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Autore: lovespace    24/10/2014    8 recensioni
- Dopo un duro combattimento Harlock si ritrova a dover portare sull’Arcadia un ufficiale medico. Una donna alla quale si sente misteriosamente legato. Perchè? Tra colpi di scena ed avventure il tempo svelerà la sua verità. - Come le onde del mare nel loro immutabile fluttuare a volte rendono ciò che hanno sottratto alla terra, in egual maniera le onde del destino, nel loro divenire dal passato al presente, talora restituiscono quello che un tempo ci hanno portato via. –
Genere: Avventura, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Harlock, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: Lime, Movieverse, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Come le onde del mare nel loro immutabile fluttuare a volte rendono ciò che hanno sottratto alla Terra, in egual maniera le onde del destino nel loro divenire dal passato al presente, talora restituiscono quello che un tempo ci hanno portato via.

 

8

Attenzione, nel presente capitolo sono descritte immagini e sentimenti forti che potrebbero turbare l’altrui sensibilità.

 

LOST

 

La mattina dopo come suo solito Harlock scomparve, Helèn non lo vide per tutto il giorno. Fu dura per lei. Aveva dolori diffusi su tutta l’epidermide ed i metodi che usava di solito non sortirono effetto.

Yattaran sempre attento si rese conto che Helèn non stava molto bene. Ma lei non poté spiegare nel dettaglio l’origine del suo malessere.

“Ma io ho un rimedio!” fece lui, felice di poterla aiutare tornando poco dopo baldanzoso dalla sua stanza, con due pillolette anonime in mano.

“Non prendo medicinali” fece gentile Helèn. Le medicine avevano strani effetti su di lei.

“Ma le ho comprate su Centuriun, lo sanno tutti che lì ci sono i migliori medici” disse alzando l’indice destro.

Helèn decise di accettarle per farlo contento e perché non sapeva più che fare per il dolore. Guardò a lungo le pillole nel palmo della sua mano indecisa sul da farsi.

Le prese.

Era nell’infermeria quando cominciò a sentirsi malissimo. Tutto iniziò con dei disturbi della vista, inizialmente li archiviò come stanchezza, poi iniziò a girarle la testa ed uno stano torpore iniziò ad impossessarsi di lei. Era scossa da lievi tremori e sentì il bisogno di stendersi. Utilizzò il tavolo di metallo delle visite. La colsero delle ondate di gelo, si coprì con un grande lenzuolo che teneva sul tavolo e lentamente entrò in quello che a lei parve essere una specie di coma.

Avrebbe voluto chiedere aiuto ma l’interfono le parve irraggiungibile. Cosa gli stava accadendo? Sentì i battiti del cuore lentamente diminuire. Cercò con tutte le sue forze di restare sveglia ma non vi riuscì. Perse conoscenza. Precipitò lentamente, inesorabilmente in una sorta di oblio.       

Era buio e freddo, si guardò intorno, era in una specie di immenso labirinto, iniziò a correre cercando una via d’uscita, ma per quanto corresse era sempre troppo lontana. Poi scorse Harlock. Lui sparì. Ad ogni angolo vedeva il suo mantello, correva, correva, ma quando le sembrava d’averlo raggiunto lui era da un’altra parte. Lo chiamava ma non udiva il suono della sua voce. Lui non si voltò mai. Un senso di angoscia e solitudine la pervasero mentre l’inconfondibile rumore dei passi di lui lo portavano via da lei.

Quando riaprì gli occhi era confusa, indolenzita, potevano essere passate due ore come due giorni. Si guardò lentamente intorno era nell’infermeria, per terra, completamente coperta dal grande lenzuolo. Doveva essere caduta.

Si sollevò piano tenendosi al bordo del tavolo, lentamente la vista iniziò a farsi salda. Aveva la bocca  impastata. La testa le girava ancora. Un senso di nausea la coglieva ad ondate. Bevve con le mani dell’acqua dal piccolo lavandino di metallo alle sue spalle poi se le passò sul viso e dietro al collo. Ma cosa le era accaduto? Ricordò lentamente. Le due pillole, il malore che ne era seguito.

Alzò il capo per massaggiarsi il collo, così facendo notò qualcosa di assolutamente inspiegabile. Qualcosa che la lasciò sconcertata. Sbatté le palpebre più volte incredula.

