IO,
FENICE
Trascorsi
i primi anni della mia lunga vita in Dolopia, una piccolo e
prosperoso regno incastonato tra l'Epiro, la Tessaglia e l'Etolia.
Ero figlio del Re, Amintore, e nacqui nel suo palazzo, ma quello non
fu mai davvero la mia casa. Mio padre non si comportò mai
come
tale, né amò me e mia madre Cleobula. Si
dimostrava
affettuoso solo nei confronti della mia sorella minore, Astidamia, ma
ho seri dubbi sul fatto che l'amasse davvero.
Per
tutta la mia infanzia però, sopportai d'essere solo
tollerato,
e non amato, e nulla turbò la quiete della mia famiglia,
fino
a che, un giorno sciagurato, mio padre si prese un'amante. Non che
non fosse mai stato con alte donne oltre a mia madre, ma si era
sempre trattato di cose da una notte sola. Quella volta invece se la
tenne a lungo vicina, quasi come una seconda sposa, e non girava mai
senza quell'offensiva sgualdrina.
Quando
la cosa divenne davvero intollerabile, mia madre mi fece chiamare
-Fenice, figlio mio, consolazione della mia vecchiaia...-
-Madre,
non dire così, l'amara vecchiaia non ti ha ancora raggiunta-
la confortai, stringendola a me. Ormai ero più alto di lei e
le sue lacrime salate caddero sulla mia spalla
-Non
sarò vecchia, ma il mio volto mostra sin troppo
sfacciatamente
tutto ciò che ho sofferto- io chinai il capo; mi era
impossibile ribattere poiché sapevo che era vero. Mia madre
era stata una donna molto bella ma le lacrime e le notti insonni alle
quali quel matrimonio odioso e privo d'amore l'avevano costretta
avevano lasciato sulle sue guance e nei suoi occhi segni profondi,
che avevano rovinato la sua beltà prima che lo facesse il
tempo.
-Figlio
mio, ho una cosa sola da dirti: lo sgarbo che mio padre fa a me, lo
fa a te- si era asciugata le lacrime con un gesto rabbioso, e
tratteneva a stento la collera, parlando in tono quieto e dignitoso,
ma vibrante di sdegno -Ciò che macchia il mio onore macchia
il
tuo, finché sei in questa casa. Tu devi difendermi, Fenice-
la
guardai negli occhi, alla ricerca di una risposta, per scoprire cosa
desiderava da me, e tremai nello scorgervi abissi d'odio. Non vi era
amore neppure per me, non in quel momento. Se avessi compiuto la sua
vendetta avrei forse potuto trovare gratitudine negli occhi di mia
madre, ma affetto no. L'infelicità le aveva rubato anche la
capacità di amare. Io giurai a me stesso, vedendo quegli
occhi, che avrei ubbidito, se pure quei laghi gemelli mi avessero
chiesto di uccidere mio padre durante il sonno. Ma non era quello il
piano della donna che io chiamavo madre.
-Portagli
via la donna- mi sussurrò, come se avesse pronunciato una
bestemmia infame -Prendigli quella meretrice, prenditela per te-
-Lo
farò- annuii.
Mantenni
la mia promessa. Non fu difficile: la sgualdrinella non si rendeva
conto delle conseguenze del tradire il re, e peggio ancora del farlo
con suo figlio, e si concesse a me. Ella era attraente, ma non bella.
Aveva fattezze da contadina, appena ingentilite dall'incarnato chiaro
e dai capelli lisci e curati; aveva un corpo flessuoso e forte, e
fianchi larghi. Nel complesso era volgare, o forse mi appariva
così
per l'antipatia ed il fastidio che provavo nei suoi confronti. Non mi
importava di lei, non pensai a lei neppure mentre giacevamo insieme
nel mio letto, nel quale da quel momento mi ripugnò dormire.
Quando
mia madre seppe dell'accaduto, venne lei stessa a ringraziarmi,
vestita dei suoi abiti migliori, che stridevano con le spoglie pareti
in pietra dei miei alloggi, e coi nostri volti tirati, sbattuti dal
sonno e dall'astio che ci consumava.
Quando
mio padre seppe dell'accaduto, venne lui stesso a cercarmi, per
disconoscermi e rinnegare di aver mai avuto un figlio. Mi disse addio
coi calci e mi maledisse a bastonate, ma io non emisi un lamento.
Chiamando a testimoni gli dei dell'oltretomba, custodi dei
giuramenti, decretò che non avrei mai avuto figli miei.
Implorò che il mio nome morisse con me, e che mai donna si
unisse con me in matrimonio -E forse ti faccio anche un favore, cane,
a privarti dei figli, se essi debbono essere ingrati e canaglie come
te!- mi urlò, sputandomi addosso.
