That
Love is All There is
Terre_del_Nord
Slytherin's Blood
Habarcat - I.014
- Herrengton Hill
Sirius
Black
Herrengton Hill, Highlands - ven. 18 giugno 1971
Alla
fine il giorno era arrivato: non potevo davvero crederci. Il mattino
successivo alla visita a Lestrange, mentre, ancora dubbioso, facevo
colazione lentamente, sperando invano di poter rimanere da solo con mio
padre e ottenere da lui qualche risposta, Kreacher arrivò
tutto
trafelato, con una lettera di Alshain Sherton stretta nel pugnetto
ossuto: ci comunicava che era tutto pronto per la nostra vacanza e che
sarebbe venuto a prenderci personalmente quello stesso
venerdì.
Quando mi resi conto che era ora di partire, invece di essere preso
dall’eccitazione e dalla felicità, sentii farsi
largo un
terrore sordo: ero convinto che io non sarei partito, perché
in
quei pochi giorni poteva capitare di tutto, mia madre poteva inventarsi
una punizione per qualcosa, io potevo mettermi nei guai, ammalarmi o
ferirmi… finii col passare i giorni che mi separavano da
quel
venerdì con un’ansia tremenda, che probabilmente
mi
avrebbe fatto ammalare sul serio.
Non dormii neppure la notte della vigilia: agitato, camminavo avanti e
indietro nella mia stanza, guardavo fuori dalla finestra ogni pochi
minuti, immaginando che Sherton arrivasse in piena notte e portasse via
solo Reg, finché, sfinito, mi appoggiai allo stipite della
finestra e finii col cedere lì alla stanchezza.
All’alba,
accarezzato dalle prime luci, mi ridestai di soprassalto, impaurito e
allucinato, con la testa gonfia e confusa, con le orecchie tese per
recepire qualsiasi brusio, mi lavai, mi diedi una sistemata ai capelli,
mi misi una camicia pulita, che, fresca di bucato, mi avevano portato
gli elfi nottetempo, e attesi, seduto in fondo al letto: se fossi
andato a svegliare Regulus o fossi sceso di sotto prima del tempo,
avrei dato a mia madre la scusa per punirmi. Di colpo sentii qualcuno
bussare alla porta, tre, quattro volte, poi il vecchio Kreacher
entrò, grugnì qualcosa, deluso di avermi trovato
già in piedi e di non avermi potuto svegliare con il suo
orrido
ghigno e i vacui occhi a palla, quindi prima d andarsene mi disse in
malo modo di scendere di sotto. Nel soggiorno trovai i miei, come
sempre arcigni, mio fratello, sceso poco prima di me, insonnolito e
confuso, e Alshain Sherton, vestito con un elegante abito color crema,
ancora più bello che al matrimonio di mia cugina. Cercai di
non
far trasparire l’eccitazione che provavo: per la prima volta
nella mia vita, stavo per fuggire dal 12 di Grimmauld Place e dai suoi
orrendi proprietari, per quasi due mesi. Non era la vacanza in
sé, né il fatto che sarei stato con Sherton, era
proprio
l’idea di non vedere mio padre e mia madre per tutto quel
tempo
che mi rendeva felice: a quel punto riuscivo ad avere persino pensieri
amorevolmente fraterni per Regulus.
“Ragazzi mi raccomando, non
mettetemi in
imbarazzo, non combinate guai, o vi giuro che vi sprofondo nelle
segrete di casa Sherton con le mie stesse mani, una volta per
tutte!”.
Nostro padre ci gracchiava contro, ma né io né
mio
fratello lo stavamo più a sentire: ci sembrava di
partecipare a
un sogno, Alshain sembrava un cavaliere uscito da una favola per
liberarci e presto anche noi saremmo stati protagonisti di fantastiche
avventure al suo fianco. Il nostro sorriso era davvero compiaciuto e
solo in parte offuscato dall’aria funerea stampata sul viso
della
mamma; inoltre ci ritrovammo piacevolmente incoraggiati quando Alshain
ci rivolse una risata canzonatoria, commentando la comparsa dei nostri
bagagli.
“Ragazzi, non è
necessario che portiate
con voi altro, oltre voi stessi, quello che indossate adesso, e i
ricambi che ho concordato con vostro padre. A Herrengton
c’è tutto quello che può servirvi a
passare le
prossime settimane senza annoiarvi, non vi preoccupate.”
Sì, stavamo davvero per uscire dall’orbita delle
assurde
fisime di nostra madre! Niente regole, niente etichetta, niente ciance,
per ben due mesi! Alshain si voltò sorridente verso nostra
madre, che finse di guardare altrove, e parve rimanerne deluso, ma non
sorpreso, fece un cenno a nostro padre che gli porse poco convinto un
vecchio calzino rattoppato, di lana a righe rosse e verdi:
l’avevo notato stranamente abbandonato sul divano, una vera
indegnità per i canoni della nostra famiglia, meritevole di
uno
dei classici attacchi isterici e di folle rabbia per cui mia madre era
tristemente famosa tra i nostri domestici. Capii solo allora che si
trattava della passaporta creata apposta da Sherton non solo per
portarci a Herrengton, ma anche, e forse soprattutto, per prendere in
giro il carattere così poco scherzoso dei miei genitori:
così bizzarra e fuori dagli schemi, contrastava infatti
completamente con la nobile altezzosità di casa Black.
“E tu questa la chiameresti
passaporta?”
“Orion, in qualche modo dovevo
dimostrarti che
non è l’aspetto a rendere migliore la
magia...”
Gli fece un occhietto e mio padre sbuffò esasperato, di
certo
quella era una discussione che noi non capivamo ma che apparentemente
li coinvolgeva già da un pò.
“Bene, ragazzi, ora prendete
un lembo del
tessuto e tenetelo stretto, e occhio a non mollare mai la presa fino
all’arrivo”.
Per congedarsi, Sherton salutò mia madre con un inchino e il
solito bacio della mano, ma lei sdegnosa non parve perdonarlo, urtata
com’era per la sfacciataggine del calzino e chissà
per
cos’altro, poi, quasi di forza, abbracciò mio
padre, che
cercava di mediare tra la scontentezza della mamma e la
solarità
dell’amico, optando infine per un’espressione
scontenta,
come se gli importasse davvero che stavamo partendo. Quando alla fine
si guardarono, però, vidi nei suoi occhi la luce diversa, la
luce vitale, quella che assumeva solo con Alshain, come se riconoscesse
se stesso solo in quei momenti, attraverso il suo amico. Gli prese le
mani tatuate e le ammirò, lo guardò negli occhi,
avvicinò il viso all’orecchio sinistro dicendo
qualcosa
che nessuno di noi comprese, Sherton fece un cenno di assenso e, quando
si staccarono, sorrisero entrambi. Vidi, in mio padre,
l’espressione serena e giovane, che gli ero riuscito a
scorgere
solo in qualche vecchia foto: fu allora che ricordai… Quando
avevo cinque anni, giocando, avevo trovato una foto di scuola di mio
padre, diciottenne, abbracciato a un ragazzo magro e già un
poco
più alto di lui, vestiti entrambi con la divisa di
Serpeverde.
Orion teneva con la destra una scopa da Quidditch, che non poteva
essere la sua, poiché sapevo che non aveva mai gareggiato, e
con
l’altra faceva il gesto V di vittoria da dietro la spalla del
suo
amico, che reggeva a sua volta una coppa. Erano radiosi e felici. Era
la stessa foto che avevo visto ad Amesbury il giorno della partenza di
Mey… lei mi aveva chiesto perché ero triste... e
mi aveva
offerto la sua amicizia. Non ci avevo pensato in quei due mesi, avevo
fatto in modo di non pensare mai a lei in tutto quel tempo, di evitarla
e ignorarla se c’erano le condizioni per incontrarsi. Da
allora
non le avevo più parlato... Perché mia madre
diceva
sempre a mio padre che doveva fare di tutto per averla... per Regulus.