La piccola fila di pensili di metallo lungo la parete sul piccolo lavello era crivellato di colpi. Come era possibile? Forse non era sveglia. Vi passò incerta sopra le dita, non poteva essere ma, erano senza dubbio colpi d’arma da fuoco. Era confusa, non capiva. Il cuore iniziò a batterle forte, cominciò a guardarsi intorno velocemente, anche sul muro e sugli altri pensili c’erano segni di arma da fuoco. Non riusciva a spiegarselo. Ma cosa era accaduto? Un attacco? E lei? Lei di certo cadendo dietro al tavolo completamente coperta dal lenzuolo non era stata vista. Ma chi? Chi era l’autore? Helèn era come stordita, impaurita. Doveva capire.

Prese le sue armi dalle fondine e si avviò guardinga alla porta. Non appena l'ebbe aperta un acre e pungente odore di fumo la colpì forte come uno schiaffo, paralizzandola. L’ansia esplose. Intorno a lei il silenzio era assordante. Poteva significare soltanto che, qualunque cosa fosse accaduta, ora, era terminata. Iniziò ad avanzare lentamente con circospezione controllando visivamente ogni punto, coprendosi le spalle come era stata addestrata a fare. Nessuno, nessun suono. Continuò la ricognizione vigile, attenta, diretta al ponte di comando. Nel corridoio tracce evidenti di lotta ed alcune armi, nessun corpo. Man mano che avanzava il fumo si faceva più denso, passandovi accanto guardò meccanicamente fuori da uno degli oblò. Si bloccò. L'Arcadia si muoveva lentamente, era come se… il sangue le si raggelò. L'Arcadia stava andando alla deriva.

Ma come era possibile? Arrivò in plancia non sapendo neppure lei cosa aspettarsi, aveva la gola secca, gli occhi le bruciavano a causa del fumo. Nessuno! La calma che vi regnava era assurdamente irreale. Il grande timone si muoveva lentamente, abbandonato a se stesso, ruotava piano a destra e poi a sinistra, producendo tetri scricchiolii del legno. L’Arcadia era lievemente inclinata su un lato ed il grande motore a Dark Matter era spento.

Helèn smarrita strinse d’impulso con una mano il timone per fermarlo, quasi che  l'antico legname avesse potuto rivelarle cosa fosse successo. Si guardò intorno. I monitor erano tutti spenti e da quelli infranti venivano fuori luminose scariche elettriche. Helèn si guardò intorno disorientata. Ansimava, il cuore pareva impazzito. Sulle pareti erano visibili sventagliate di proiettili. Ma dove erano tutti? Guardò implorante il trono, vi si avvicinò piano, misurando i passi. Nel centro all'altezza del capo di Harlock vi era conficcato un pugnale, come per un tiro al bersaglio. Lo tolse con rabbia scaraventandolo in terra. La paura fredda spettatrice sorridendo sadica le carezzò il viso, Helèn rabbrividì. Harlock dove sei?

Iniziò a correre senza neppure rendersene conto, i sensi allertati, verso gli alloggi della ciurma. Spalancò tutte le porte, una dopo l’altra, rapidamente. Nessuno. Era come se fossero stati appena lasciati dai loro occupanti. Poi si recò nella grande mensa e negli ambienti comuni dove aveva sempre trovato qualcuno. Al posto del solito allegro vociare l’accolse una piatta quiete. Non c’era nessuno. Tutto era stato messo sottosopra. Iniziò a chiamare “Kei, Yattaran, ragazzi mi sentite? dove siete?”. Corse nel piccolo teatro dove a volte si tenevano le riunioni, vuoto. La calma era spettrale.

Si recò allora al piano inferiore dove erano le stanze di detenzione ed i magazzini. La temperatura era elevata e poi arrivò il fuoco. Giù in fondo c’era una falla, gridò tra l’aria tremula, attese qualche secondo, gridò ancora ma le fiamme inghiottirono la sua voce. Nessuna risposta. Azionò gli idranti come le era stato insegnato e chiuse alcune paratie. Si accasciò alla parete chiusa, sconfortata ed incredula. Dove erano tutti? Annaspò, si guardò intorno sperduta, era di nuovo sola come quando era stata chiusa nella cella criogenica. Strinse le mani alle spalle per darsi coraggio. Era sola. Gli occhi le si velarono di lacrime. Si fece forza scacciando quella sensazione dal retrogusto di morte. Corse quindi al boccaporto dove erano alloggiate le navette. La sua ultima speranza. Attese con ansia che il portellone si aprisse.

