Proprio
per il riciclo di vecchie storie, ho trovato nell’hard disk
questa one shot AU.
Forse
è un po’ (tanto) superficiale, a livello di trama,
ed è trattata piuttosto grossolanamente… forse
avrebbe funzionato meglio come long, fatto sta che ho deciso di
ripostarla perché ricordo di averla dedicata al mio
compagno, fan sfegatato degli Iron Maiden (da cui viene il titolo), che
alle superiori mi ha tramandato la sua passione per la musica Metal che
ancora non stavamo insieme!
Ha
suscitato in me vecchi ricordi ed una strana nostalgia…
perché un po’ rappresenta anche gli errori che io
per prima ho fatto col mio compagno ed ogni tanto mi chiedo se non ho
“perso degli anni”, sprecandoli quando la
felicità era a portata di mano… ma il Destino ha
i suoi piani, che è un po’ il fulcro di questa
shot.
Boh…
ho finito di annoiarvi, spero solo vi piaccia la storia, nel suo
piccolo :)
Buona
lettura.
“WASTED YEARS”
Ricordi.
Ecco tutto ciò che rimane della mia giovinezza.
Ferite nel mio cuore che hanno saputo farmi crescere e cancellare ogni
odio, ogni rancore portato, ma anche i momenti felici, i giorni
spensierati, le uscite con gli amici e la scuola.
Ho passato l'inferno nella mia adolescenza, un inferno fatato e dorato.
Soffrire, a volte, non è solo bastato su ferite mortali, su
battaglie combattute a perder sangue, a sudare per vincere qualcosa:
nella vita di tutti i giorni ogni ragazzino che entra nel mondo degli
adulti si sente perso, depresso, bisognoso di quel qualcosa che,
spesso, un genitore non può concepire.
E' tutto così dannatamente difficile e, più
cresci, più ti rendi conto che vivere è
complicato, che non si può essere sempre egoisti e non si
può solo pensare a sé stessi, perché
molte persone si trovano in situazioni ben peggiori della propria.
Ed ora rimango seduta davanti al computer, con i miei quarant'anni alle
spalle ed altrettanti dinnanzi... e questa donna, che perde tempo a
scrivere, non può far altro perché ha paura.
Paura che i suoi ricordi vengano spazzati via dal fiorire
dell'età che avanza; smacco inaccettabile.
Io, che sono così vanesia, non posso dimenticare i miei anni
persi, gli anni in cui potevo avere ai piedi chiunque desiderassi, ma
in cui mi sono costruita un muro di cemento armato davanti, e tutto per
colpa di un amore che io stessa non riuscivo a comprendere.
Dicono che la vita di una donna inizia alla mia età, ed
è vero, poiché solo ora ho trovato l'equilibrio
che cercavo insistentemente, quella routine un po’
movimentata, quel tenersi occupata con mille e più cose da
fare. Quello che volevo e che ho ottenuto.
Ma chi poteva saperlo allora? In quel tempo in cui le mie uniche
preoccupazioni si limitavano al compito in classe o alla scelta del
vestito per il sabato sera passato in discoteca con le amiche? O i
problemi per colpa degli ragazzi, anzi, di un Ragazzo!
Sarà divertente mettere per iscritto la mia vita, una sorta
di personale autobiografia, un po’ come un album di
fotografie, ma scritto, e chissà… forse qualcuno
leggerà anche la mia storia, un giorno.
***
Tutto iniziò quando entrai alle superiori.
Frequentavo l'Istituto Tecnico Industriale di West Town, la mia
città, per una pura scelta dettata dal DNA. Ero
l’unica figlia dell'industriale e scienziato Dr. Brief e non
potevo avere che un unico futuro: succedere a mio padre nella ditta di
famiglia, la Brief Corporation.
Sicuramente una scelta azzeccata, date le mie innumerevoli doti per
l'ingegneria e la meccanica, argomenti che avrei poi trattato
all'università della Capitale, una volta superato l'esame di
maturità.
La prima volta che entrai in quella classe, la I^C del corso
informatica dell'I.T.I.S., capii subito che avrei avuto parecchi
problemi.
In una classe di venticinque alunni, di cui soltanto quattro erano
esponenti del gentil stesso -me compresa-, seppi che la vita sarebbe
stata molto dura. Non è facile per una ragazzina ritrovarsi
al centro delle attenzioni di tanti coetanei maschi, protagonista di
quella che era la crescita durante la pubertà.
Subito pensai alle altre tre ragazze, dirigendo la mia attenzione
altrove, magari per fare amicizia; Chichi divenne mia amica subito,
anche se viaggiavamo su due lunghezze d’onda differenti; al
contrario, Marion e Lunch, due ragazze un tantino frivole e facili -a
cui non rivolsi nemmeno la parola-, divennero mie nemiche giurate,
soprattutto la prima delle due.
Dei miei compagni di classe notai subito il clown di turno, un certo
Son Goku, un ragazzino di montagna che chiamammo “Il
Montanaro”, seguito da colui che doveva essere il suo amico
di una vita: Crilin, un “pelato” basso e timido.
C'erano poi il “nano” Riff e i due
“taciturni musoni”, ovvero Al Satan Piccolo, uno
straniero, e Tenshinhan.
Gli altri erano semplici comparse, persone di cui avrei presto perso
ogni contatto.
Una persona che non dimenticherò mai, invece, era il
professore di matematica! Si chiamava Muten, ma amava farsi chiamare
Genio per la sua peculiarità di “Mentore
dell’Aritmetica” ed era un vecchietto simpatico,
anche se un tantino pervertito. La cosa che più mi divertiva
durante le sue lezioni era quando doveva interrogare Goku: quante
risate ci facevamo, tra le battute del ragazzo e i rimproveri del
professore!
Il Montanaro era gentile, simpatico e anche carino -nonostante fosse un
po’ tonto-, ma vidi subito a chi aveva rubato il cuore e non
osai mettermi contro Chichi, perché sapeva essere una vera
iena quando la si faceva arrabbiare.
Ogni giorno che passava le due “oche” si
dimostravano sempre più tali, e molti maschietti non
esitarono al richiamo di quelle gonnelline inguinali: come Crilin, che
si innamorò perdutamente di Marion.
Che dire di lei?
Credo di non aver visto una ragazza più cretina! Era
patetica e stupida! Ok... a dire il vero il nostro conflitto nasceva da
un puro atto di fatto: tutte e due volevamo essere “la prima
donna” della classe.
Era del tutto normale! Io ero ricca, intelligente, avevo ogni vestito
firmato e mi ritenevo una bella ragazza, ma lei, nonostante fosse una
stupida gallina, si comportava da civetta e questo le faceva guadagnare
punti con i ragazzi; cosa che mi dava nettamente sui nervi.
Più i mesi passavano, più noi
“primini” -così ci chiamavano i
più grandi-, iniziammo ad uscire in corridoio durante la
ricreazione, meno spaventati dalla nuova scuola e desiderosi di
conoscere altra gente… persone simpatiche, come Yamcha, il
più carino della scuola e meta ambita di ogni ragazza: alto,
moro, sportivo e con un fare da ‘figo’ che faceva
sciogliere chiunque… me compresa! Ovviamente mi innamorai di
lui! Chi non sarebbe caduta in quella ragnatela ben tessuta da chi ne
sapeva una più del diavolo!?