E sapevo che la mamma otteneva sempre tutto. Ora l’avrei
rivista… mi avrebbe perdonato per quei mesi di silenzio? E
saremmo stati davvero amici? Mentre ero perso nei miei pensieri,
Sherton si mise al mio fianco e toccò a sua volta la parte
del
calzino adiacente a quella che avevo impugnato io: subito si chiuse il
nostro cerchio e di colpo sentii uno strano calore emergere dal
tessuto, tutto iniziò a girare attorno a me, ero come preso
all’amo, sembrava che qualcosa mi avesse ghermito
all’altezza dello stomaco, vorticai e resistetti a stento dal
mollare la presa. La cosa durò per un tempo che mi parve
interminabile, non immaginavo che fosse così difficile
trattenere un oggetto così insulso, finché alla
fine mi
sentii cadere dall’alto, la presa allo stomaco
finì e il
calzino smise di scottarmi in mano.
Mi ritrovai piegato a terra con mio fratello di fianco a me, sotto la
luce di un pallido sole e una corona di montagne aspre e brulle tutto
intorno a noi. Mi alzai e cercai di mettere a fuoco:
dall’ombra
capii che eravamo sul fianco occidentale di una montagna e precisamente
su una specie di mulattiera; in basso si apriva una valle, separata dal
piede del monte dal letto di un fiume turbinoso che faceva quasi da
confine con la civiltà, e punteggiata da sparute abitazioni
e
qualche campo coltivato. Noi eravamo molto più in alto,
circondati da boschi su tre lati e il quarto era appunto quella specie
di strapiombo di roccia bianca e levigata a picco sul fiume. Per un
attimo fui preda delle vertigini, con la sensazione di essere senza
scampo, poi notai che la stradina in cui ci trovavamo proseguiva e si
snodava tra gli alberi e che il nostro ospite si stava già
avviando in quella direzione. Reg era stupito come me, entrambi
immaginavamo di ritrovarci subito nel salotto degli Sherton, non in
mezzo al nulla, ma mi guardò impaziente e mi
sibilò un “MUOVITI!”
per non rischiare di rimanere indietro a causa delle mie indecisioni,
anche perché, se l’avessimo perso, non sapevamo
come fare
per andare avanti o tornare indietro. Mi passai le mani sui pantaloni e
la camicia, sperando di togliere un po’ di polvere e non
apparire
come un barbaro quando fossimo arrivati a casa Sherton, e mi avviai con
Regulus, all’avventura, quasi trotterellando. Appena entrammo
nel
bosco, vedemmo che Alshain si era fermato ad aspettarci, si era tolto
le vesti eleganti con cui si era presentato a casa nostra e aveva
iniziato a indossare dei pantaloni più comodi e semplici, e
una
specie di tunica corta, rimanendo per un attimo a torso nudo. Ci
invitò a fare altrettanto cambiando le nostre scarpe e i
nostri
indumenti con quelli che ci offrì; mentre, vergognandomi, mi
spogliavo, notai che, sul corpo temprato dalla vita
all’aperto,
portava numerosi tatuaggi: una serie di rune erano collegate dalle
spire di un serpente lungo tutta la spina dorsale, altre serpi
cingevano rune lungo le braccia e le gambe, avevo intravisto qualcosa
durante la sua vestizione a Yule, ma lì, nella luce soffusa
della boscaglia, avevo una vista d’insieme di quel gioco di
arabeschi sulla sua pelle. Mi chiedevo se anche Meissa avesse il corpo
decorato in quel modo.
Per almeno i due terzi del viaggio, Sherton si mostrò poco
loquace: per un po’, ricordando come nostro padre si
lamentasse
spesso delle nostre vane chiacchiere, immaginai che quella fosse la
nostra prima lezione, sicuro com’ero che quella
“vacanza” fosse una specie di scuola di correzione
ideata
dai nostri genitori con la complicità del loro amico. Per
nostra
fortuna, però, l’amico in questione era anche
l’unica persona che conoscessimo, in grado di farci
apprezzare la
vita e dimostrarci che era degna di essere vissuta.
In breve fu chiaro anche il concetto di “femminucce
rammollite” con cui ci bollava sempre nostro padre: mentre
Sherton si muoveva agile su quel percorso aspro che si apriva tra i
boschi, saltava i ruscelli, s’inerpicava tra lingue di
roccia, io
e Reg annaspavamo. Avevamo i piedi feriti, nonostante le calzature
più adatte, le braccia e il viso graffiato dai rami e dai
rovi,
i pantaloni prestati già impolverati e infangati da alcune
cadute. Mio fratello aveva la faccia di chi trattiene ormai a stento le
lacrime, lo guardai storto e con un paio di grugniti, articolare le
parole era ormai un’impresa troppo difficile e faticosa, gli
feci
capire che era probabilmente ciò che si aspettava da noi
nostro
padre e, forse, persino Sherton. Così stringemmo i denti e
proseguimmo. Con molta difficoltà gli stemmo dietro fino a
raggiungere una specie di sbalzo di roccia, sempre sul lato ovest della
montagna, da cui ammirammo un panorama maestoso e riprendemmo fiato. Il
sole era salito a segnare quasi mezzogiorno, la verde pianura era molto
più in basso di prima, la voce del fiume non era
più
percettibile, dinanzi a noi le montagne che ci avevano accolto
all’arrivo come una corona inviolabile, si aprivano in
inaspettati altopiani, boschi e radure.
Sherton ci offrì dell’acqua e estrasse, da una
piccola
bisaccia, un unguento con cui ci curò i piedi piagati.
trasse
poi dalla bisaccia più capiente che portava alla cintola,
del
pane e della carne secca, e la distribuì insieme a frutta
selvatica che aveva raccolto mentre salivamo fin lì.
“Herrengton è molto
lontana?”
Con voce degna di un fantasma, Reg manifestò quanto fosse
preoccupato, sinceramente lo ero anch’io: nulla intorno a
noi,
infatti, faceva pensare che dopo tutta quella fatica ci fossimo
avvicinati a una qualche forma di civiltà, anzi, da
lì,
non si vedevano più nemmeno le sparute casette di prima.
Dov’era lo splendido maniero che avevamo visto durante la
festa
di Habarcat?
“Tutto questo è
Herrengton, da quando
siamo entrati nel bosco e ci siamo tolti le vesti stiamo facendo la via
più sicura per arrivare a casa senza doverci inoltrare nel
fitto
della foresta, per ora non siete adatti a quella strada.”.
Io e Reg ci guardammo, entrambi non osavamo immaginare cosa potesse
essere la foresta di Herrengton, se quell’odissea senza fine
in
cui ci eravamo imbarcati e da cui difficilmente saremmo usciti vivi,
era da considerarsi la strada più sicura e alla nostra
altezza.
Non appena finimmo tutto il cibo che ci era stato offerto e
l’unguento fece effetto, ci rimettemmo in viaggio, sempre in
silenzio: la strada penetrava di nuovo nel fresco del bosco e scendeva
a nord est, orientandosi poi sempre più verso nord, infine
virò dolcemente a est rialzandosi un poco; era quasi
metà
pomeriggio quando ci fermammo in una nuova radura, in attesa di non si
sapeva bene che cosa. Quel tratto del percorso correva su una cresta di
roccia che sovrastava il mare, sembrava un’enorme bolla di
mercurio appena increspato da timide onde, su cui si rifletteva il
cielo grigio azzurro come gli occhi del nostro ospite. Mi affacciai
appena dallo strapiombo e vidi che la montagna scendeva
perpendicolarmente nel mare, senza creare una spiaggia, ma innestandosi
sulla superficie liquida con faraglioni di roccia liscia e
bianchissima, caduti a conficcarsi nel mare nella notte dei tempi. Non
era possibile sentire che in lontananza il suono della risacca, e si
percepiva appena il bianco della spuma che s’infrangeva sulla
roccia. Che fossimo sopra la grotta di Salazar? Era quello
l’arco
marino da cui eravamo entrati? Mi resi conto che già ero
rapito
dalla vastità di quegli spazi infiniti, nonostante la totale
stanchezza ammiravo i silenzi, i colori, le forme di quella terra
selvaggia e indomita, e persino quel suo essere in realtà
così terribile e pericolosa. Preso da ammirazione per il
mondo
che esisteva fuori della mia casa, non mi accorsi subito che di fronte
a noi, alti nel cielo, erano apparse un paio di figure oscure che
s’ingrandivano sempre più, si muovevano nella
nostra
direzione e tendevano a scendere di quota. Quando finalmente li misi a
fuoco, per un attimo mi spaventai, non avendo idea di cosa fossero, poi
capii: erano due ippogrifi, che si preparavano a planare dinanzi a noi.