Non c’erano più! Si portò istintivamente una mano alla gola. Il panico alleato della paura gliela strinse forte, si guardò a destra e poi a sinistra, il cuore ormai le batteva all’impazzata, non potevano esser andati tutti via… senza di lei, e perché? Si concentrò sul suo respiro per tornare lentamente padrona di sé. Harlock non avrebbe mai abbandonato l’Arcadia al suo destino mai! Decise quindi di andare nel cassero di poppa dove erano i suoi alloggi.

Corse, corse veloce. Spalancò la porta di colpo, il fiato corto, per un istante lo vide dietro la scrivania. Un’illusione. Tutto era sottosopra. Qualcuno aveva frugato senza ritegno tra le sue cose. Di lui non c’era traccia. ‘Harlock dove sei?’

Nella sua camera, sul letto, uno dei suoi maglioni neri. Lo prese e se lo portò al viso. Aspirò profondamente quell’ indumento che sapeva di lui come ogni cosa là dentro. Gli occhi le si riempirono di lacrime ma le ricacciò indietro. Inspirò forte. La disperazione l’attanagliò. Strinse forte i pugni. Non aveva alcun senso abbandonare così l’Arcadia, lasciandola al suo destino, alla deriva nell’Universo come una nave fantasma. Qualcuno era salito a bordo costringendoli a farlo, ma chi? CHI?

Doveva calmarsi, ragionare a mente fredda. Tornò indietro stavolta lentamente, sconfitta. Mentre camminava piano, un passo dietro l’altro, le braccia abbandonate lungo i fianchi, la pistola ciondoloni nella mano, mille ipotesi le si affacciarono alla mente. Ma nessuna plausibile. Guardò fuori da uno degli oblò, fuori lo spettacolo di stelle era immutato. “Dove siete?” sussurrò. Vide nel riflesso una lacrima scenderle lungo una guancia. Doveva tornare in plancia ed azionare il dispositivo di allarme generalizzato che avrebbe richiamato la nave più vicina ma questo avrebbe voluto dire consegnare l’Arcadia alla Gaia Sanction. Non poteva farlo. Continuò a camminare accompagnata solo dall’eco dei suoi passi.

Si ritrovò davanti alla stanza degli allenamenti, vi era già passata senza entrarvi. Ma stavolta qualcosa attirò la sua attenzione. Dal disotto della porta fuoriusciva un rigagnolo oscuro. Capì subito cosa era, ne aveva riconosciuto la densità, ma si piegò a toccarlo, l’annusò sulle dita. SANGUE! Un brivido le percosse rapido la schiena, rabbrividì. Un segno di vita ma anche un cattivo presagio.

Le tempie pulsavano veloci, la paura l’abbrancò come una fiera tenendola stretta. Inspirò ed impugnò l’arma con entrambe le mani, circospetta, con fare guardingo lasciando la porta a protezione delle spalle, la spalancò.

Nulla. Si voltò, e con lo sguardo seguì lentamente quel rivoletto di sangue sul pavimento per capirne l’origine. I battiti del suo cuore scandivano il tempo. Camminava piano, quasi a rallentare l’inevitabile. Ma ciò che vide la terrorizzò. Si bloccò.

Vi era una enorme pozza di sangue formata da gocce che cadevano irregolari dall’alto. La sua mente si rifiutava di accettare razionalmente quell’immagine ‘il sangue non cade dall’alto’. Alzò lentamente lo sguardo e… vide!

Vide quello che mai avrebbe voluto vedere. Mai. Un urlo atroce le strappò la gola morendo ancor prima di nascere. Vacillò, l’arma le cadde dalle mani prive di forza, le gambe non la sostennero. Cadde in ginocchio, avrebbe voluto distogliere lo sguardo ma non poteva, non ci riusciva. Ciò che i suoi occhi le riportavano non era vero non poteva esserlo. Era pietrificata. NO, non poteva essere. Non poteva essere.

 Scuoteva la testa, il cuore letteralmente impazzito. Si portò le mani alla bocca tenendovele premute forte per soffocare un lamento atroce e profondo di dolore. Dolore senza fine che stava traboccando dal suo essere e che fece vibrare ogni singola corda del suo sentire. Gli occhi le si riempirono di lacrime, quasi a nasconderle ciò che non volevano accettare. Tremando tese una mano.

Harlock era li. Inerme, in catene.