E
così fu: non ebbi né una moglie, né
dei figli.
Ma il mio destino non fu gramo. Il Fato condusse i miei passi verso
Ftia, dove il sovrano non mi accolse solo come un povero supplice
scacciato e maledetto qual ero, ma concesse grandi onori. Mi
affidò
il governo di una parte del suo regno e l'educazione del suo unico
figlio ed erede, Achille.
Sin
da quando tornò dopo essere stato affidato a Chirone, io gli
feci da maestro e da padre. Già da piccolo si sentiva
grande,
ma quando credeva che non ci fosse nessuno ad osservarlo si
arrampicava sulle mie ginocchia per essere cullato, o per ascoltare
incantato le storie che gli narravo. Ancora e ancora mi avrebbe
ascoltato per ore, per anni. Quando giunse Patroclo, presi sotto la
mia protezione anche lui. Era un esule come me, anche se più
fortunato: ad Opunte aveva ancora genitori che lo amavano ed
attendevano sue notizie.
Achille
fu la mia consolazione, il mio pupillo, il mio orgoglio. Lo seguii
sempre, fino alla fine.
IO,
DEIDAMIA
Per
la prima volta dopo molto tempo, forse per la prima volta nella mia
vita, non dovevo preoccuparmi del futuro. Sapevo che la gentilezza e
le premure di Achille sarebbero finite non appena egli si fosse
dovuto allontanare per qualche tempo o avesse trovato una bella donna
a distrarlo, ma mi fidavo di lui e sapevo che in quanto madre di suo
figlio non sarei stata gettata sulla strada. La parola madre suonava
ancora strana sulle mie labbra; quelle labbra delle quali avevo fatto
usi innominabili avrebbero presto cantato ninne nanne? In alcuni
momenti il pensiero di un figlio mi rendeva felice, mentre in altri
dimenticavo completamente di essere incinta. Col passare delle
settimane però divenne sempre più difficile
scordarlo,
poiché il mio ventre cresceva lentamente ma visibilmente.
Quando Achille veniva a trovarmi notavo le occhiate curiose che mi
lanciava di soppiatto. Era buffo e quasi tenero: in quei momenti
perdeva quell'aria di autorità e forza che si andava
formando
sempre più in lui. Sembrava chiedersi: “Ma davvero
io ho
avuto parte in questo? Cosa c'è di me in lei?” e
socchiudeva
gli occhi, perplesso dal mistero della vita, ma mai spaventato.
Non
prese una nuova amante per molto tempo dopo di me. Ho il sospetto che
la compagnia di Patroclo gli fosse sufficiente; senza contare che non
avrebbe mai voluto nel suo letto una schiava qualunque. Probabilmente
aspettava un'altra bellissima danzatrice come me. Ma ci fu un periodo
durante il quale non ebbe molto tempo per dedicarsi ai divertimenti:
una nuova guerra era cominciata. Non erano una novità gli
scontri regionali, nei quali vincitori e vinti si sarebbero presto
alleati, per poi scontrarsi di nuovo in un ciclo infinito di rancori
e vendette incrociate, e di interessi economici e politici.
Non
fu una lunga guerra, né vi erano in gioco grandi potenze, ma
fu la prima combattuta da Achille. Durò una sola estate (in
inverno nessun popolo civile combatteva). Quando il principe
tornò
era cambiato. Ma cosa ne posso sapere io, una semplice donna, di
ciò
che vide e ciò che fece in quegli scontri? Cosa ne posso
sapere io, una danzatrice, di cosa vuol dire dare la morte e
rischiare la vita?
IO,
PELEO
Il
sovrano di Ica, un'isola vicina a Ftia, aveva stipulato con me un
trattato nel quale si impegnava a concedere libero approdo alle navi
provenienti dal mio regno; in cambio la sua piccola flotta avrebbe
ricevuto lo stesso trattamento in tutti i nostri porti. Io non
regnavo, come spesso credete voi, solo sull'isola di Ftia, ricca ma
di dimensioni piuttosto ridotte, bensì estendevo il mio
potere
su un piccolo arcipelago.
Non
molto tempo dopo il trattato però, il re di Ica aveva
iniziato
a chiedere alle nostre imbarcazioni pesanti dazi per poter
commerciare nell'isola. Dopo alcuni vani tentativi di trattare, mi
ero reso conto che tutto quello che il mio antico alleato voleva
ottenere era uno scontro. Lo stolto non aveva riflettuto sul fatto
che i miei Mirmidoni fossero i combattenti migliori della Grecia.