Su uno dei due, stupenda visione di una giovane amazzone, stava Meissa
vestita in un modo bizzarro, per niente simile agli abiti tutti
vaporosi e eleganti che avevo imparato ad associare alla sua persona:
portava dei pantaloni di pelle scamosciata, degli stivaletti e un un
pesante spolverino, anch’esso d pelle. I bei capelli corvini
erano annodati in due trecce che scendevano alte ai lati del viso, le
mani erano protette da guanti.
Una volta a terra, Sherton offrì del cibo a Ipnos,
l’ippogrifo arrivato da solo, e una volta reso mansueto,
sistemò me e mio fratello sulla sua schiena salendo poi a
sua
volta dietro di noi, mentre Meissa riprese il volo da sola,
precedendoci sicura. Per me era un’esperienza assolutamente
nuova
ed unica: dapprincipio sentii forte la morsa della paura, soprattutto
quando la bestia si staccò dai confini terrestri e si
librò sopra il mare, diretta a est, poi mi resi conto della
magnifica sensazione del vento sulla mia pelle, lo scenario da favola
che mi circondava, il calore dell’ippogrifo e la strana e
nuova
sensazione che mi dava il contatto tra le mie mani e il suo piumaggio.
Meissa volava per lo più davanti a noi, ma a volte virava e
si
metteva al nostro fianco, facendoci coraggio con un sorriso o
chiedendoci se ci stavamo divertendo: allora tutta la mia tensione
spariva ed io sorridevo come difficilmente mi capitava di fare. Col
tramonto che iniziava a rosseggiare dietro di noi, diretti verso un
cielo sempre più cupo, gli animali smisero di sovrastare il
mare
e ripresero a costeggiare gli speroni di roccia, salirono ancora un
po’ di quota e puntarono decisi verso est. In basso vedevo la
foresta che si faceva più selvaggia e inespugnabile,
finchè, mentre gli ippogrifi iniziavano a scendere
volteggiando,
sotto di noi si aprì all’improvviso una radura
segreta,
che sembrava essere la nostra destinazione finale. Smontammo dagli
ippogrifi, che Sherton ricompensò subito con del cibo,
quindi si
voltò verso di noi, prese la bacchetta che portava alla
cintola
e fece un paio d’incantesimi pulenti per toglierci un
po’
di polvere e di sudore da dosso. Ci ridiede le nostre vesti e le nostre
scarpe, si rivestì anche lui, rimise nella sua capiente
bisaccia
tutto quello che non ci serviva più e ci avviammo nel bosco,
sempre diretti a est, su una stradina di terra battuta, che presto
divenne un sentiero lastricato. Meissa ci precedeva a una certa
distanza, sembrava che avesse anche più fretta di noi di
tornare
a casa.
Gli alberi a mano a mano si diradarono, la vegetazione selvaggia fu
sostituita da ampi giardini, con i fiori sistemati ordinatamente, le
siepi tagliate secondo giochi geometrici, i roseti in fiore.
C’erano delle fontane e delle statue qua e là,
delle
panchine sistemate negli angoli più affascinanti, con vista
sul
mare, ovunque c’erano bracieri accesi, che illuminavano il
tragitto, la sera calava inesorabile intorno a noi. Infine scorgemmo
l’ombra del maniero, sovrastato dalle sue 5 torri, spuntare
tra
gli alberi, mentre ci incamminavamo sotto una specie di teoria di
profumati archi fioriti, che collegava quei giardini esterni con quelli
più prossimi alla casa. Ora finalmente riconoscevo la
magnifica
dimora degli Sherton. Un porticato si aprì davanti a noi al
termine delle arcate, entrammo e lo risalimmo tenendo la sinistra, fino
a penetrare in una specie di chiostro che circondava un cortile pieno
di roseti: su di esso si apriva una scalinata di pietra a due ali, che
si congiungevano in una terrazza le cui pietre si sistemavano a
disegno, a formare una coppia di serpenti avvinghiati a reggere una
gigantesca sfera, forse di giada o di un altro minerale verde, non
poteva essere uno smeraldo, impossibile che ne esistesse al mondo uno
così grande. Sotto, il motto di famiglia degli Sherton
recitava “LES
BIEN-AIMES ”,
i prediletti. Da un paio di porte laterali sbucarono Kreya e
Doimòs, mentre Meissa sembrava essersi già
volatilizzata.
“Ora seguite Kreya e datevi
una rinfrescata,
tra mezzora sarà servita la cena, vi prego di essere
puntuali,
anche se siamo solo noi tre, così poi potrete andare a
riposare,
ne avete sicuramente bisogno, oggi è stata dura per tutti e
soprattutto per voi due che non siete abituati”.
“Noi 3? E Meissa?”
"Meissa e gli altri non staranno con noi
fin dopo il
solstizio, devono aiutare Mirzam a prepararsi per il suo
rito…"
L’elfa ci fece strada lungo un corridoio orientato a
sudovest,
interminabile, in cui ammirammo una vera e propria galleria di ritratti
degli antichi Sherton, in cui tutto dalla struttura muraria nel suo
complesso al più piccolo dettaglio dei bracieri, celebrava
la
natura Slytherin di quella famiglia; arrivati in fondo alla galleria
coperta, salimmo nella torre di sudovest lungo una scalinata che era
ampia e luminosa anche a quell’ora della sera, soprattutto se
messa a confronto con quella di casa nostra: anche qui
c’erano
bracieri accesi e ritratti appesi alle pareti, tutti accomunati da uno
stemma in cui campeggiavano i serpenti argentei dagli occhi di smeraldo
e la dicitura “les Bien-Aimès”, ma non
c’erano
animali o elfi morti impagliati ed esposti, come a Grimmauld Place.
Arrivati al primo piano, la scalinata s’interrompeva in un
ampio
atrio, che dava su una terrazza con vista sul mare, e immetteva negli
appartamenti destinati agli ospiti: fummo condotti in una grande camera
a due letti, in cui erano già sistemate le nostre cose, e
scoprimmo di avere a disposizione un bagno, molto più grande
di
quello a noi riservato a Grimmauld Place, e un immenso patio finestrato
che si apriva a sud verso il bosco, con al centro una grande vasca
piena di acque calde, circondate da rocce: io e Reg ci spogliammo
sperando di tuffarci subito in quella meraviglia, immaginando
già la nostra stanchezza scivolare via come per incanto e
guardando storto Kreya quando ci ricordò che era tardi e che
dovevamo solo lavarci, vestirci e andare a cena, i giochi li avremmo
fatti a tempo debito. Sui nostri letti, enormi e circondati da ricchi
baldacchini dorati, erano già pronti i nostri vestiti, con
nostra gioia e sorpresa, Kreya non insistette perché ci
pettinassimo come damerini. L’elfa ci aspettava sulla porta
e,
quando fummo pronti, ci avviammo dietro di lei in sala da pranzo; dalla
terrazza scendemmo le scale, passammo dentro la lunga galleria e
giungemmo alla scalinata principale, quella interna alla torre
centrale, che avrebbe portato in alto agli appartamenti della famiglia
Sherton e al primo piano alla grande sala da pranzo usata dalla
famiglia: trovammo Alshain seduto ad uno scrittoio, stava firmando una
pergamena, con la sua classica calligrafia inclinata ed energica, la
arrotolò e la legò alla zampa di un gufo che poi
liberò alla finestra.