Eppure conoscemmo anche persone cattive, come Cell e i suoi scagnozzi o
come Freezer: i classici bulli da evitare bellamente per non essere
pestati o derubati.
Ricordo anche la nostra Sempai, la bella C18, una ragazza bionda che
frequentava la V^C del nostro corso ed era stata incaricata di
“badare” a noi primini, per la gioia di Crilin e di
molti altri maschi e, cosa strana, anche di Goku che aveva mostrato
interesse per lei…
«La odio!» mi disse un giorno Chichi, con luce
omicida negli occhi, guardando la bionda sorridere circondata dai
nostri compagni, come fosse il Signore sceso in terra: sembrava quasi
che il suo corpo emanasse un alone di luce paradisiaca!
Io risi e le risposi che non doveva preoccuparsi, in fondo il Montanaro
era un tale idiota che nemmeno sapeva il
“perché” era attratto da C18, ma questo
lo tenni per me.
Quella che doveva preoccuparsi ero io! Da bella ingenua qual ero,
scrissi una bellissima letterina d'amore per il mio bel imbusto, ma
quando -dopo circa un mese di incitamenti da parte della mia unica
amica- riuscii a farmi coraggio per consegnargliela, ecco che lo vidi
bello bello mentre si sbaciucchiava con foga -quasi animale- con
Marion, in una zona della scuola poco frequentata.
Subito mi nascosi dietro al muro del corridoio perpendicolare a quello
incriminato, ma non potei non sbirciare. Anche se avevo il sangue nelle
vene che ribolliva e mi veniva da piangere, non riuscivo ad andarmene.
Aveva vinto lei: io non sarei mai riuscita nemmeno a baciarlo, non
senza almeno conoscerlo meglio… e figuriamoci in quel modo
poi. Proprio quando sentii gli occhi bruciare dalle lacrime, una voce
alquanto irritata mi destò dai miei pensieri.
«Che diavolo ci fai fuori? Fila in classe
mocciosa!» ringhiò una voce maschile.
Mi voltai di scatto colta in fallo!
Vidi un ragazzo poco più alto di me: muscoloso, con capelli
ed occhi neri come la notte e lo sguardo torvo.
Era vestito di nero, con una felpa che recava una grossa scritta rossa
e bianca che citava "Iron Maiden" e sotto una specie di essere
–decisamente- orribile ed inquietante che sembrava un corpo
in putrefazione; aveva i pantaloni di jeans e degli anfibi simili a
quelli di un soldato. Un metallaro, dunque?
«Che cavolo hai da fissarmi?» mi chiese brusco dopo
il mio sguardo indagatore che lo scrutò apertamente dalla
testa ai piedi.
Io mi ricordai dov'ero -e cosa stavo facendo- e subito mi assicurai che
quei due idioti appartati non avessero sentito nulla.
«Zitto! Ti prego...» lo implorai alzando una mano e
sporgendo la testa verso il punto in cui Yamcha e Marion avevano
iniziato un film porno di quinta categoria.
«Ehi, razza di scema, che cavolo...?»
proseguì il ragazzo per contestare la mia irriverenza, ma
sporgendosi a vedere ciò che stavo
“spiando”, si zittì da solo
«Piccola pervertita!» sussurrò ghignando
maligno, guardandomi dal basso verso l'alto, dato che era piegato in
ginocchio accanto a me per sbirciare.
«Come ti permetti...» bisbigliai irritata,
arrossendo. Che razza di stronzo! E io che soffrivo le pene d'amore!!!
«Mi permetto, “primina”! Io sono della
V^E e quindi sono un tuo Sempai» proseguì,
zittendomi.
Già era inquietante di per sé, vestito da poco
normale poi!
«Eddie non è di tuo gusto?» chiese
mentre mi ero letteralmente incantata sulla sua felpa, persa nello
sguardo diabolico dell’essere putrefatto stampato sopra.
«Chi?!» gli chiesi.
«Naaaah, lascia perdere. Primo: nome. Secondo: che diavolo
fai fuori di classe?».
«Razza di...» mi bloccai, e mi dissi che quello non
era il modo migliore per ingraziarselo, così, tutta carina e
sorridente –e falsissima come uno spot della Mulino Bianco-
risposi alle sue domande «Mi chiamo Bulma Brief e frequento
la I^C, sono fuori perché...» tentennai guardando
istintivamente verso il lato in cui, al di là del muro, i
due continuavano a palparsi avidamente.
«Perché ti piace quel donnaiolo da quattro soldi!
Tsk» finì la mia frase con scherno.
Mi sentii una stupida: presa in giro due volte, avevo ormai le lacrime
agli occhi ed ero piena di rabbia.
Stavo per scoppiare!
«Oh cazzo… Non credevo di essere
all'asilo!» mi beffeggiò infierendo, ma qualcosa
-o meglio- qualcuno, attirò la sua attenzione: il professor
Genio stava salendo le scale che erano di fronte a noi. Merda!
Il ragazzo istintivamente mi prese per un braccio e mi
trascinò nel bagno lì vicino.
Rimasi attonita per qualche minuto e lui mi guardò come per
farmi capire che se avessi anche solo fiatato, mi avrebbe uccisa.
Zitti, ascoltammo la solenne ramanzina -che per mio sommo gusto- si
dovettero sorbire i due “amanti” e mi misi a
sghignazzare malefica attaccata alla porta del bagno, mentre il mio
rapitore/salvatore guardava il cielo in cerca di risposte sulla mia
stramba persona.
«Non mi hai detto come ti chiami...» gli chiesi
voltandomi.
«Che ti frega?!» mi ruggì di rimando.
«Sempre gentile mi raccomando!» gli risposi
sfoderando uno di quei sorrisi a cui mai -e dico Mai- nessuno aveva
saputo resistere!
«Vegeta...» rispose schivo, guardando di lato come
se d’un tratto fosse in imbarazzo.
Soddisfatta gli sorrisi, ma la tristezza mi invase nuovamente: la
rassegnazione dalla sconfitta subita contro Marion era un piatto freddo
da ingoiare. Ma che potevo fare? Per quanto ancora dovevo struggermi e
crogiolarmi nella ricerca di una vendetta contro quella maledetta
sgualdrina?!
Proprio il fatto che lei riusciva sempre dove io fallivo, mi dava sui
nervi: tutte ma non Marion, non la mia nemica numero uno per
eccellenza! Che smacco…
«Da quando ti apparti nei bagni con le bambine?»
una voce maligna provenne, sibilando, da uno dei bagni chiusi.
«Cell. Cazzo vuoi?!» rispose a tono Vegeta, mentre
in quel momento si che mi sarei messa a piangere come una mocciosa che
vuole la mamma: Cell, colui che era il più temuto fra tutti
a scuola, persino di Freezer, si trovava in quel bagno ed io me la
stavo facendo sotto dalla paura!
Istintivamente mi aggrappai alla schiena di Vegeta, stringendo la sua
felpa e lui non si mosse.