Lo avevano incatenato in alto per la vita, per le spalle, collo, polsi, gambe, dorso. La testa inclinata priva di vita, i capelli gli coprivano interamente il volto, se ne percepiva appena il profilo. E sangue, sangue ovunque. Helèn scuoteva il capo. NO, non poteva crederci, lo avevano usato come bersaglio umano dopo averlo incatenato e lasciato lì agonizzante. Ma chi? Chi aveva potuto tanto? Lente ed inesorabili stille di sangue lasciavano il suo corpo, la sua vita, finendo in terra.

Rabbia e disperazione si impossessarono di lei e preso il graviti saber di Harlock, che giaceva in terra, con ceco furore tagliò una dopo l’altra quelle catene.

“Noo. La libertà in catene noo”. Gridò con tutta se stessa. Gli occhi le ardevano dalle lacrime. Il corpo inerme di lui le cadde addosso. Entrambi finirono sul pavimento. Helèn percepì l’odore dolciastro del sangue di Harlock su di lei.

Lo girò piano, trepidante, dilaniata dall’ansia nel cercare di capire ciò che aveva orrore di scoprire. Era ancora vivo? Le mani le tremavano, come mai nella sua vita, il cuore fremeva impazzito per lo strazio, gli occhi carichi di lacrime le appannavano la vista, la sua anima urlava parole che non capiva. Con movimenti maldestri aprì il corpetto e poi il giubbino in pelle. Sotto vi era solo sangue. Provò a sentire un battito, sporcandosi il volto di sangue. Nulla. Nulla. Non era lucida.

Lo tirò a sé abbracciandolo e gridando folle di dolore. “Noo”.

Lo immaginò sprezzante e fiero mentre tolto il mantello lo legavano. Conservando sino alla fine la grande dignità di uomo e leader carismatico quale era. Strinse al petto disperata quel corpo inanimato. Piangendo il suo dolore infinito.

Poi, un impercettibile lamento.

Era vivo, vivo!  “Harlock che ti hanno fatto? Che ti hanno fatto?” chiese quasi supplicando. Doveva salvarlo ma non riusciva a formulare pensieri compiuti, solo una frase continuava a ripetere all’infinito guardandolo, piena di rabbia e frustrazione ‘lo hanno usato come bersaglio. Come bersaglio…’ come avevano potuto e perché? Solo questo era riuscita a capire dal numero incredibile di ferite. Volevano infliggergli una morte lenta ed atroce.

Corse a prendere una barella su cuscinetti d’aria che usavano per il trasporto di feriti, non fu facile mettercelo su. “Resisti, resisti non arrenderti, non arrenderti” continuava a ripetere meccanicamente a lui o forse a se stessa. “Sei forte lo so!” Lo liberò dalle catene scaraventandole via con rabbia, lontano. Helèn respirava male, l’emozione le impediva di coordinare i movimenti come avrebbe voluto. Preparò una mascherina d’ossigeno da mettergli. Per farlo dovette scostare i capelli dal viso. Distolse per un istante lo sguardo, non riusciva a vederlo così. Il volto eburneo esanime, il capo abbandonato di lato, la fronte sempre corrugata, inanimata, le labbra lievemente dischiuse, l’occhio sempre vigile e pronto dietro una palpebra chiusa. Una ferita di striscio tra i capelli aveva creato una traccia di sangue rappreso che andava dalla fronte al naso a parte del viso. Helèn la pulì con dita esitanti. “Ti supplico non arrenderti amore mio” sussurrò senza rendersene conto.

Si riebbe, stava solo perdendo tempo prezioso. Raggiunse la sala operatoria annessa all’infermeria. Ma ciò di cui si rese conto distrusse tutte le sue speranze. Rimase impietrita davanti all’ingresso.

La sala operatoria era semidistrutta, strumenti, congegni, apparati, presidi diagnostici e biomedici, persino le scorte di plasma. Tutto era stato barbaramente distrutto. Helèn annaspò, si guardò intorno e poi ancora ed ancora. Tutto iniziò a girare, non ce la faceva a sopportare tutto questo. No, era troppo! Stava quasi per perdere i sensi quando risentì la voce di Meeme ‘Dovrai essere forte Helèn, o non ci sarà un futuro per nessuno di noi’. Volse lo sguardo ad Harlock su quella barella, gli strinse una mano come avrebbe fatto lui se fosse stato accanto a lei per infonderle coraggio. Strinse i pugni. ‘Forza Helèn tu sai operare anche senza tutta questa strumentazione lo hai imparato sulla Terra, tanto tempo fa, devi solo ricordare.’ Ma ricordare faceva male, tanto male. Doveva riportare in vita ricordi che aveva sepolto perché troppo dolorosi. ‘Fallo per lui, per Harlock.’ Si ripeteva. Sistemò velocemente ogni cosa meglio che poté.