Raccolsi la sfida, benché l'esito dello scontro mi apparisse
scontato. I nostri soldati non vedevano l'ora di partire e dar prova
del proprio valore, dopo un periodo di relativa pace piuttosto lungo.
Ora, vorrei chiarire cosa s'intende per lungo periodo: forse per voi
sono vent'anni, o dieci, ma allora le guerre erano pressoché
continue. Ftia aveva goduto di cinque o sei anni di pace al massimo.
Mi
recai personalmente a parlare ad Achille dell'imminente guerra. Ci
sedemmo l'uno di fronte all'altro, e gli spiegai la situazione. Ormai
era grande abbastanza per farsi carico delle sue
responsabilità
e prendere parte agli scontri; sapevo che attendeva da sempre quel
momento.
-In
quanto mio erede, ti spetta un posto di comando, ma siccome non hai
nessuna esperienza combatterai insieme a tutti gli altri- decretai in
tono severo, ma poi proseguii più dolcemente -Non porterai
insegne regali, in modo che i nemici non concentrino le loro forze
contro di te o tentino di prenderti prigioniero- stranamente mio
figlio non aveva replicato alle prime affermazioni, ma vidi che la
rabbia si faceva strada in lui prima ancora che sbottasse: -Padre!-
-So
cosa vuoi dirmi, ma non si discute. Non vedrò morire il mio
unico figlio, ucciso alla sua prima battaglia!-
-Ed
io non sarò disonorato combattendo senza insegne!-
reagì
Achille, palesemente irato, offeso e deluso dalle mie parole. Io
però
non mi lasciai impressionare: avevo i miei buoni motivi e non avrei
cambiato idea -Non capisci che è proprio per il tuo onore
che
lo faccio?-
Egli
si azzittì all'istante e prese a fissarmi interrogativo. Mi
passai una mano fra i capelli e spiegai in tono quieto: -Questa
guerra è molto importante per noi. Da essa dipende il futuro
di Ftia. Però non riguarda altri che noi e Ica. Tu, figlio
mio, hai davanti un cammino glorioso, e non è destino che
termini ora, prima che tu abbia potuto brillare davanti a molti
popoli e mostrare al mondo la tua forza-
Grazie,
titemi,
per aver aggiunto questa fic ai preferiti.
Pluma
grazie mille dei complimenti. Eh, sì abbiamo un
Achille
proprio buono e “puccioso”, ma è solo
che la sua parte
sanguinaria non ha ancora trovato con chi sfogarsi... e dire che
quando ho iniziato a scrivere era antipatico pure a me! Però
durante un'ora di epica in cui mi annoiavo molto ho preso un foglio
già mezzo scribacchiato (mai che io inizi a scrivere su un
bel
figlio pulito) e ho scritto, così senza pensare: Il
mio
nome è Achille... e così ho iniziato.
Ho passato il
resto dell'ora a scribacchiare e a cancellare l'inizio. Meglio
“io
sono Achille” o “il mio nome è
Achille”? Quello era il
dilemma! Poi ho copiato a computer quella parte e per giorni mi sono
alzata un'ora prima del solito per scrivere in pace del nostro eroe;
dopo di che però è rimasto più di un
anno a
languire incompiuto nel computer. Ok, magari non te ne fregava
niente, però io volevo raccontartelo (ho la fissa di
raccontare storie, non so se si nota^^)
Puntiglio mitologico:
Questa
guerra è solo frutto della mia invenzione. Infatti per
quanto
abbia cercato non ho trovato alcuna descrizione di scontri a cui
abbia partecipato Achille prima della guerra di Troia. Ciò
è
anche comprensibile, dato che i miti sono più o meno
concordi
nell'affermare che egli salpò alla volta di Ilio a quindici
anni, sebbene mi paia di ricordare (ma non ne sono certa) che si
faccia effettivamente riferimento a prove di valore dell'eroe acheo
precedenti all'assedio di Troia.
Ica
invece esiste, o meglio, è la versione italianizzata di
Icus,
isoletta nei pressi di Ftia, che ho scovato su una mappa della Grecia
antica.
La
storia di Fenice è solo una delle molte versioni fornite dal
mito. La più conosciuta narra che Ftia, una concubina di
Amintore, avesse accusato Fenice di aver tentato di violentarla.
Amintore dunque in preda alla rabbia l'avrebbe accecato e maledetto,
condannandolo a non avere mai figli. Quando Fenice giunse a Ftia,
Peleo non solo gli offrì ospitalità, ma convinse
il
centauro Chirone a guarirlo dalla cecità e fu lui ad
affidargli il governo della Dolopia.
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