Il farabutto uscì dal bagno, accendendosi una sigaretta e
fregandosene dei divieti impartiti dalla legge: era alto, molto alto,
ed incuteva terrore con quel suo sguardo malandato, quasi da drogato,
con delle enormi borse scure sotto agli occhi.
«Ehi. Fatti un po’ vedere, bella
bambina!» , strafottente, Cell mi invitò ad
avvicinarmi a lui con fare ambiguo.
Come diavolo si permetteva? Io ero Bulma Brief! Si... e facevo bene a
tenerlo per me se non volevo altri guai! Rispose Vegeta al mio posto.
«Non ti abbasserai a questo spero!» lo derise
Vegeta.
«Tsk!» Cell lo squadrò con un ghigno e
spense la sigaretta per terra, uscendo «’Sta volta
lascio passare, ma ti consiglio vivamente di guardarti le spalle,
Pride!» pronunciò il suo cognome con disprezzo,
mentre ormai scendeva le scale fuori dal bagno.
Tirai un sospiro di sollievo, ma notai i pugni serrati del mio
salvatore «Tutto bene?» chiesi prendendogli la
mano, che strattonò via in malo modo, fulminandomi con lo
sguardo.
«Vattene via. E non farti più vedere!»
sibilò.
Non lo rividi più.
Almeno per qualche settimana, dato che frequentavamo la stessa scuola,
ma ogni volta che lo salutavo o cercavo di parlargli, mi evitava come
la peste e non mi degnava di uno sguardo.
Scoprii, grazie al suo cognome, che era il figlio di un noto
industriale ucciso anni prima da un’associazione di
terroristi che la polizia non era ancora riuscita a smascherare: si
pensava che dietro a certi omicidi misteriosi ci fossero dei pezzi
grossi e non avevano tutti i torti nel ponderarlo, dato che persino mio
padre sosteneva quella teoria, ed essendo il capo della Brief
Corporation sicuramente ne sapeva più di tutti.
Seppi anche che Vegeta Pride, dopo l’omicidio del padre,
aveva letteralmente perduto la retta via e aveva preso a frequentare
delle compagnie sbagliate: tutti a scuola sapevano che lui era nella
banda di Freezer; essi spacciavano, picchiavano e seminavano terrore a
chi non obbediva ai loro ordini, minacciando anche di morte!
L’altra potente banda, sebbene meno numerosa ma decisamente
d’élite, era quella capitanata da Cell, il figlio
prediletto del Dott. Gero, noto scienziato conosciuto anche da mio
padre, capo della Red Ribbon Chemical Industry.
Quando scoprii tutte quelle informazioni sulla vita di Vegeta, mi
sentii triste per lui: era solo al mondo, abitava in uno squallido
appartamento, privato di tutto ciò che era stato di suo
padre, mentre sua madre era morta dandolo alla luce. Che vita infelice
doveva aver avuto e potevo persino capire il perché aveva
preso parte alla banda di Freezer, non lo biasimavo di
certo…
Ciò nonostante -complice Vegeta stesso, che mi ignorava ed
evitava ogni giorno di più-, ignorai i miei strani
sentimenti nei confronti di Pride fino a quando egli si
diplomò, sparendo dalla mia vita…
Pensai, con una nota di tristezza, che non lo avrei più
rivisto e i miei interessi si spostarono inevitabilmente altrove;
più precisamente verso Yamcha, il belloccio della scuola che
rimase solo un capitolo della mia vita, che si chiuse quando compii
diciotto anni.
Quando compii sedici anni, magicamente lui si accorse di me -o del mio
seno cresciuto di due taglie-, ma poco importava il motivo,
perché se Vegeta mi faceva compassione, Yamcha mi eccitava
da morire.
Quando mi fece la corte, toccai il cielo con un dito e i due anni
passati con lui, nonostante i tradimenti a mia insaputa, erano stati
felici e divertenti; inoltre la mia prima volta avvenne proprio con
lui, a casa sua.
Sentivo davvero di amarlo e qualche tempo dopo che ci eravamo messi
insieme, mi aveva fatto capire che aveva certi bisogni da saziare
quindi, senza nemmeno pensarci su troppo, acconsentii alla sua proposta
per non venir lasciata… e fu tremendo. Cosa non si fa per
amore…
Dolore e lacrime mi avevano accompagnata lungo tutto quel calvario
della “prima volta”, che non durò
più di dieci minuti, senza contare la fatica che
accompagnò l’inizio. Imbarazzante e da
dimenticare…
«Sei così stretta che sono venuto
subito…» mi disse, come se dovesse giustificarsi,
sedendosi dal suo lato del letto per sfilarsi il preservativo
imbrattato di sangue.
Ancora sotto le coperte, restai nascosta -decisamente sconvolta- con
gli occhi ancora lacrimanti: una volta entrato in me aveva spinto
sempre più forte, più veloce, e sembrava
addirittura fuori di sé, tanto era eccitato! Nemmeno si
accorse della mia sofferenza… e se ne uscì pure
con quella sciocca frase, aggiungendo poi uno squallido
«E’ del tutto normale che faccia male,
tesoro!» ed io mi rassegnai, nella speranza di non provare
più una simile esperienza.
Fortunatamente le volte seguenti furono indiscutibilmente
più appaganti, ed iniziai persino a prenderci gusto.
Tuttavia, ogni storia d’amore che inizia al liceo, prima o
poi finisce, soprattutto quando si va
all’università e si conosce un mondo nuovo, una
città lontana da casa e tanti nuovi amici. Inoltre,
l’aver scoperto i suoi tradimenti non aveva giovato alla
nostra situazione già in crisi per via della distanza.
Dopo essermi diplomata col massimo dei voti, al contrario di Marion che
prese il minimo per essere promossa, fui davvero soddisfatta di me
stessa e decisi di proseguire gli studi nel campo che più
era consono alle mie capacità; con baracche e burattini al
seguito, mi trasferii nella Capitale ed andai a convivere con Goku e
Crilin, che avevano trovato lavoro in quella città
affollata.
Per loro non vi era ragione di “suicidarsi”
continuando a studiare e nemmeno avevano tutti i torti, dato che a
scuola avevano fatto pena ed erano usciti per miracolo!
Quello che non sapevo, però era che il mio
“prediletto” Pride si era giusto trasferito nella
Capitale per sfuggire alla tirannia di Cold, il padre di Freezer, morto
in un presunto incidente stradale: in realtà -ma venni a
conoscenza di ciò solo molto tempo dopo- era stato Cell ad
ordinare l’omicidio del capo di Pride; quel viscido essere
poteva quello ed altro.
La situazione dei giovani di West era dunque degenerata a tal punto che
Vegeta decise ad andarsene per non rischiare la pelle: era certo che
Cell li volesse tutti morti, e a lui non importava nulla di Freezer o
di quelle sciocche bande di quartiere, che nascondevano qualcosa di
più grande, qualcosa che sapeva di mafioso, di setta ambigua
e di cui facevano parte persino gli adulti, i padri dei membri
stessi… forse le medesime persone che avevano ucciso il suo:
Vegeta Pride Senior.
