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Autore: Gondolin    05/12/2008    6 recensioni
Se ancora vivo nel vostro ricordo lo devo ad Omero, ma leggendo il suo poema spesso dimenticate che anch’io sono stato (purtroppo?) un uomo. Ho amato, vissuto, ho sofferto e pianto, e soprattutto ho lottato.
{Achille/Patroclo}
Genere: Guerra, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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IO, FENICE


Trascorsi i primi anni della mia lunga vita in Dolopia, una piccolo e prosperoso regno incastonato tra l'Epiro, la Tessaglia e l'Etolia. Ero figlio del Re, Amintore, e nacqui nel suo palazzo, ma quello non fu mai davvero la mia casa. Mio padre non si comportò mai come tale, né amò me e mia madre Cleobula. Si dimostrava affettuoso solo nei confronti della mia sorella minore, Astidamia, ma ho seri dubbi sul fatto che l'amasse davvero.

Per tutta la mia infanzia però, sopportai d'essere solo tollerato, e non amato, e nulla turbò la quiete della mia famiglia, fino a che, un giorno sciagurato, mio padre si prese un'amante. Non che non fosse mai stato con alte donne oltre a mia madre, ma si era sempre trattato di cose da una notte sola. Quella volta invece se la tenne a lungo vicina, quasi come una seconda sposa, e non girava mai senza quell'offensiva sgualdrina.

Quando la cosa divenne davvero intollerabile, mia madre mi fece chiamare -Fenice, figlio mio, consolazione della mia vecchiaia...-

-Madre, non dire così, l'amara vecchiaia non ti ha ancora raggiunta- la confortai, stringendola a me. Ormai ero più alto di lei e le sue lacrime salate caddero sulla mia spalla

-Non sarò vecchia, ma il mio volto mostra sin troppo sfacciatamente tutto ciò che ho sofferto- io chinai il capo; mi era impossibile ribattere poiché sapevo che era vero. Mia madre era stata una donna molto bella ma le lacrime e le notti insonni alle quali quel matrimonio odioso e privo d'amore l'avevano costretta avevano lasciato sulle sue guance e nei suoi occhi segni profondi, che avevano rovinato la sua beltà prima che lo facesse il tempo.

-Figlio mio, ho una cosa sola da dirti: lo sgarbo che mio padre fa a me, lo fa a te- si era asciugata le lacrime con un gesto rabbioso, e tratteneva a stento la collera, parlando in tono quieto e dignitoso, ma vibrante di sdegno -Ciò che macchia il mio onore macchia il tuo, finché sei in questa casa. Tu devi difendermi, Fenice- la guardai negli occhi, alla ricerca di una risposta, per scoprire cosa desiderava da me, e tremai nello scorgervi abissi d'odio. Non vi era amore neppure per me, non in quel momento. Se avessi compiuto la sua vendetta avrei forse potuto trovare gratitudine negli occhi di mia madre, ma affetto no. L'infelicità le aveva rubato anche la capacità di amare. Io giurai a me stesso, vedendo quegli occhi, che avrei ubbidito, se pure quei laghi gemelli mi avessero chiesto di uccidere mio padre durante il sonno. Ma non era quello il piano della donna che io chiamavo madre.

-Portagli via la donna- mi sussurrò, come se avesse pronunciato una bestemmia infame -Prendigli quella meretrice, prenditela per te-

-Lo farò- annuii.

Mantenni la mia promessa. Non fu difficile: la sgualdrinella non si rendeva conto delle conseguenze del tradire il re, e peggio ancora del farlo con suo figlio, e si concesse a me. Ella era attraente, ma non bella. Aveva fattezze da contadina, appena ingentilite dall'incarnato chiaro e dai capelli lisci e curati; aveva un corpo flessuoso e forte, e fianchi larghi. Nel complesso era volgare, o forse mi appariva così per l'antipatia ed il fastidio che provavo nei suoi confronti. Non mi importava di lei, non pensai a lei neppure mentre giacevamo insieme nel mio letto, nel quale da quel momento mi ripugnò dormire.

Quando mia madre seppe dell'accaduto, venne lei stessa a ringraziarmi, vestita dei suoi abiti migliori, che stridevano con le spoglie pareti in pietra dei miei alloggi, e coi nostri volti tirati, sbattuti dal sonno e dall'astio che ci consumava.