Non restava molto tempo. Si lavò le mani nel piccolo lavandino di metallo che in un istante si riempì di liquido rosso. Sangue. Il sangue di Harlock. Le lacrime scendevano da sole e non riusciva a fermarle perché ogni fibra del suo spirito tremava livida. Strinse forte il bordo del piccolo lavabo fino a che le nocche non le divennero bianche, l’angoscia per quello che si apprestava a fare le mozzava il fiato.

Alzò il capo al cielo pregando. ‘Non pensare che sia lui. Non pensare che sia lui o non ce la farai’ si ripeteva. Respirò a fondo e respirò ancora. Prese tutto quello che era rimasto intatto, doveva pensare freddamente o non sarebbe stata in grado di agire per il meglio. Con un bisturi iniziò a tagliare gli abiti di Harlock, con un rispetto ed una reverenza quasi sacrale. Iniziò le operazioni di sedazione e preparò una flebo con l’anestetico ed un antibiotico. Guardò quelle braccia forti e muscolose seguendone la linea delle vene, quante volte l’avevano tratta in salvo, adesso giacevano inermi.

Si guardò le mani, ora sarebbero state loro a salvare lui. Collegò Harlock ad un piccolo monitor portatile, l’unico rimasto intatto. Doveva controllarne l’attività cardiaca e tenere sotto controlo i parametri vitali, predispose tutto il materiale necessario all’intera seduta operatoria, ed infine collegò l’ossigeno.

Mano a mano che procedeva si rendeva sempre più conto che le ferite causate da armi erano molteplici, alcune di striscio altre più profonde. Provò ad immaginare cosa avesse potuto provare lui. Lo vide maestoso e regale, lo sguardo fisso davanti a sé mentre lo incatenavano, il suo Harlock. Lo immaginò stringere i denti immobile e stoico nell’accettazione del dolore poi…

E lei dov’era? Dov’era? Scosse con vigore la testa come per scacciare un insetto ma quella che cercava di mandare via era l’immagine atroce di uomini senza volto che lo usavano come bersaglio umano ridendo.

Lo guardò solo un istante prima di collegarlo al respiratore, carezzandogli i capelli. In quello sguardo c’era tutto il suo amore. Indossò camice e guanti sterili. Chiuse gli occhi. Tornò agli studi di medicina che aveva fatto da ragazza tanto, tanto tempo prima sulla Terra, perché nulla di ciò che aveva appreso dopo, ora poteva tornarle utile. Con i presidi distrutti doveva accertare l’entità delle ferite una alla volta partendo dagli organi vitali, pregò che nessun colpo avesse leso irrimediabilmente gli organi interni. Non pensò più ad Harlock uomo, ma al suo corpo che soffriva e lottava, da salvare. Avrebbe fatto tutto quello che era in suo potere.

Il suo sguardo correva costantemente al piccolo monitor che disegnava le onde del suo cuore, deboli, ma costanti. ‘Tu sei forte’ pensava. ‘Qualunque cosa sia accaduta la supereremo.’ Ma mentre lo pensava, sapeva di mentire. Si mentiva.

Cosa avrebbe dato per avere la possibilità di guardare ancora una volta quell’iride scura che si muoveva rapida indagandoti dentro. Quello sguardo profondo, vivido ed a volte pervaso da una struggente tenerezza.

Tamponò, suturò, come un tempo con ago e filo, clampò*i vasi lesionati per arrestare le emorragie. Fremeva ogni volta in cui era costretta ad aspirare del sangue. La fronte madida di sudore che le finiva negli occhi, bruciandoli, ma non se ne curava, a volte lo sguardo andava al viso di Harlock, coperto con la mascherina che ritmicamente si appannava debolmente, ma subito li distoglieva, non doveva pensare. Passarono ore, molte ore, sembrava non dover finire mai, fu scrupolosa e precisa. Le braccia le dolevano, veloci le dita si muovevano ripetendo gesti antichi a cui non era più abituata. Era stanca fisicamente ed emotivamente ma non poteva fermarsi.