Ciò che importava realmente a Vegeta, era far soldi per
cercare di divenire potente; raggiungere la notorietà del
padre e recuperare il prestigio e le ricchezze perse, erano divenuti i
suoi scopi primari –e la sua vera ossessione- da molti anni a
quella parte.
A scuola era stato uno dei migliori, ma nonostante questo non si era
potuto permettere l’università e quindi doveva
guadagnare grana un po’ come capitava.
Dato che il suo capo morì -anche se lui odiava definirlo
così poiché era orgoglioso e padre delle sue
scelte-, Vegeta aveva dovuto dire addio allo spaccio e ai pestaggi di
strada… e quindi addio anche a quel poco denaro che
racimolava: Pride era di nuovo solo e nessuno della vecchia banda si
era più fatto vivo -sempre che qualcuno lo fosse ancora- ed
il suo cambio di città passò pressoché
inosservato, permettendogli di respirare un po’.
Fu Goku ad incontrarlo e scoprì che Vegeta viveva facendo il
pugile nelle gare clandestine, nella periferia. Goku e Vegeta passarono
molto tempo insieme e, anche se erano due persone completamente diverse
fra loro, posso dire –senza certezza- che quei due erano
divenuti amici, forse proprio grazie alla caparbietà del
Montanaro. Non conoscevo i dettagli, fatto sta che quei due uscivano
spesso insieme e proprio da Goku partì l’idea
della convivenza insieme a noi, prendendo il suo posto, dato che il
ragazzo di montagna si era fidanzato con Chichi e pensavano di sposarsi
per via dell’imminente gravidanza… e quindi
l’appartamento dove risiedevamo io e Crilin avrebbe avuto un
letto vuoto con lo stesso affitto da dividere per due invece di tre.
Riluttante, Pride dovette praticamente accettare la
proposta… per mia somma gioia.
Fui gentile e premurosa con lui, attenta e disponibile per ogni suo
bisogno; cucinavo e gli comprai dei vestiti, lo curavo quando rientrava
da una gara, di cui spesso ne era il vincitore, e facevo di tutto per
avvicinarmi a lui, complice quell’ossessione da crocerossina
che mi portavo fin dal liceo, quando conobbi la sua storia.
Da Vegeta, tuttavia, ottenevo solo risposte monosillabiche, parolacce
ed imprecazioni colorite, oppure venivo semplicemente ignorata.
Crilin non esisteva nemmeno! Non era mai in casa, timoroso nei
confronti di Vegeta e perché, negli ultimi tempi, era
riuscito a riallacciare i rapporti con C18, con cui aveva avuto una
tresca qualche tempo prima. Incredibile come quel
“tappo” aveva successo con le donne… fra
le sue conquiste vi era pure quell’oca di Marion! Forse
forse, ero più sfigata io di lui… che tristezza.
Tuttavia, delle tresche di Crilin e dei suoi amori, non mi importava un
accidente.
Io sbirciavo Pride mentre dormiva, sdraiato a qualche maniera sul
divano; io andavo a vederlo combattere per pochi dollari, sbavando
letteralmente dietro al suo corpo scolpito negli anni, muscoloso ed
esotico. Io ero persa nel suo sguardo bieco, innamorata silenziosamente
di quel suo fare da duro e dalla sua misantropia. Ne ero ossessionata e
anche se vivevo al suo fianco ero comunque considerata come un
fantasma; le uniche volte che m’interpellava era per dei
vestiti puliti o per del cibo. Nulla più.
Una delle tante cose che mi colpirono di Vegeta, era che amava la
musica e passava tutta la notte con lo stereo basso, ma perennemente
acceso su quel gruppo che tanto amava sin dalle superiori e
anch’io mi appassionai a quel gruppo, che amavo ascoltare in
camera di Pride quando lui non c’era.
Nel frattempo che i mesi passavano, i miei studi proseguivano ed io non
avevo nemmeno il coraggio di dirgli quello che provavo per lui
veramente. Litigavamo quando cercavo di ribellarmi ai suoi ordini, a
cui non mi dispiaceva certo obbedire, ma odiavo non essere ricambiata
quando mi bastava solamente una parola carina oppure un sorriso.
No. Lui non sorrideva mai, lui viveva nell’odio contro il
mondo, col rancore nelle vene! Ai suoi occhi ero solo una patetica
femmina buona solo a rompere le scatole!
Quanti anni avevo sciupato nella paura di rovinare tutto?
Potevo perderlo da un giorno all’altro, ma non riuscii mai a
fare niente, se non rovinarmi i miei anni migliori.
Una sera però, dopo ore ed ore passate chiusa in bagno a
piangere, trovai il coraggio di dirgli quello che provavo, ed
iniziò la fine…
Quella sera Crilin non era in casa come al solito, e Pride
rientrò alle due di notte com’era sua abitudine.
Ero semi stesa sul divano e lo salutai gentilmente quando
varcò la soglia, senza essere degnata di uno sguardo, come
di routine. Vegeta si prese una birra dal frigo della piccola cucina a
vista e si sedette accanto a me, strappandomi il telecomando dalle mani.
I canali si susseguirono frenetici, ma nulla pareva attirare
l’attenzione dell’uomo seduto accanto me,
perché si, ormai il liceo era finito da un pezzo ed eravamo
cresciuti: mi sarei laureata entro breve e la mia vita era incasinata
da lui. Oppure ero io stessa che mi crogiolavo in futili pensieri che
mai avevo esposto, ma mi ero finalmente decisa a dirgli tutto quello
che pensavo e provato! Tutto quanto…
«Vegeta…» cercai di attirare la sua
attenzione, senza successo. Comunque le orecchie le aveva, quindi
continuai a parlare. «Mi sono innamorata da te. Da
anni.» dissi secca, senza troppi preamboli o giri di parole.
Ebbene si, dissi una delle mie cose più importanti al
mondo… nel modo più patetico del mondo, e mi
sentii davvero scema per aver proferito una simile cavolata! Avevo
aspettato anni per cosa? Per fare una figura di emme…
semplice.
Lui si voltò verso di me con un sopracciglio alzato ed il
perenne cipiglio bieco.
«Guarda. Non me n’ero accorto!»
esordì con tutto il sarcasmo che riuscì a gettar
fuori!
«Che stronzo! Un po’ di tatto no, vero?»
imprecai alzandomi; già mi sentivo una scema di mio, non
c’era alcun bisogno di infierire così, ma lui mi
strattonò per un braccio e mi ritrovai a terra fra le sue
gambe.
«Se ti piaccio tanto puoi sempre renderti utile»
ghignò mentre slacciandosi i pantaloni, con gli occhi di
brace fissi nei miei.
«Vuoi violentarmi?!» il mio tono era
però di sfida, non di rassegnazione; né tantomeno
di paura.
«Per beccarmi una bella denuncia? No! Assolutamente
no!» se la rise beffardo.
«E cosa vuoi fare allora?» domandai confusa.
«La domanda è… cosa vuoi fare
tu…» pronunciò lentamente quella frase,
sorridendo ambiguo mentre la sua parte più intima era
davanti ai miei occhi, senza più alcun ostacolo: mi stava
umiliando nella maniera più crudele del mondo!