La stanza era dominata da un enorme caminetto, in marmo nero,
sovrastato da un ritratto di un uomo e una donna, eleganti e austeri:
lui aveva gli occhi color dell’acciaio di Alshain, lei,
Ryanna
Meyer, che avevo già visto nei ritratti di Amesbury, con gli
stessi capelli corvini del figlio, era la donna più bella
che
avessi mai visto fino a quel momento. A chiudere la composizione, in
basso, c’erano due ragazzini, uno sui dieci anni e
l’altro
intorno ai cinque, probabilmente Sherton e suo fratello: notai che le
mani di tutti loro erano tatuate, tutti avevano anche la runa impressa
sul collo e che il padre portava all’anulare destro
l’anello a forma di serpenti intrecciati con lo smeraldo
stretto
nelle bocche che ora aveva Alshain. Perché mio padre aveva
detto
a Lestrange che Sherton nn portava anelli? Ricordavo benissimo d
avergli sempre visto quell’anello da quando lo conoscevo,
però, in effetti, quell’anello spariva tutte le
volte he
si presentava ad un evento pubblico. Era davvero strano…
Come ci vide entrare, Sherton ci fece cenno di sederci, alla sua
sinistra: il tavolo da pranzo era in legno di mogano, rettangolare,
riccamente intagliato, e presentava altri quattro coperti e relativi
posti vacanti, due a sinistra al nostro fianco, uno all’altro
capotavola e l’ultimo a destra di fronte a noi, i posti vuoti
della moglie e degli figli di Alshain; tutte le posate erano
d’argento finemente cesellato, i piatti erano di ceramica
finissima, con dei motivi floreali ricercati, la tovaglia era
anch’essa ricamata con motivi floreali. Tutta la stanza era
in
pietra con il soffitto a costoloni e volte a sesto acuto, il pavimento
era ricoperto di tappeti tessuti con ricercati disegni orientali, il
mobilio era ridotto all’indispensabile, facendo risaltare
ancora
di più i dettagli di tutto il resto, come i bracieri
cesellati
con i soliti motivi serpenteschi. Con il gesto convenuto Alshain
ordinò ai domestici di servirci la ricca cena, costituita da
carne arrostita, molta verdura e a chiudere una torta deliziosa. Reg ed
io eravamo assolutamente sazi e sfiniti, consapevoli di non aver mai
mangiato così bene, quello che però mi aveva
lasciato
notevolmente stupito era che ci fossimo scambiati pochissime parole per
tutta la serata: era molto strano, perché di solito Alshain
con
noi era molto simpatico e allegro.
Quando la cena ebbe termine si alzò e si mise a sedere su
un'antica poltrona di fronte al caminetto e sembrò perdersi
nei
giochi delle fiamme, io e Reg ci guardammo, non sapevamo cosa fare, se
prendere quel gesto come il suo modo di congedarci, o se dovevamo
rimanere, se potevamo parlare o restare in silenzio. Fu allora, quando
meno ce l’aspettavamo, che, rimestato appena il fuoco, si
voltò di nuovo verso di noi, con un’espressione
accogliente e ci chiamò a sederci su due poltrone di fronte
a
lui. Era arrivato il momento della storia e quello era già
sufficiente a farci riprendere dalla stanchezza del viaggio e dai miei
dubbi: invece delle solite storie di maghi leggendari, di guerre ed
eroi, ci raccontò la storia di una nuvola. Una semplice,
innocua, nuvola. Una nuvola considerata da tutti la più
bella,
la più nobile e la più importante, tanto che lei
se ne
gloriava e si isolava sempre di più, ritenendo le altre
indegne
di farle compagnia. Un giorno incrociò il vento e gli chiese
annoiata se conoscesse un luogo in cui le nuvole erano alla sua
altezza. Il vento le disse di sì e la nuvola si
lasciò
convincere a farsi trasportare lontano, nelle Highlands, con la
promessa di trovare un luogo e una compagnia degne della sua
nobiltà. Una volta arrivata però, non solo non
trovò alcuna nuvola, ma il vento smise di soffiare,
così
rimase da sola, intrappolata nelle Terre del Nord, dove
passò la
sua vita a meditare sull’importanza
dell’umiltà.
“Di qualsiasi cosa abbiate
bisogno, ricordate
che Kreya sarà a vostra disposizione e me lo
riferirà
subito, ora, però, vi consiglio di andare a riposare, se
volete
passate nel patio, le proprietà dell’acqua vi
faranno
dormire meglio. Domani avrei piacere di portarvi con me, qindi dovreste
svegliarvi presto. Ora, se volete, potete scrivere a casa, vi ho
assegnato un paio di gufi per la corrispondenza, li troverete sulla
terrazza della vostra camera.”
Avevo la sensazione che volesse restare solo il prima possibile, quindi
feci un cenno a Reg, ci alzammo e ci congedammo secondo i cerimoniali
che ci avevano insegnato i nostri genitori, strappandogli un sorrisetto
divertito. Seguimmo Kreya per non perderci fin dalla prima sera e,
accogliendo il consiglio del nostro ospite, ci spogliammo e ci tuffammo
nelle acque del patio, sentendo la stanchezza perdersi nella carezza di
quell’acqua profumata di fiori. Giocammo un po’ a
schizzarci, le nostre risate risuonarono e riecheggiarono nella stanza
illuminata anch’essa dai bracieri: non sarei mai
più
uscito da lì, se non fosse stato per l'elfa che si
presentò con degli accappatoi e ci tirò fuori
quasi di
peso. Ci asciugammo e ci preparammo per la notte, ci sdraiammo sotto le
morbide coperte, ognuno nel proprio baldacchino e iniziammo a
chiacchierare sulle meraviglie viste e vissute quel giorno, celando a
mio fratello le perplessità sui silenzi di Alshain e
sull’assenza degli altri, ma presto sentii la voce di Reg
farsi
sempre più flebile e confusa, fino a spegnersi nel sonno.
Solo
con i miei pensieri, rimasi a contemplare la luna che faceva capolino
dalla finestra: sembrava che lì il cielo fosse
più terso,
che le stelle brillassero di una luce più intensa e decisa,
anche l’aria sembrava essere diversa, e soddisfare meglio la
mia
necessità di respirare. Mi rotolai nel letto, trovando
difficoltà ad addormentarmi, preso com’ero da
mille
particolari che mi solleticavano curiosità e fantasia:
quella
costruzione doveva avere mille anni, la pietra era più
vecchia
di qualsiasi cosa io avessi mai visto fino a quel momento, mi immaginai
quali e quante persone, quali e quante storie potevano essere passate
in quella mia stessa stanza, quali intrighi e passioni avevano avuto
luogo a pochi centimetri da me.
La camera era ampia, con un soffitto decisamente alto, coperto da
quattro volte a crociera, che poggiavano su una rosa di nove pilastri,
otto addossati alle pareti e uno in mezzo alla stanza, costituiti da
fasci d nervature che s spingevano in alto ad aprirsi come petali di un
fiore. I due letti erano affiancati, ed entrambi erano orientati in
modo da avere di fronte le grandi vetrate ad arco ogivale che s
aprivano verso est, così da essere baciati presto dalle
prime
luci dell’alba, mentre sul lato sud s apriva la porta che
comunicava con il patio, a nord c’erano le finestre da cui in
quel momento ammiravo il cielo stellato e la porta che dava sulle
scale. Accanto ai letti una porta immetteva sulla terrazza. Era davvero
tutto meraviglioso, lì, molto diverso da casa nostra, ma
c’erano tante domande che si agitavano nella mia mente, e mi
toglievano il sonno, lottando e vincendo per ore sulla fatica. Non
potevo smettere di pensare alla storia della nuvola, era semplice ed
anche scontata, ma non riuscivo a capire perché ce
l’avesse raccontata, quale messaggio voleva davvero
trasmetterci:
fin da quel primo giorno avevo la convinzione, magari errata, che in
tutto quello che Sherton faceva o diceva ci fosse un significato
pregnante, nascosto sotto la semplicità visibile in
superficie.
Quando alla fine riuscii a perdere i sensi, i miei sogni agitati furono
popolati da ippogrifi che mi lasciavano cadere in volo sulle scogliere,
da immagini di mio padre che piombava in Scozia solo per sprofondarmi
nelle segrete umide e anguste, piene di serpenti, di casa Sherton. E
dal viso di mia madre, che si stagliava su tutti i ritratti della
scalinata del maniero scozzese, inseguendomi in una atroce fuga.
***
Sirius
Black
Herrengton Hill, Highlands - sab. 19/20 giugno 1971
Mi svegliai sudato e confuso, quando non era ancora l'alba e sul mare
s’iniziava appena a cogliere il rosa del sole nascente; mi
alzai,
mi lavai e mi vestii, presi in mano le scarpe e sgattaiolai fuori,
senza far rumore, per non disturbare mio fratello che, al contrario di
me, sembrava dormire sereno, in pace col mondo. Scesi le scale, uscii
nel cortile delle rose e da lì raggiunsi il giardino
esterno,
lasciandomi ritemprare dal fresco del mattino, restando sempre un
po’ agitato: non sapevo bene nemmeno io che cosa stavo
cercando,
provavo ancora una strana sensazione di soffocamento. Arrivai al
limitare del giardino, scavalcai il muretto e guardai di sotto, verso
il mare e le scogliere, decine e decine di metri più in
basso:
pensai per un momento che quello poteva essere un buon posto per
sparire, tutti avrebbero detto semplicemente “che terribile
disgrazia!”Con
la punta della scarpa mossi appena la terra per vedere con quanta
facilità tutto quanto potesse franare, ma quando spostai
deciso
il piede in avanti, verso il vuoto, ecco che mi sentii risospingere
indietro, senza che dinanzi a me ci fosse apparentemente nulla.