Terminò. Escluse versamenti interni. Il corpetto in metallo di Harlock lo aveva protetto o molto più semplicemente volutamente ferite poco profonde dovevano portare ad una morte lenta e dolorosa. Rabbrividì pensandolo.

Ora le occorreva sangue. Ricordò il giorno in cui lui le aveva impedito di verificarne il gruppo sanguigno, ebbe un gesto di stizza. Aveva una sola possibilità e quella possibilità era lei. Era donatrice universale ed era l’unica cosa da fare. Iniziò a prelevarselo, era una pratica a cui era abituata, spesso era costretta a sottoporsi ad analisi, solo che questa volta il sangue da prelevare sarebbe stato molto di più, ma non le importava. Non poté quanto avrebbe voluto, temeva di indebolirsi troppo. Non c’era tempo, riempì una parte della sacchetta che conteneva l’eparina un anti coagulante e la posizionò in alto. Osservò il tubicino  trasparente diventare rosso ed il suo sangue correre da lui e in lui. Come lei nel labirinto del suo incubo. Si augurò che tutto andasse bene. Non era quello il protocollo ma non aveva alternative.

Iniziò ad eliminare con garze sterili il sangue rappreso di cui il corpo di Harlock era pervaso. Per quando facesse, complice la stanchezza e la paura le sembrò di non finire mai. Continuava ad eliminare sangue rappreso, le parve che ogni cosa fosse intrisa del sangue di lui, il suo corpo, la stanza, le sue mani, lei stessa. La tensione emotiva esplose con tutto il suo fragore devastante e finalmente diede sfogo alle sue lacrime. Si accasciò su di una sedia e pianse, pianse finalmente tutte le sue lacrime, tremando e  dondolandosi lentamente avanti ed indietro accompagnando così il suo lento lamento. Cullando così quel nuovo sentimento che le era di colpo esploso dentro. Ora che era forse troppo tardi. Le braccia strette in vita, ripiegata su se stessa, non poteva fare più nulla. Gridava tutto il suo strazio e la sua frustrazione.

Lo aveva creduto invincibile, invulnerabile, ed ora stava su di un letto a lottare tra la vita e la morte e lei era nuovamente sola, sapendo che tutto era appeso ad un sottile filo. Il flebile filo della speranza.

Immagini del suo volto, delle sue espressioni le passavano davanti rapide. Avrebbe scoperto chi era stato, fosse l’ultima cosa che avrebbe fatto, l’avrebbe vendicato!

Piano si calmò. Controllò gli strumenti, Harlock era stabile ma la febbre stava salendo veloce. La sua battaglia per la vita era appena iniziata. Lo coprì con una coperta termica. E teneramente si chinò a baciagli una guancia. ‘Amore mio immenso e puro’. Sussurrò.

Se voleva trasfondergli altro sangue doveva mangiare. Erano molte ore che non assumeva liquidi. Decise di recarsi in mensa. Portò con se un trasmettitore che l’avrebbe avvisata di ogni cambiamento di Harlock.

L’Arcadia vagava ormai senza rotta, senza meta per l’Universo. Relitto con i suoi spettri ed i suoi segreti.

Ma senza Harlock non sarebbe mai riuscita a farla ripartire e tutto sarebbe stato perduto.

 

 

Note

* Tamponare, suturare, clampare sono termini chirurgici. In sintesi, per sutura chirurgica si intende la procedura chirurgica che permette di avvicinare stabilmente i lembi di una ferita favorendone la cicatrizzazione. Col termine clampare s'intende l'uso di forbici chirurgiche per bloccare una perdita ingente di sangue da un vaso.

Questo è un capitolo che ho scritto con difficoltà, versando sangue e lacrime perché, il ‘mio’ Harlock non l’ho mai lasciato solo nel dolore ed ho sofferto insieme a lui.

Capitolo dedicato alla mia B-Beta. ‘Vivi un giorno alla volta e fanne un capolavoro’. Grazie.

Grazie ancora ai tantissimi lettori silenti di cui non conosco i nomi, vedo solo numeretti… palesateviii ;-p

E grazie a Mizu turba-sonni che mi ha inviato questa bellissima Fan art di Harlock che mi ha subito ricordato la tempesta di neve del mio capitolo Artic. Perché turba-sonni? Me le invia poco prima d’andare a letto la sera… e chi dorme più ;-p Grazie cara.

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