Voleva… voleva un pompino e tanti saluti?
Passai qualche minuto in silenzio; l‘aria era carica nella
stanza e dalla televisione provenivano voci isteriche che blateravano
al vuoto, solo una lampada da comò ad illuminare la sala
semi oscura.
«Nulla» mormorai alzandomi, seguita dai suoi occhi
d’ebano che non osavo incrociare.
La verità era che, per un solo istante, Vegeta
riuscì a farmi sentire una puttana; e non per il gesto in
sé, ma perché per un attimo avevo davvero pensato
di fare qualcosa di cui mi sarei poi pentita.
Assurdo… ero assurda io ed era assurdo anche lui e tutta
quella situazione di merda, ma quando ormai le mie guance erano bagnate
dalle lacrime, mi ritrovai attaccata al muro con due forti braccia che
mi circondarono la vita. Vegeta accarezzò ogni centimetro
del mio corpo, ma non delicatamente: i suoi baci sul collo, la sua
lingua sulla mia pelle sensibile, e le sue mani sul mio seno eccitato,
reclamavano soltanto possesso, passione e voglia di sesso;
nient’altro.
Lo lasciai fare e ben presto risposi involontariamente ai suoi gesti
con gemiti di piacere, strusciandomi contro di lui, contro il suo
membro indurito dandogli la schiena e, con le mani poggiate
sul muro, gli permisi di entrare in me: quella notte lo facemmo
così, in quel salotto impregnato di gemiti e squallore.
Nulla più del piatto sesso, come specificò Vegeta
stesso poco dopo essersi preso un’altra birra e le cose
continuarono ad essere così per molto, molto tempo.
Usata come un’amica di letto, come una femmina atta solamente
a soddisfare dei bisogni fisici di un uomo tormentato da sé
stesso, dal suo passato e dal suo presente.
Sperai nel profondo mio cuore che un giorno lui mi vedesse con occhi
diversi, con gli occhi di un amante e non di un aguzzino
approfittatore, eppure lo lasciavo fare ogni volta che voleva, spesso
ricambiando e donandogli piacere per poi chiudermi in bagno a piangere
per ore.
Delle volte esagerava e mi faceva del male, ma non facevo niente, non
dicevo nulla: io lo amavo con tutta me stessa ed ero disposta a
qualunque cosa per lui, persino a farmi umiliare a quel modo.
Ero diventata succube di un amore impossibile.
***
Qualche anno più tardi, il boss della Mafia
dell’ovest, Cell, riuscì a conquistare persino il
dominio della Capitale… e dettò legge!
Nessuno poteva fermarlo e, con maschere ipocrite, si era stabilito al
governo: apparve come un grande scienziato degno del padre, da premio
Nobel, ed era un magnate dell’industria chimica molto in voga
in quegli anni.
La cosa fu riluttante di per sé, ma per Vegeta era pura
eresia!
Non poteva vedere quel figlio di puttana sovrastare tutti; avrebbe
dovuto essere lui a dominare ed essere dov’era arrivato quel
coglione di Cell… fu uno smacco al suo orgoglio. Ancora una
volta…
Abitavamo soli ormai da qualche tempo. Io mi ero laureata da un paio di
anni, lavorando per la filiale della Brief Corp. nella Capitale,
facendo le veci di mio padre; non ero voluta tornare a West Town
perché il mio posto era accanto a Pride, nonostante tutto il
male, senza di lui mi sarei sentita morire… inolte, non
avrei mai potuto lasciarlo solo a sé stesso. Il mio folle
amore me lo impediva ogni giorno, anche in quelli più cupi,
dove la fuga sembrava l’unica soluzione al mio tormento.
Un giorno, mentre stavamo guardando un notiziario riguardante
perlopiù le “magnifiche” imprese di
Cell, mi venne un’idea malsana.
«Perché… non vieni a lavorare con me!
Torniamo da mio padre e vieni alla Briefs Corporation!»
esclamai eccitata, inginocchiandomi sul divano verso di lui,
sovraeccitata per quella pazza idea venuta dal nulla.
«Ma che diamine ti prende! Ma sei scema? Che ti
scoppia!» ruggì lui, spaventato da quel mio strano
scatto euforico.
Risi e gli presi le mani, spiegandogli come, con me, avrebbe potuto
essere felice; essere ricco e famoso, raggiungendo i livelli di quel
farabutto, la cui faccia compariva ormai ovunque; e di come avrebbe
potuto laurearsi accettando i miei soldi in prestito e…
avere una famiglia con me, se lo avesse desiderato. Ma questo ultimo
pensiero non lo dissi a voce alta. Dopotutto non c’era nulla
di serio fra noi.
«Mia madre cucina veramente bene! E poi tu eri bravissimo a
scuola, sono sicura che non ci metteresti molto a laurearti
e…».
«Piantala.» mi frenò serio, tornando a
guardare la tivù.
«Ma perché? Scusa tu
potresti…».
«Ho detto di finirla, Bulma.» disse calmo di
rimando. Raramente mi chiamava per nome.
«Non capisco il motivo di tanta ostinazione! Non ti sto mica
chiedendo di amarmi! Ti sto solo offrendo
l’opportunità della vendetta!» sbraitai
furente.
«Credimi, sarebbe più semplice amarti che
accettare la tua carità!» sbottò
infastidito.
«Amami allora!» dissi gesticolando scocciata.
«’Fanculo Bulma.» il suo tono era piatto,
annoiato.
Sbuffai: perché doveva sempre esser tutto così
complicato?! Perché Goku e Chichi vivevano felici con Gohan,
il loro figlioletto, mentre Crilin e C18 si erano appena felicemente
sposati ed io e Vegeta eravamo ancora fermi al post-liceo?!
Perché io non potevo avere una vita normale?
Blaterai qualcosa come un “vado a letto” o roba
simile, e mi misi sotto le coperte.
Non avevo nessuna speranza. Il mio destino era quello di essere
infelice, sentimentalmente parlando.
Poco dopo, forse colpito da qualche raro senso di colpa, Vegeta venne
nel letto e finimmo per farlo, così come capitava spesso fra
noi. Attimi di pura passione e desiderio…
«Voglio solo che tu sia felice… ma tu mi impedisci
anche quello… è…
frustrante…» bisbigliai una volta in procinto di
dormire, ognuno dal suo lato, entrambi semi seduti nel letto.
«Vieni qui…» mi disse piano Vegeta e di
primo acch9ito sgranai gli occhi, sinceramente sorpresa, e prima che
cambiasse idea, lo abbracciai posando la testa sul suo petto.
Se solo fosse riuscito a capire quanto era grande l’amore che
sentivo per lui…
Se solo avesse capito che avrei dato la vita per renderlo felice, per
vederlo sorridere almeno una volta.
No. Non riuscivo nemmeno in quello. Una vita da fallita sul piano
sentimentale e nei confronti delle persone che mi stavano accanto. Mi
sentii inutile… fottutamente inutile.
