettori silenti di cui non conosco i nomi, vedo solo numeretti… palesateviii
;-p
E grazie a
Mizu turba-sonni che mi ha inviato questa bellissima Fan art di Harlock che mi
ha subito ricordato la tempesta di neve del mio capitolo Artic. Perché
turba-sonni? Me le invia poco prima d’andare a letto la sera… e chi dorme più
;-p Grazie cara.
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