“E’ meglio giocare
con l’acqua del patio, Sirius!”.
Mi voltai spaventato: Sherton era improvvisamente seduto su una
panchina dietro di me, sembrava essersi materializzato dal nulla,
fumava una strana pipa, nella sua sontuosa veste da camera, tutto
vestito di verde, con i capelli legati in una spessa coda e i piedi
nudi, tatuati anch’essi come le mani.
“Non riuscivo a dormire,
così…”
Mi giustificai, pensando che si stesse chiedendo cosa ci facessi
già in piedi. E soprattutto in quel posto.
“Capita quando si dorme
lontano da casa, poi
probabilmente avrai mille domande in testa, è abbastanza
normale
non riuscire a dormire.”
Alshain non mi guardava nemmeno, preso da un puntino nel cielo e dalle
sue nuvolette di fumo, ma sembrava che per lui fossi un libro aperto.
Avevo molte domande da fargli, ogni volta che avevo provato ad
affrontare con mio padre il discorso Sherton ero finito in castigo, con
l’accusa di non essere capace di farmi gli affari miei, ma
ora
era lì di fronte a me, eravamo da soli e non volevo
più
rimandare. Era dall’autunno precedente che aspettavo quel
momento.
“Cosa mi ha trattenuto dal
cadere?”
Alshain mi guardò serio.
“Volevi per caso
cadere?”
“Certo che no!”
Ma in cuor mio non ne ero poi così sicuro. Non capivo cosa
mi
fosse passato per la testa, io non volevo di certo buttarmi di sotto,
allora perché… Era chiaro che non
l’avevo convinto,
ma Alshain tornò comunque a guardare il cielo, con
un’espressione grave e seria.
“Quando sono tornato qui, nove
anni fa, con la
mia famiglia, la prima cosa che ho fatto è stata creare una
protezione magica che cingesse la tenuta, così che nessun
estraneo potesse vederci, sentirci o disturbarci, e che impedisse a chi
è dentro di farsi del male, per esempio cadendo di sotto
accidentalmente o volontariamente. Nel punto in cui ti trovi in questo
momento sono avvenute fin troppe disgrazie.”
Mi fissò addosso i suoi penetranti occhi azzurri, come se
volesse leggermi nell’anima. Sentii la faccia in fiamme e
chinai
lo sguardo, a osservare la punta dei miei piedi.
"La protezione naturalmente vale solo
per chi ha il
segno che gli Sherton tracciano sui loro cari, io lo impressi su te e
tuo fratello al momento della vostra nascita, perché siete i
figli dell’uomo che tengo nel cuore più di un
fratello, e
farò di tutto per proteggervi, ricordalo sempre!”
Quelle parole ebbero su di me l’effetto che mio padre invano
aveva cercato di ottenere con gli schiaffi per anni: di colpo compresi
l’importanza di molte cose a cui teneva tanto, come la
famiglia,
la responsabilità, l’amicizia e il rispetto delle
promesse. Alshain era già tornato a guardare il cielo,
assorto
in chissà quali pensieri, ed io mi stavo domandando ancora
di
più la vera ragione della nostra presenza in Scozia, cosa ci
attendeva nelle settimane successive.
“Ora dovresti rendermi
qualcosa che mi appartiene…”
Misi la mano in tasca, in silenzio, tirai fuori la verghetta di
Lestrange e gliela posi nel palmo aperto, senza esitazioni, ma volevo
delle risposte.
“Che cos’ha di tanto
speciale quest’anello da giustificare un furto?”
Mi guardò di nuovo e sorrise, rigirandosi tra le dita quello
stupido oggetto.
“Appartiene alla mia famiglia
dalla notte dei
tempi, Sirius, ci è stato rubato durante le antiche guerre e
da
allora non facciamo che cercarlo. Lestrange l’aveva per puro
caso
e per puro caso ho scoperto che ne era lui in possesso. Ora grazie a te
è tornato a casa…”
“Ma Lestrange dice che
…”
“Quest’anello non ha
alcun potere, se
sta in mani sbagliate, Sirius, solo il legittimo proprietario
può sfruttarne i doni. La leggenda, oramai nota a pochi,
narra
che con quest’anello Hifrig Sherton sposò la
sorella di
Salazar Slytherins e che in esso è stato racchiuso poi da
quel
grande mago un prezioso dono di nozze. Per impedire che
l’anello
fosse rubato ne sono state create altre due copie, una delle quali ti
è servita per riprenderti l’originale.
L’altra
è sempre rimasta qui.”
“Qual è il dono di
nozze? E chi è il legittimo proprietario?”
“Ho solo una teoria e devo
verificarla.
Secondo me, comunque, si tratta solo di un dono simbolico. Sei
deluso?”
“Un po’,
credevo…”
“Quello che hai fatto
è molto
importante per me, Sirius, e te ne sarò sempre grato, non
era
giusto che quello che appartiene a questa Terra rimanesse lontano da
qui, tenuto in poco conto, come fosse una cianfrusaglia
qualsiasi…”
Si alzò, mi passò la mano intorno alle spalle e
mi guardò negli occhi.
“Ora andiamo. Tra oggi e
domani dovremo
trovare tutto l’occorrente per il rito di Litha che
avverrà tra due giorni. Kreya ha già preparato i
vestiti
adatti a te e Regulus, vai a cambiarti e fai colazione, si parte tra
un’ora e stanotte si resta a dormire fuori.”
Asciutto ed essenziale, se ne andò appena disse queste
parole,
lasciandosi quasi sparire tra le piante, senza alcun rumore, come se i
suoi piedi non toccassero terra, ma si muovessero su una nuvola.
Assistetti a tutto questo affascinato e confuso, perso in una specie di
tranche, quando però interpretai quelle parole, mi
preoccupai di
nuovo: a stento ero sopravvissuto alla giornata precedente e ora mi
diceva che saremmo subito ripartiti, mi chiesi se Reg sarebbe stato in
grado di affrontare un’altra strapazzata del genere, in fondo
eravamo entrambi poco più che bambini. Al dunque,
però,
la giornata si rivelò migliore di quanto avessi immaginato.
Partimmo diretti a sudovest, uscendo dalla torre sud, leggeri, solo noi
tre, per quella che apparve da subito, con mio grande sollievo,
semplicemente una passeggiata per i boschi: quella parte della tenuta,
il giorno prima inaccessibile, vista dal basso sembrava meno aspra e
selvaggia, fatta di morbidi declivi in cui i boschi non erano
inespugnabili barriere di verde e le sorgenti d’acqua
parevano
moltiplicarsi magicamente. In seguito scoprii che questo era il vero
volto di quella terra, mentre il giorno precedente avevamo subito
un’illusione magica, creata ad arte da Alshain per proteggere
la
sua famiglia da occhi estranei.
Sherton parlò per tutto il tempo, descrivendoci le
proprietà delle piante che incontravamo e arricchendo le
descrizioni con racconti e aneddoti che esaltavano la mia fantasia: in
particolare mi colpì la pianta del sambuco, legata alla
storia
dei fratelli Peverell e i doni dati loro dalla Morte, tra i quali
appunto una bacchetta dai poteri straordinari fatta col legno di
quell’albero. Notai che il nostro ospite aveva molto
insistito
con quella storia e in particolare non sulla bacchetta ma
sull’anello dato al secondo fratello, come se avesse
un’importanza superiore a tutto il resto. Forse era
suggestione
per tutto quello che di strano e meraviglioso stavamo vivendo, ma mi
convinsi ancora di più che nulla accadeva per caso, che
c’era un piano ben preciso sotto. Al contrario di me, Reg non
sembrava molto entusiasta: non riusciva a capire
l’utilità
di tutto questo cercare, quando, come ci insegnava nostro padre, era
sufficiente tirar fuori i galeoni per avere quelle piante e i loro
estratti senza sforzo. Mi vergognai per l’ottusità
di mio
fratello, ma Alshain lo guardò senza meravigliarsi, forse
vedeva
in lui la versione “in fieri” del suo miglior
amico, quindi
gli accarezzò bonariamente la testa e, canzonandolo un
po’, gli rivolse una gran risata:
“Con i galeoni non si compra
il piacere di giornate come questa, ragazzo mio!”