Piansi, stringendolo mentre lui guardava freddo il soffitto; la mano
che mi cingeva un fianco scivolava sulla pelle nuda delicatamente. Lui
sapeva, non era stupido, ma ignorava semplicemente il tutto; in fondo,
era più comodo così.
«Smettila di frignare.» mi rimproverò a
bassa voce.
«Ti amo… non ho mai smesso…»
fu l’unica cosa che riuscii a pronunciare, sebbene in modo
quasi impercettibile.
«Uhm…» borbottò, stanco di
sentire quelle due parole che non riusciva ad ammettere a sé
stesso di saper provare, perché si, anche se nessuno dei due
se ne rendeva pienamente conto, Vegeta si era affezionato a me ed ero
l’unica persona vicino a lui, l’unica cui, in un
modo un po’ bizzarro, lo aveva permesso: non aveva nessun
altro oltre.
E a me, che importava del resto? Avevo lui, mi bastava e, forse, non
ero più del tutto ignorata; qualcosa iniziava ad arrivare
anche da parte sua, qualcosa di molto, molto, piccolo.
Ero ricambiata senza saperlo, senza accorgermene e, lentamente, in un
processo organico che durava da anni ormai, da parte di entrambi era
nato qualcosa di più di una semplice cotta, un sentimento
profondo e vero, anche se celato dietro a un muro d’orgoglio.
Quella notte, passata a piangere abbracciata a lui, fu la
più lunga e bella di tutta la mia vita e, cosa
più importante, fu la notte in cui concepimmo nostro figlio.
La scoperta di diventare padre lasciò Vegeta scioccato.
Aveva sempre preso le dovute precauzioni e per anni avevano fatto il
loro sporco lavoro, rendendolo libero di sfogare i suoi istinti senza
preoccuparsi di ricevere notizie seccanti come quella che aveva appena
sentito: evidentemente qualcosa era andato storto. Forse un
preservativo bucato, ma il problema era un altro, dato che la frittata
era già stata fatta: avrebbe avuto un figlio! Cazzo, un
figlio!
Non che la cosa lo disgustasse particolarmente, ma riusciva a stento a
mantenersi da solo, figuriamoci con un moccioso e l’idea che
io potessi abortire -ne sono certa- gli passò nella mente
almeno un centinaio di volte; ciò nonostante non me lo
chiese mai, anzi, mi aveva dato il libero arbitrio ed io risposi che a
trent’anni suonati potevo permettermi di avere un figlio
dalla persona che amavo, anche se non ero ricambiata.
Eravamo a tavola durante il pranzo mentre discutemmo
dell’accaduto; il mio ritardo aveva costretto il mio lato
più timido a farsi coraggio, entrando in una benedetta
farmacia per comprare un fottuto test. Il risultato positivo lo lessi
proprio qualche ora prima, insieme a lacrime di gioia e preoccupazione,
di confusione e risoluzione. Se il destino aveva voluto che avessi un
figlio, lo avrei cresciuto anche da sola.
Ciò che non scorderò mai fu lo sguardo rassegnato
di Vegeta.
Sapevo che stava ripensando alla mia proposta del prestito, e sapevo
anche che per colpa di un imprevisto, quale nostro figlio, avrebbe
dovuto fottere il suo dannatissimo orgoglio. Tuttavia agevolai il corso
dei suoi pensieri, chiedendogli nuovamente se voleva tornare a West, a
casa mia.
«Mi tocca… non sono un irresponsabile e quel
“coso”… è anche
mio.» rispose guardando il tavolo mentre con un cenno della
testa si riferì alla creatura nel mio grembo. Tralasciai la
sua arroganza…
«Non te ne pentirai. Te lo giuro.» esclamai mentre
nel mio cuore sperai proprio di non sbagliarmi.
Così, dopo aver rigirato la faccenda ai miei genitori, che
accolsero la notizia di diventare nonni con molta più gioia
di quanto mi aspettassi, andammo a vivere a West Town.
Qualche anno dopo anche Pride si laureò in ingegneria e
diventò socio di mio padre al cinquanta percento, in cambio
di un matrimonio di facciata: il nostro.
Nonostante fosse atto solo alle apparenze, io sapevo che era
l’unico modo che avevo per ufficializzare la nostra coppia;
non si poteva certo dire che non lo fossimo, dato che ci frequentavamo
da anni senza andare con nessun altro e senza tradirci, per quanto
poteva contare tra due persone non fidanzate e, comunque, Vegeta negli
anni si era ammorbidito nei miei confronti, trattandomi con rispetto,
aiutandomi nel bisogno e standomi vicino sempre, nonostante egli
cercasse di apparire freddo e cinico nei confronti della sua famiglia.
Amava nostro figlio, anche se preferiva non darlo a vedere ed era molto
orgoglioso di lui.
I miei genitori adoravano e viziavano Trunks -così si chiama
il mio bambino- ed insieme vivevamo felici con un azienda leader nel
suo campo e con i giornalisti alle costole, desiderosi di conoscere per
filo e per segno come il figlio di Pride Senior era riuscito a tornare
alla ribalta, sebbene egli fosse sempre schivo e ben lungi dal parlare
dei fatti suoi con gli altri.
***
Quando ripenso alla mia vita prima di quel periodo, mi rendo conto di
quanto, sia io che Vegeta, fossimo stati due sciocchi: avevamo la
felicità a portata di mano, eppure nessuno dei due si era
deciso prima a compiere un qualsiasi passo verso il contatto.
Sarebbe bastato solamente parlare, invece di tacere sempre, aspettando
che la manna cadesse dal cielo e, d'altra parte, sarebbe bastato solo
un piccolo sforzo per abbattere un muro fatto d'orgoglio, costruito
mattone dopo mattone serbando verso gli altri solo odio e rancore.
Avremmo potuto vivere i nostri anni d’oro felici, insieme, ma
avevamo solamente perso del tempo prezioso sprecando la nostra vita.
Nessuno è incapace d'amare e chiunque merita di essere
ricambiato: ci vuole accanto solo la persona giusta.
Tuttavia, nel nostro caso specifico la cosa era stata molto
più problematica, dato che Vegeta era molto più
testardo di me. Ci volle un figlio per fargli capire quanto aver di
nuovo una famiglia fosse importante, e quanto questa possa riuscire a
rendere felice una persona, anche la più bieca scontrosa.
Vegeta non era più solo al mondo, perché se non
mi avesse voluta, non poteva certo cancellare metà del
corredo genetico di suo figlio, che porta con sé gli stessi
tratti paterni.
Potevamo svegliarci prima, questo è vero, ma sono sicura
che, in un modo un po’ subdolo, il Destino aveva previsto il
nostro cammino, passo dopo passo, prevedendo ogni situazione: tutto
doveva essere vissuto a quel modo, e persino quelli che noi definiamo i
nostri “anni persi”, come dal titolo di una canzone
del nostro gruppo preferito, erano in realtà utili e
fondamentali per la nostra crescita. Come coppia e come persone.
Niente è per niente. Tutto serve ad arrivare a un dunque, ed
ogni cosa va vissuta, anche quando ci sembra di sprecare solo del tempo
prezioso. Da giovani si compiono errori, si scelgono strade sbagliate,
ma è altrettanto vero che errando s'impara.