Quando mio padre seppe dell'accaduto, venne lui stesso a cercarmi, per disconoscermi e rinnegare di aver mai avuto un figlio. Mi disse addio coi calci e mi maledisse a bastonate, ma io non emisi un lamento. Chiamando a testimoni gli dei dell'oltretomba, custodi dei giuramenti, decretò che non avrei mai avuto figli miei. Implorò che il mio nome morisse con me, e che mai donna si unisse con me in matrimonio -E forse ti faccio anche un favore, cane, a privarti dei figli, se essi debbono essere ingrati e canaglie come te!- mi urlò, sputandomi addosso.

E così fu: non ebbi né una moglie, né dei figli. Ma il mio destino non fu gramo. Il Fato condusse i miei passi verso Ftia, dove il sovrano non mi accolse solo come un povero supplice scacciato e maledetto qual ero, ma concesse grandi onori. Mi affidò il governo di una parte del suo regno e l'educazione del suo unico figlio ed erede, Achille.

Sin da quando tornò dopo essere stato affidato a Chirone, io gli feci da maestro e da padre. Già da piccolo si sentiva grande, ma quando credeva che non ci fosse nessuno ad osservarlo si arrampicava sulle mie ginocchia per essere cullato, o per ascoltare incantato le storie che gli narravo. Ancora e ancora mi avrebbe ascoltato per ore, per anni. Quando giunse Patroclo, presi sotto la mia protezione anche lui. Era un esule come me, anche se più fortunato: ad Opunte aveva ancora genitori che lo amavano ed attendevano sue notizie.

Achille fu la mia consolazione, il mio pupillo, il mio orgoglio. Lo seguii sempre, fino alla fine.



IO, DEIDAMIA


Per la prima volta dopo molto tempo, forse per la prima volta nella mia vita, non dovevo preoccuparmi del futuro. Sapevo che la gentilezza e le premure di Achille sarebbero finite non appena egli si fosse dovuto allontanare per qualche tempo o avesse trovato una bella donna a distrarlo, ma mi fidavo di lui e sapevo che in quanto madre di suo figlio non sarei stata gettata sulla strada. La parola madre suonava ancora strana sulle mie labbra; quelle labbra delle quali avevo fatto usi innominabili avrebbero presto cantato ninne nanne? In alcuni momenti il pensiero di un figlio mi rendeva felice, mentre in altri dimenticavo completamente di essere incinta. Col passare delle settimane però divenne sempre più difficile scordarlo, poiché il mio ventre cresceva lentamente ma visibilmente. Quando Achille veniva a trovarmi notavo le occhiate curiose che mi lanciava di soppiatto. Era buffo e quasi tenero: in quei momenti perdeva quell'aria di autorità e forza che si andava formando sempre più in lui. Sembrava chiedersi: “Ma davvero io ho avuto parte in questo? Cosa c'è di me in lei?” e socchiudeva gli occhi, perplesso dal mistero della vita, ma mai spaventato.

Non prese una nuova amante per molto tempo dopo di me. Ho il sospetto che la compagnia di Patroclo gli fosse sufficiente; senza contare che non avrebbe mai voluto nel suo letto una schiava qualunque. Probabilmente aspettava un'altra bellissima danzatrice come me. Ma ci fu un periodo durante il quale non ebbe molto tempo per dedicarsi ai divertimenti: una nuova guerra era cominciata. Non erano una novità gli scontri regionali, nei quali vincitori e vinti si sarebbero presto alleati, per poi scontrarsi di nuovo in un ciclo infinito di rancori e vendette incrociate, e di interessi economici e politici.

Non fu una lunga guerra, né vi erano in gioco grandi potenze, ma fu la prima combattuta da Achille. Durò una sola estate (in inverno nessun popolo civile combatteva). Quando il principe tornò era cambiato. Ma cosa ne posso sapere io, una semplice donna, di ciò che vide e ciò che fece in quegli scontri? Cosa ne posso sapere io, una danzatrice, di cosa vuol dire dare la morte e rischiare la vita?



IO, PELEO


Il sovrano di Ica, un'isola vicina a Ftia, aveva stipulato con me un trattato nel quale si impegnava a concedere libero approdo alle navi provenienti dal mio regno; in cambio la sua piccola flotta avrebbe ricevuto lo stesso trattamento in tutti i nostri porti. Io non regnavo, come spesso credete voi, solo sull'isola di Ftia, ricca ma di dimensioni piuttosto ridotte, bensì estendevo il mio potere su un piccolo arcipelago.