Mi domandai come mai quell’uomo che, stando ai discorsi di
Lestrange, aveva anche più denaro di nostro padre, non
avesse la
sua stessa ossessione per i soldi e, almeno fino a quel momento,
sembrasse utilizzare anche la magia solo quando era assolutamente
indispensabile. Ci fermammo a mangiare in una radura, ed io rimasi con
i sensi in allerta per tutto il tempo, sperando di riconoscere subito
un’orma o un canto e fare bella impressione su Alshain. Alla
fine, scoprii un paio di orme fresche e ottenni da Sherton delle
interessanti spiegazioni, anche se erano solo impronte di scoiattolo.
Nel pomeriggio ci affidò l’incarico di raccogliere
le
foglie di alcune piante che ci aveva descritto e scovare anche delle
radici utili al rito: ero sicuro che ci stesse proponendo subito una
verifica per stabilire quanto avevamo capito dei suoi discorsi.
“In cosa consiste il rito,
signore?”
Reg, sempre timido con chiunque, sembrava libero da tutte le sue paure
e condizionamenti e mi ritrovai a essere fiero di lui: sarebbe stato
bellissimo se quell’estate avesse aperto gli occhi e fosse
saltato dalla mia parte della barricata, se invece di avere una
piattola per fratello, avessi avuto finalmente un amico e un
confidente. Sarebbe stato bellissimo poter...
“Festeggiamo Litha,
l’inizio
dell’estate: di solito si cacciano e si offrono in sacrificio
dei
cervi. In più è celebrato il rito del Cammino di
alcuni
membri della mia famiglia, come negli altri Sabbat: questa volta
è il turno di Mirzam.”
Ci guardò e capì che non sapevamo nulla di questi
argomenti. Sospirò appena.
“Nelle Terre del Nord ci sono
da sempre dei
riti che la mia famiglia ama celebrare ancora, mentre in altre parti
della Gran Bretagna sono ormai in disuso da secoli, anche tra i maghi
più tradizionalisti. Secondo questi riti, nel corso della
nostra
vita, ogni cinque anni compiamo un passo nel nostro Cammino della
Conoscenza: Meissa ha preso le sue rune a Ostara, che per noi
Slytherins coincide con la festa di Habarcat: era il suo terzo rito.
Mirzam ha compiuto ventuno anni in maggio, festeggerà
perciò a Litha il suo quinto rito. L’anno prossimo
toccherà a me e a mia moglie. I riti e le prove che li
precedono
servono a potenziare le nostre capacità, sacrificando
qualcosa
di noi stessi e testimoniando la nostra adesione agli antichi precetti.
Le piante che stiamo raccogliendo servono al rito, inoltre voi, con la
vostra presenza, sarete testimoni e questo legherà ancor di
più le nostre famiglie: anche vostro padre ha presenziato
per
me, quando ho compiuto ventuno anni”.
Come avevo intuito, tutto quello che stava succedendo non era casuale,
ma aveva un senso e una ragione, che andavano di là della
nostra
vita, si legava a riti sacri che nascevano nella notte dei tempi, e
quell’uomo, misterioso e affascinante, ci stava dando
l’opportunità di assistere a tutto questo
perché
eravamo legati a lui, fin da prima della nostra nascita. In uno stato
d’animo particolare, in preda a una specie di mistica
illuminazione, come può spesso capitare a undici anni,
quando
elevi a tuo eroe un uomo di tale carisma, trovai subito le piante
richieste, presi le foglie come indicato e ne raccolsi una parte per
me, deciso ad appuntare tutto quanto ci diceva Sherton, appena fossimo
tornati al maniero, ormai sicuro che un giorno ne avrei ricavato
benefici. Alshain non disse nulla quando capì le mie
intenzioni,
ma vidi uno strano sorriso aleggiargli sotto i baffi, non so se di
soddisfazione o perché mi trovava buffo. Alla fine aiutai
anche
Reg, più per far colpo su Sherton che non per amore di mio
fratello. Era ormai sera quando, tornando all’accampamento
con le
ultime radici, ci accolse una gradita sorpresa: Alshain, infatti, aveva
montato una tenda per la notte, piuttosto rustica ed essenziale
all’esterno, ma grande e piena di comodità
all’interno, tanto che sembrava una tenda da sultano, con
cuscini, tappeti, letti morbidi e colorati. Mi sorprese un
po’
però quando capii che lui avrebbe dormito fuori, vicino al
fuoco, sulla nuda terra: avevo notato che amava lavita spartana, ma mi
sembrava assurdo che rimanesse fuori con quel freddo. La cena fu a base
di piccola selvaggina, catturata da Alshain mentre noi eravamo
impegnati nella nostra ricerca e arrostita sul fuoco, ma il momento
più bello fu appena dopo, quando Sherton iniziò a
raccontarci la leggenda di quella sera: questa volta ci
raccontò
di epiche imprese e di maghi leggendari, un momento di rara bellezza,
sia perché aveva una capacità interpretativa
degna di un
teatrante, sia perché mai i nostri genitori si erano presi
la
briga di passare il tempo a raccontarci storie. Quando ci ritirammo a
dormire, finalmente ero rilassato e mi lasciai andare a un buon sonno
ristoratore, abitato da sogni incentrati sui racconti d Alshain e non
sui miei incubi e le mie paure; anche Reg, dopo quella giornata di
nervosismo e insofferenza, che imputavo alla stanchezza non del tutto
smaltita del giorno precedente, si era parzialmente placato e prendemmo
sonno relativamente presto, mentre dall’esterno si stagliava
sulla tenda l’ombra di Sherton, seduto davanti al fuoco a
fumare
la sua pipa.
*
Il mattino seguente, ci svegliò il profumo di porridge,
mangiammo anche frutta fresca e ripartimmo, appena Alshain
smontò magicamente la tenda e cancellò le tracce
del
bivacco: questa volta ci dirigemmo verso la costa, che raggiungemmo
scendendo per molte decine di metri lungo un profondo canalone, ripido
e pericoloso. All’arrivo ci ritrovammo in una piccola baia,
protetta a est e ovest da ripide scogliere e a sud costituita da
un’ampia spiaggia di ciottoli che si disperdeva rapidamente
nei
boschi per poi risalire verso una nuova cintura di rocce e alture, da
cui eravamo appena scesi. Si era ormai fatto quasi mezzogiorno e dopo
un pasto frugale, ci incamminammo lungo la spiaggia, risalendola sul
lato nord occidentale fino alle scogliere verticali aspre e irte di
ostacoli, dove Alshain eresse di nuovo la nostra tenda, poi affrontammo
gli scogli resi scivolosi dai muschi e dall’acqua, ci
arrampicammo di nuovo tra le rocce lungo un sentiero invisibile che
Sherton però conosceva a memoria. Dopo circa un paio
d’ore
ci ritrovammo in una spiaggia minuscola protetta da un anfiteatro di
rocce, alcuni faraglioni e archi marini, conficcati nel mare: ero certo
che fossero i faraglioni che avevo ammirato dall’alto due
giorni
prima, dalla radura in cui ci avevano raggiunto gli ippogrifi. La
spiaggia di ciottoli e rocce era interrotta, divisa in due parti da una
lingua di mare che la penetrava profondamente, con le acque turbinose
che finivano col nascondersi entro l’imboccatura di una
grotta
semisommersa: vi si accedeva con estrema difficoltà, in
parte
camminando nell’acqua, in parte nuotando, in parte
arrampicandoci
di nuovo sulla roccia scivolosa, fino ad approdare su una seconda
spiaggia interna più ampia, fatta di detriti marini e, nei
punti
più reconditi, da stalattiti e stalagmiti, con la parte
centrale
del soffitto costituito da una pietra quasi perlacea, su cui si
rifletteva l’azzurro verdastro dell’acqua e del
cielo.
Così buia non l’avevo riconosciuta subito, ma alla
fine
capii che era la spiaggia in cui era stato celebrato il rito di Meissa.