Io e Vegeta abbiamo imparato ad amarci, ad occuparci della nostra
famiglia, della nostra azienda e a convivere nello stesso letto con
lealtà e passione. Abbiamo scoperto quanto i sentimenti
mutano, ma non nel momento in cui giuri amore eterno davanti a Dio,
mentre ti sposi, ma quando vivi e condividi faccende di vita
quotidiana; quando affronti i problemi appoggiandoti a qualcun altro.
Quando litighi e abbassi il capo per fare pace, perché due
adulti devono pensare a ciò a cui hanno dato la vita, prima
che al proprio orgoglio.
Ed anche un uomo cinico e orgoglioso come Vegeta può provare
amore per i suoi cari, può avere una famiglia che lo ama, ed
essere in pace con sé stesso.
Insomma, eravamo felici, ma c’era ancora un faccenda in
sospeso…
Purtroppo, non è sempre facile ingoiare un boccone amaro
come Cell, soprattutto quando si è costretti a vederlo in
ogni momento alla tivù; e quando sai per certo che per colpa
di quel bastardo -e di quel cane di suo padre- tu hai perso un genitore
e tutto ciò che ti apparteneva, il boccone diventa sempre
più grande da mandar giù; ti soffoca,
letteralmente, ed il pensiero ti tormenta la notte, ti inasprisce i
sogni che tramutano in incubi atroci, caricandoti di un odio ancor
più profondo di quello che già covavi prima.
Vegeta dormiva sempre male: lo sentivo muoversi, sudare e svegliarsi di
continuo.
Non passava notte in cui non si alzava almeno due o tre volte ed io non
potevo fare nulla, se non confortarlo con il calore del mio
corpo… ma non era sufficiente. La questione Cell rodeva le
sue interiora sempre di più e sapevo che meditava la sua
vendetta da una vita, sapevo che avrebbe voluto il suo
sangue…
Sono certa che bramasse la sua testa, ed ero fermamente convinta che
sarebbe stato capace di ucciderlo a sangue freddo, se solo gli fosse
stata data la possibilità.
In una parola?! Vegeta era pericoloso; ma forse lo era sempre stato,
non era di certo una novità e la cosa non mi stupiva,
anzi… desideravo aiutarlo, solo che non sapevo come.
Fu la “possibilità” a trovare noi.
Come grandi imprenditori mondiali, anche Vegeta ed io -dopo aver preso
il posto di mio padre come socia di Pride al cinquanta- acquisimmo una
fama internazionale succulenta, come soci e coppia nella vita di tutti
i giorni, suscitando interessi pubblici, rendendoci famosi…
e ciò era proprio il requisito fondamentale che
contraddistingueva i grandi uomini di dominio, imprenditoriale e non,
facenti parte della “Loggia”.
Chiunque facesse parte di questa associazione segreta internazionale,
era un élite.
Solo i prescelti erano ufficiosamente invitati, e questo
capitò a me e mio marito in una tranquilla giornata
d’Aprile: in silenzio ci fissammo, dopo aver letto la lettera
marchiata da un sigillo rosso di cera, ponderando entrambi la stessa
cosa…
Facendo parte della Loggia, avremmo potuto conoscere tutti i segreti di
Cell e, nel caso di Vegeta, avere buone probabilità di
potersi vendicare oppure -meglio ancora- di ucciderlo.
Un pensiero folle il nostro: uccidere è sempre un reato, ed
inoltre ti macchia la coscienza, ma agevolare le indagini della
polizia, magari trovando documenti incriminati, era una chance verso il
successo e la giustizia.
Prendendo parte alle riunioni ed avvicinandoci a quello che era il
mondo dominato da Cell, ci ritrovammo dinnanzi ad uno spettacolo
pazzesco: tutto era controllato, tutto veniva calcolato al dettaglio;
niente era lasciato al caso, persino le guerra fra i paesi erano ben
studiate e meditate nei dettagli.
Nonostante ci spettasse una bella fetta di potere, io e Vegeta non
cademmo mai nel baratro della tentazione, e prima di cedere alle fauci
del potere -cosa che allettava Vegeta e non poco-, dovevamo restare
fedeli ai nostri principi, ma soprattutto scoprire più cose
possibili sul conto di Cell, di Gero e della Red Ribbon Chemical
Industry.
Ci riuscimmo solo un paio di anni più tardi, con e
l’aiuto di alcuni politici e degli imprenditori che, come
noi, non volevano più quel figlio di puttana al potere.
Finalmente trovammo le prove incriminanti e non solo
sull’omicidio di Vegeta Senior Pride, ma anche di Freezer, di
Cold Ice -morto un anno dopo il figlio-, di molti altri uomini di
successo e di complotti, spacci di droga, contatti con la mafia della
Capitale e, cosa che più ci colpì,
l’imminente ordine di farci fuori durante uno dei nostri
viaggi all’estero.
«Bastardo! Questa me la paga!» ringhiò
Vegeta a pugni serrati.
Eravamo a casa, insieme ai tanti detective che seguivano il caso
“President”, mentre stavamo leggendo le varie
scartoffie rubate al farabutto.
«Scommetto che sospettava di noi da tanto! Ecco il
perché vuole farci uccidere… mi chiedo solo
perché abbia aspettato tanto. In fondo sono due anni che
lavoriamo a questo caso e sicuramente qualcuno avrà fatto la
spia per salvarsi la pelle!» riflettei a voce alta.
«Forse eravate troppo in vista, in fondo i giornalisti hanno
smesso da poco di starvi alle calcagna. È più
probabile che abbia aspettato il momento propizio per non destare
nell’occhio, in fondo è sempre il presidente
più bellicoso di tutta la storia degli ultimi tempi e
qualcuno sospetta di lui di sicuro! Senza contare che ha molti
nemici.» mi rispose uno degli uomini di legge.
«Che vada a farsi fottere! Sono stufo di lui! Ha tutto,
cazzo! Che vuole ancora dalla mia vita?! Deve morire!»
sbottò arrabbiato e frustrato Vegeta, camminando qua e
là per la stanza.
Ormai tutti sapevano quanto mio marito odiasse il presidente e nessuno
lo biasimava, dato che tutti conoscevano il suo triste passato.
«Signore. Questa notte inizieremo l’operazione,
stia tranquillo. Presto finirà tutto.»
cercò di rincuorarlo una poliziotta, decisamente carina
-forse un po’ troppo- ma non era né il momento,
né il caso, di fare la moglie gelosa.
«Rimanderete il viaggio, sarete coperti dai nostri agenti
ventiquattro ore su ventiquattro; vi garantiamo la massima protezione,
l’importante, però, è che al processo
che si terrà una volta incriminato il presidente, sia voi
che tutti coloro che vi hanno aiutato sarete disposti a testimoniare
contro di lui! Altrimenti tutto sarà vano e
tornerà a fare il bello ed il cattivo tempo!».
Annuimmo, e quella notte pregammo che tutto finisse.
Non riuscii proprio a prendere sonno, quella notte, e continuavo a
girarmi nel letto nervosamente; Vegeta si era appisolato da poco, in
preda al nervosismo e alla rabbia latente, ma siccome non avrebbe
potuto fare nulla, si costrinse a chiudere occhio almeno per qualche
ora.