Non molto tempo dopo il trattato però, il re di Ica aveva iniziato a chiedere alle nostre imbarcazioni pesanti dazi per poter commerciare nell'isola. Dopo alcuni vani tentativi di trattare, mi ero reso conto che tutto quello che il mio antico alleato voleva ottenere era uno scontro. Lo stolto non aveva riflettuto sul fatto che i miei Mirmidoni fossero i combattenti migliori della Grecia. Raccolsi la sfida, benché l'esito dello scontro mi apparisse scontato. I nostri soldati non vedevano l'ora di partire e dar prova del proprio valore, dopo un periodo di relativa pace piuttosto lungo. Ora, vorrei chiarire cosa s'intende per lungo periodo: forse per voi sono vent'anni, o dieci, ma allora le guerre erano pressoché continue. Ftia aveva goduto di cinque o sei anni di pace al massimo.

Mi recai personalmente a parlare ad Achille dell'imminente guerra. Ci sedemmo l'uno di fronte all'altro, e gli spiegai la situazione. Ormai era grande abbastanza per farsi carico delle sue responsabilità e prendere parte agli scontri; sapevo che attendeva da sempre quel momento.

-In quanto mio erede, ti spetta un posto di comando, ma siccome non hai nessuna esperienza combatterai insieme a tutti gli altri- decretai in tono severo, ma poi proseguii più dolcemente -Non porterai insegne regali, in modo che i nemici non concentrino le loro forze contro di te o tentino di prenderti prigioniero- stranamente mio figlio non aveva replicato alle prime affermazioni, ma vidi che la rabbia si faceva strada in lui prima ancora che sbottasse: -Padre!-

-So cosa vuoi dirmi, ma non si discute. Non vedrò morire il mio unico figlio, ucciso alla sua prima battaglia!-

-Ed io non sarò disonorato combattendo senza insegne!- reagì Achille, palesemente irato, offeso e deluso dalle mie parole. Io però non mi lasciai impressionare: avevo i miei buoni motivi e non avrei cambiato idea -Non capisci che è proprio per il tuo onore che lo faccio?-

Egli si azzittì all'istante e prese a fissarmi interrogativo. Mi passai una mano fra i capelli e spiegai in tono quieto: -Questa guerra è molto importante per noi. Da essa dipende il futuro di Ftia. Però non riguarda altri che noi e Ica. Tu, figlio mio, hai davanti un cammino glorioso, e non è destino che termini ora, prima che tu abbia potuto brillare davanti a molti popoli e mostrare al mondo la tua forza-



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Grazie, titemi, per aver aggiunto questa fic ai preferiti.

Pluma grazie mille dei complimenti. Eh, sì abbiamo un Achille proprio buono e “puccioso”, ma è solo che la sua parte sanguinaria non ha ancora trovato con chi sfogarsi... e dire che quando ho iniziato a scrivere era antipatico pure a me! Però durante un'ora di epica in cui mi annoiavo molto ho preso un foglio già mezzo scribacchiato (mai che io inizi a scrivere su un bel figlio pulito) e ho scritto, così senza pensare: Il mio nome è Achille... e così ho iniziato. Ho passato il resto dell'ora a scribacchiare e a cancellare l'inizio. Meglio “io sono Achille” o “il mio nome è Achille”? Quello era il dilemma! Poi ho copiato a computer quella parte e per giorni mi sono alzata un'ora prima del solito per scrivere in pace del nostro eroe; dopo di che però è rimasto più di un anno a languire incompiuto nel computer. Ok, magari non te ne fregava niente, però io volevo raccontartelo (ho la fissa di raccontare storie, non so se si nota^^)

Puntiglio mitologico:

Questa guerra è solo frutto della mia invenzione. Infatti per quanto abbia cercato non ho trovato alcuna descrizione di scontri a cui abbia partecipato Achille prima della guerra di Troia. Ciò è anche comprensibile, dato che i miti sono più o meno concordi nell'affermare che egli salpò alla volta di Ilio a quindici anni, sebbene mi paia di ricordare (ma non ne sono certa) che si faccia effettivamente riferimento a prove di valore dell'eroe acheo precedenti all'assedio di Troia.

Ica invece esiste, o meglio, è la versione italianizzata di Icus, isoletta nei pressi di Ftia, che ho scovato su una mappa della Grecia antica.

La storia di Fenice è solo una delle molte versioni fornite dal mito. La più conosciuta narra che Ftia, una concubina di Amintore, avesse accusato Fenice di aver tentato di violentarla. Amintore dunque in preda alla rabbia l'avrebbe accecato e maledetto, condannandolo a non avere mai figli. Quando Fenice giunse a Ftia, Peleo non solo gli offrì ospitalità, ma convinse il centauro Chirone a guarirlo dalla cecità e fu lui ad affidargli il governo della Dolopia.


  
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