Alshain si tolse la tunica che portava incollata addosso, bagnata,
rimanendo a torso nudo con i soli pantaloni, anch’essi
fradici,
estrasse dalla cintola la sua bacchetta, ce la puntò addosso
e
ci asciugò corpo e vesti all’istante. Sistemati
noi, si
asciugò a sua volta poi mosse la bacchetta e
invocò
“INCENDIO”: dodici bracieri si accesero in cerchio
tutto
attorno a noi, e altri sette si accesero sul rialzo di granito, su cui
si ergeva l’altare di marmo nero e la gigantesca serpe di
pietra,
dalla testa d’argento e dagli occhi d smeraldo, con le fauci
spalancate. Inorridii e sentii i peli della mia schiena rizzarsi,
sembrava vero e feroce, pronto ad abbattersi su di noi. Sherton ci
sorrise incoraggiante, mentre dalla volta faceva calare sette stendardi
di Salazar Serpeverde tutto intorno al serpente di pietra, mentre tra i
dodici bracieri si materializzava un altare d’argento
finemente
cesellato con motivi serpenteschi, su cui era inciso il motto di
famiglia.
“È quasi tutto
pronto, qui avverranno i
sacrifici e saranno bruciate le piante che avete raccolto. Tutto questo
accadrà domattina all’alba. Ora dobbiamo
procurarci un
cervo, in attesa che arrivino gli altri.
“Ci saranno tanti maghi come
l’altra volta?"
“Non tanti come quel giorno,
solo i maghi del Nord e alcuni miei parenti.”
Alshain si avvicinò, ci circondò le spalle con le
sue
braccia e ci smaterializzammo, non capivo per quale motivo non
l’avessimo mai fatto finora, ma mi ripromisi che glielo avrei
chiesto quanto prima: ricomparimmo in una radura, dal rumore del mare
capii che eravamo a pochi metri in linea d’aria dalla grotta,
ma
diversi metri più in alto. Di fronte a noi si apriva di
nuovo il
bosco e Alshain si diresse nell’intrico di alberi,
aprì la
bisaccia che aveva legato alla cintola, estrasse dei lacci e si mise a
trafficare in prossimità dei piedi di alcune piante,
depositando
delle esche, poi ci fece cenno di inoltrarci con lui in mezzo a dei
cespugli da cui era possibile controllare le trappole, si sedette a
terra, distribuì le uova, alcune fette di carne salata e
della
frutta, tutto estratto come sempre dalla sua bisaccia senza fondo. Con
la schiena appoggiata all’albero, di fronte a noi, molto
più vicino di quanto non l’avessimo avuto mai in
quei tre
giorni, potevo studiarne con attenzione tutti i particolari del viso e
del corpo: sembrava più giovane della sua età,
soprattutto per l’espressione del suo sguardo, combattiva ed
energica, non era molto muscoloso ma straordinariamente tonico, il
corpo snello, quasi come quello di un ragazzo, i suoi capelli non
avevano ancora un solo filo grigio. Mi affascinavano soprattutto i suoi
tatuaggi, come quello che portava al centro del petto, ora potevo
vederglielo benissimo, sembrava una specie di candelabro, pieno di
righe orizzontali che s’incurvavano a forma di corna di
antilope.
Alshain si accorse dell’attenzione quasi morbosa con cui
l’osservavo, ma fece finta di nulla, probabilmente in attesa
che
trovassi il coraggio di chiedergli quello che mi passava per la testa.
Piano piano, senza che me ne rendessi conto, mi assopii nel tepore
estivo del sottobosco, in quella tenue luce che filtrava tra gli
alberi, e nel sonno agitato del pomeriggio mischiai
l’immagine di
Sherton giovane con la coppa in mano, il serpente di pietra e le nuvole
che correvano per i cieli della Scozia sospinte da un vento
truffaldino. Era quasi metà pomeriggio quando i miei sogni
confusi si bloccarono, sentimmo un fruscio e dalla nostra postazione fu
facile vedere le ampie corna ramate di un magnifico cervo piuttosto
giovane e dal manto rossiccio, Alshain fulmineo si erse e
lanciò
un “PETRIFICUS” che immobilizzò
l’animale
nell’atto di cibarsi da un albero. Rimasi sorpreso, ero
convinto
che fossimo lì per uccidere e mi colpì
profondamente
anche il gesto carico di tenerezza con cui l’uomo si
chinò
sull’animale: gli accarezzò il muso terrorizzato
quasi a
volerlo rassicurare, poi con estrema delicatezza se lo mise sulle
spalle, e ci disse che era ora di procedere sulla via del ritorno.
Questa volta non ci smaterializzammo, ma prendemmo un sentiero tra gli
alberi che lentamente e con poca pendenza portava alla spiaggia della
tenda.
Approfittò del viaggio, che affrontammo con estrema lentezza
e
calma, per descriverci i riti cui avremmo assistito quella notte,
raccontandoci alcune leggende legate al solstizio d’estate.
Quando arrivammo, era ormai il tramonto e la spiaggia era ora ben
diversa dal mattino, ovunque erano state erette tende, ovunque si
stavano accendendo falò e numerosi maghi nei loro mantelli
chiacchieravano tra loro in piccoli e grandi crocchi. Non
c’erano
facce a me note e, soprattutto, notai di nuovo che quasi nessuno aveva
con sé mogli o figlie. Due streghe giovani e molto belle si
avvicinarono e fecero grandi sorrisi ad Alshain il quale
ricambiò con freddezza, queste si allontanarono ghignando e
si
avvicinarono a un altro gruppo di maghi, che le accolsero tra risa e
abbracci affettuosi, offrendo loro da bere: guardai interrogativo il
nostro ospite, il quale sospirò amareggiato.
“Secondo la tradizione non
è permesso
l’ingresso alla spiaggia e alla grotta a donne che non
appartengano a Herrengton, durante i riti. Quanto avete appena visto
dimostra che c’è molto lavoro da fare anche nella
Confraternita del Nord, per riportare decoro e
rispettabilità
nella società magica”.
Raggiungemmo in silenzio la nostra tenda, dove Sherton
depositò
a terra il cervo, proprio all’ingresso: Kreya ci attendeva
con la
cena di pesce appena preparata. Al termine, compiuta anche la
vestizione, era ormai passata la mezzanotte, Sherton congedò
Kreya, prese un sontuoso mantello nero, se lo gettò addosso,
ci
pose le braccia a cingerci le spalle e uscimmo dalla tenda.
“Gran
bell’esemplare”.
Un vecchio, grassoccio e piuttosto basso, stretto, come
pressoché tutti i presenti, in una magnifica veste smeraldo,
con
un cappello a punta, i pochi capelli argentati arruffati, i baffoni
stile tricheco che pendevano ai lati del naso, gli occhi azzurri
acquosi, stava quasi sull’uscio, ammirando il cervo catturato
da
Alshain. L’avevo già intravisto a Habarcat, ma non
gli
avevo dato troppa importanza.
“Professore!”
Si abbracciarono, baciandosi le guance, gli occhi erano pieni
d’affetto.
“Sono felice che sia dei
nostri,
quest’anno. Ragazzi, vi presento Horace Slughorn, professore
di
pozioni a Hogwarts, questi sono i figli di Orion, Sirius e Regulus
Black.”.
Il professore annuì e sorrise.
“Eccellente, finalmente ho il
piacere di incontrarvi”.
Ci strinse con energia la mano, mentre i suoi occhi inquietanti
sembravano trapassarci non solo le vesti, ma anche la carne, e un
sorriso ambiguo gli si stampava in volto.
“Mi raccomando, ragazzi,
ascoltate con
attenzione il signor Sherton, è stato uno dei migliori
studenti
che abbia mai avuto nella mia lunghissima carriera, e ora voi, stando
al suo fianco, avete l’opportunità di conoscere
una magia
antica che nelle scuole spesso ormai non s’insegna
più”.
Poi tornò a guardare il nostro ospite, serio e vagamente
incupito.
"Hai già visto i segni,
Alshain?”
“A Londra, e a Herrengton ci
sono già,
Horace, Deidra ha da poco visto un altro segno durante il suo viaggio
in Galles, che si aggiunge agli altri già noti, sarebbe bene
se
qualcuno andasse a controllare Godric Hollow, ma credo non ci siano
più dubbi, ci siamo”.
“Capisco. Non pensi che
sarebbe meglio se i
ragazzi stessero con me durante la cerimonia? Tu sarai impegnato e
c’è già molta confusione sulla
spiaggia. Da solo
non riuscirai a tener tutto sotto controllo stanotte. Sai
già se
Abraxas verrà?”