Mi convinsi a calmarmi e, quando scesi in cucina per prepararmi una
camomilla, mi sentii strattonare e sbattere a terra. Erano
lì. Ed ero sola.
Mi presero e mi legarono ad una sedia della mia stessa cucina; tra i
miei denti un lurido pezzo di stoffa per zittirmi: sarei morta, lo
sapevo!
Come quella volta a scuola, quando nel bagno del primo piano sentii una
viscida voce sibilare nell’aria, la scena si
ripeté anni dopo: non ci potevo credere! Cell era
lì, ma come diavolo lo sapeva? Ed i poliziotti?
Dov’erano andati tutti? Guardai verso la porta.
«Ehi. Fatti un po’ vedere, bella
bambina!» mi salutò esattamente come allora
«Credevi forse che mi sarei dimenticato di te e di quel
bastardo di Vegeta?! Credevi forse che fossi così fesso da
non rendermi conto di quello che stavate tramando?! Illusi. Entrambi.
Ma sai che ti dico piccola?» proseguì, gustandosi
quel solenne momento.
Dentro di me chiamai Vegeta. Lo supplicai di alzarsi da quel maledetto
letto, di notare la mia assenza, di venire da me! Avevo bisogno di
lui…
«Questa notte vincerò ancora io!»
sibilò maligno.
Guardai Cell con sguardo fiero: meglio morire con onore che piangersi
addosso, ma dentro di me pregavo il mio Dio di aiutarmi, di salvarmi.
Avevo ancora troppe cose da fare. Cosa avrebbe fatto a mio figlio,
avrebbe ucciso anche lui? E se Vegeta fosse già morto?
Quando quelle due domande mi invasero la testa, piansi. Non resistetti
alla paura di perdere coloro che amavo ed ero impotente, paralizzata e
legata nella mia stessa casa…
«SI BRAVA! Inutile essere, PIANGI! Non hai speranze contro di
me, io sono ONNIPOTENTE! Ed ora ti farò pentire di essere
nata!» urlò ridendo, mentre le sue mani mi
strapparono parte della camicia da notte, scoprendo le gambe e parte
della mia biancheria.
Qualcuno, però, attaccato alla porta che dava sul corridoio,
sbirciava la scena con una pistola fra le mani, ora più
ferme che mai.
Puntava la sua preda: aveva già ucciso, e non si sarebbe
fermato nel continuare a strappare vite a lui insignificanti, pur di
avere la sua vendetta. Ma prima… fece un cenno ad una
creatura più piccola, rannicchiata sotto ad un mobile del
salotto, che si racchiuse ancor più a sé stessa,
tappandosi le orecchie.
«CELL!!!» gridò Vegeta uscendo allo
scoperto.
Il suo sguardo era fiero, potente e deciso come quello di un falco
pronto all’attacco.
Lo guardai confusa, mentre la scena scorreva veloce sotto ai miei occhi
azzurri, pregni di lacrime.
Il farabutto non fece in tempo a proferire parola alcuna, che un
proiettile si conficcò giusto fra i suoi occhi scuri,
facendo schizzare il suo sangue rosso scuro ovunque nella stanza,
mentre il suo corpo cadeva come a rallentatore, privo di vita, sulle
fredde mattonelle della mia cucina.
Il Giustiziere, però, non aveva ancora compiuto la sua opera
poiché finì, uno dopo l’altro, tutti
coloro che erano di troppo, tutti coloro che meritavano di morire,
freddandoli velocemente con la mano di un chirurgo e la mira
infallibile, fermo, cinico, fino a quando tutto fu finito.
Sconvolta, fui liberata da “un” uomo che mi
stordì con mille e più domande, strattonandomi e
cercando di farmi riacquisire il controllo di me stessa.
«Stai bene? Ti hanno fatto del male?! Bulma mi
senti?» mi chiamò Vegeta seriamente preoccupato.
Ero sporca di sangue ovunque, e tremavo di paura, scioccata da una
vista tanto brutale, con un forte fischio che mi tappava le
orecchie… solo quanto tornai in me stessa, vidi che
l’uomo che mi aveva salvata, era lo stesso che avevo
invocato: mio marito. Il mio Vegeta…
«T-Trunks…» mugugnai in lacrime, mentre
mi guardai attorno spaesata.
«Tranquilla… non appena ho capito che stavano per
aggredirmi ho preso la pistola e sono corso subito da lui.»
mi rassicurò Vegeta, chiamando il piccolo rimasto sotto al
mobile del salotto, per sapere se stava bene, ma proibendogli di
entrare nella cucina.
Aveva accuratamente omesso il modo in cui si era sbarazzato di tre
uomini, uccidendoli a sangue freddo, per non crearmi ulteriori
sconvolgimenti psicologici.
Vegeta portò fuori me e Trunks, mentre la polizia, capito il
piano di Cell, aveva fatto ritorno nella nostra dimora, sebbene con
spaventoso ritardo, accompagnata da delle ambulanze a sirene spiegate.
Tremai ancora, fuori da quelle mura a me care, sostenuta dal braccio
forte di mio marito che con l’altro teneva per mano il
piccolo Trunks. Lui aveva sicuramente reagito meglio di me: egli,
infatti, era molto più forte; evidentemente aveva ereditato
la forza e il carattere di Vegeta…
Lo fissai ancora interdetta, ma ciò che vidi fu la cura
più grande a tutti i miei dolori…
«È tutto finito…» mi disse
Vegeta sorridendo, per la prima volta, finalmente libero.
***
Questo è quanto è successo fino ad oggi.
Ho quarant’anni, e da uno sono diventata madre di nuovo; la
mia piccola si chiama Bra e la mia famiglia si è felicemente
allargata a quattro elementi.
Dopo quel giorno il rapporto fra me e mio marito migliorò
notevolmente, poiché Vegeta aveva raggiunto il suo scopo e
nessun fantasma del passato tormentava più le sue notti, e
non solo: Pride capì che aveva raggiunto la sua agognata
vendetta solo perché il suo scopo primario, quella notte, fu
quello di proteggere me e Trunks, sua moglie e suo figlio.
Non uccidere Cell, ma proteggerci…
Mai come quel giorno egli capì quanto la Sua Famiglia fosse
realmente la cosa più importante che avesse.
Non desiderava altro che non essere più solo: amava ed era
ricambiato.
Gli avevano ucciso il padre e si era vendicato.
Il Potere non gli interessava più, non più.
Nel frattempo, gestiamo ancora insieme la nostra azienda,
nell’attesa di vedere i nostri figli crescere e farsi una
vita tutta loro…
Tutto il resto è ancora da vedere… e chi lo sa,
forse fra qualche anno la storia avrà un seguito.
La cosa più importante di un ricordo, tuttavia, è
l’averlo vissuto per portarlo nel cuore, anche se la memoria
ti abbandona, perché nessun anno della nostra vita
è sprecato o perso veramente, tutto ha un suo
scopo… ed il nostro era quello di far pace con il mondo,
godendoci l’amore.
Fine.
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