Un’ombra passò sul viso del nostro ospite.
“E’ mio cugino,
nulla può
impedirglielo. Comunque sì, è una buona
soluzione, in
attesa che anche Orion ci raggiunga; ragazzi, quando ve lo
chiederò, andrete col professore, vi spiegherà
tutto
quello che accadrà, mentre io sarò impegnato
durante il
rito. Siamo intesi?"
Rispondemmo in coro con un sì deciso, finora non ci aveva
dato
mai veri ordini, era stato gentile e disponibile, anche se avrei
preferito non mollarlo un attimo, doveva avere una buona ragione per
farci quella richiesta. Inoltre fino a quel momento non mi era passato
per la testa che nostro padre potesse raggiungerci per il rito e
l’idea di rivederlo così presto mi
gettò per un
attimo nel panico totale. Slughorn si allontanò con un
sorriso e
andò a salutare altri maghi che a mano a mano si
materializzavano sulla spiaggia, noi restammo con Sherton, seduti su
una sontuosa pelle di drago stesa da Kreya di fronte al fuoco: la
spiaggia era ormai piena di tende, si erano accese decine e decine di
fuochi, alcuni intonarono antichi canti, che Alshain ci traduceva.
Piano piano ci addormentammo, di nuovo accoccolati al suo fianco,
protetti dal suo calore e dal suo mantello, proprio come dei cuccioli,
questa volta sognai di salire le scale che portavano alle stanze
private degli Sherton, aprivo una porta che dava su una stanza
completamente vuota, dominata solo da un camino gigantesco dove mi
aspettava un vecchio mago dai capelli candidi come neve, lunghi fin
oltre la cintola, tondi occhialini calati sul naso ricurvo, mi faceva
segno di entrare e mi metteva l’anello di Lestrange
all’anulare della mano destra, dopo avermi inciso sul petto
una
gigantesca runa. Non so quante ore passarono, ma di colpo mi svegliai,
notai che gli occhi di Alshain, di solito persi in pensieri lontani,
quella notte erano particolarmente vigili e attenti, mentre la
bacchetta, sempre portata con indifferenza alla cintola, era nella sua
mano: la osservava con attenzione, ogni tacca, ogni rilievo, ogni
incisione, era seguita con cura maniacale sia con lo sguardo sia con la
punta delle dita.
Mi stirai, suscitando la sua attenzione, lo sguardo preoccupato
sparì dal suo viso, mi osservò sorridente,
chiedendomi se
ero stanco, io negai con la testa, cercando di apparire convincente.
Quell’uomo mi sconvolgeva: in quella sera così
importante
stava lì con noi a proteggerci, a prendersi cura come mai
Orion
aveva fatto, invece di occuparsi di quella gente certamente
più
importante che due mocciosi come noi, come di sicuro avrebbe fatto
nostro padre.
“Signore, perché
noi non ci siamo
materializzati qui direttamente dalla villa, mentre questi maghi
possono materializzarsi tranquillamente sulla spiaggia?”.
Sherton sorrise capendo la mia confusione e mi guardò
direttamente negli occhi:
“Quando il signore di
Herrengton non è
nella tenuta, lascia eretta una protezione completa contro gli
estranei: per questo abbiamo usato una passaporta per venire fin qui da
Londra. Quando siamo entrati nel bosco, mi sono spogliato non per non
sporcare le vesti ma per farmi riconoscere, attraverso i tatuaggi,
così che la foresta si aprisse a me. Analogamente, la grotta
di
Serpeverde è accessibile a tutti solo dopo che il signore di
Herrengton ha fatto il suo ingresso e ha tolto alcuni incanti: per
tutti gli altri, fin quando non ho acceso i bracieri ed estratto gli
stendardi, la grotta non solo era inaccessibile, ma era persino non
individuabile. E sarà sempre così. Se ad esempio
un
giorno l’ultimo degli Sherton morisse senza indicare un
successore e un custode, nessuno riuscirebbe più a trovare
la
grotta di Serpeverde, e tutta la tenuta di Herrengton pur
sopravvivendo, per il resto del mondo sparirebbe nel nulla.”.
“Ma siamo a una festa,
signore, perché sono necessarie tante protezioni?”
“Questo luogo detiene un
grande potere,
Sirius. Un potere che attira molti, benché non sia qualcosa
che
si possa acquisire con la semplice volontà, né
con la
forza. Purtroppo nel corso della tua vita avrai modo di comprendere che
ci sono maghi innocui e maghi molto pericolosi, molti di questi sono
tali non tanto per il potere che hanno, ma perché spesso non
usano la razionalità nell’agire, ma solo
l’istinto.
Altri sono pericolosi perché conoscono solo alcuni tipi di
magia, e si scordano del valore e della potenza della magia
più
grande.”
“Qual è la magia
più grande?”
“L’amore. Ricordalo
sempre Sirius, la
magia più potente, quella che ti dà la forza di
affrontare le situazioni difficili e sconfiggere anche i nemici
più forti di te, è sempre
l’amore.”
Mentre parlavamo, e i discorsi finivano in meandri che non avrei mai
immaginato di affrontare con lui, la notte era quasi giunta al termine.
Fu allora che udimmo degli schiocchi, più rumorosi di tanti
altri che avevamo sentito fino a quel momento, tanto che persino Reg,
ancora immerso nel sonno, si ridestò. Tra noi si
materializzarono cinque maghi avvolti in pesanti mantelli neri, con i
cappucci che nascondevano i visi ma che lasciavano intravvedere, nel
mago più corpulento, una criniera biondissima, quasi bianca:
a
quell’apparizione Alshain serrò con determinazione
la
bacchetta, i suoi occhi divennero dei laghi oscuri, con i lampi delle
ultime fiamme del bivacco che vi si specchiavano in modo sinistro. I
nuovi arrivati si guardarono intorno, fino a che quello più
grosso non mise a fuoco la figura di Sherton, quindi, mentre gli altri
rimanevano in disparte, avanzò, con incedere imperioso,
verso di
noi: era molto alto, massiccio, completamente vestito di nero,
elegantissimo, ostentatamente ricco, con un bastone da passeggio con
l’impugnatura a forma di testa di serpente, molto simile a
quella
che avevo visto nelle mani di Alshain a Grimmaul Place, gli occhi d
ghiaccio e una barba bionda, lunga fino alla cintola come i suoi
lunghissimi capelli. Alshain si alzò, e per un attimo io
sentii
la morsa della paura attanagliarmi il corpo dallo stomaco alle gambe,
temendo che quel mago fosse uno dei soggetti malvagi e pericolosi di
cui mi aveva appena parlato, arrivato lì proprio per fargli
del
male, ma con sorpresa notai che sul viso del mio ospite comparve
rapidamente un ampio sorriso, aprì le braccia e accolse con
un
abbraccio caloroso il nuovo arrivato, che nel frattempo si era ormai
sfilato il cappuccio. Solo in quel momento forse frastornato dai
racconti di Alshain, compresi che quello era soltanto Abraxas Malfoy.
“Cugino, questa notte sei una
visione per gli occhi! Come sempre del resto!”.
Alshain sorrise, era abituato ai complimenti
dell’elegantissimo cugino Malfoy.
“Deidra non è
ancora arrivata?”
“Ho visto i suoi segni, tra
poco sarà
qui. Vieni. Conosci già i figli di Orion, Sirius e Regulus
Black, vero?”
Nostro padre aveva un rapporto d’odio-amore con Malfoy:
titoli
come “il maledetto bastardo” avevano risuonato
innumerevoli
volte lungo la scalinata di casa nostra, e per un bel pezzo furono
all’ordine del giorno, all’epoca in cui diversi
suoi affari
sfumarono a causa dell’interferenza di quell’uomo.
Ultimamente però avevano spesso fatto affari insieme, e ora
che
preferiva averlo come alleato invece che come avversario, i toni si
erano notevolmente addolciti, ora nostro padre lo definiva addirittura
“quel genio”, ma qualche volta, se riusciva a
metterlo nel
sacco a sua insaputa, lo irrideva dandogli dell’idiota.
L’avevo visto più o meno di sfuggita diverse
volte,
ultimamente anche troppo spesso per i miei gusti, e ogni volta ne avevo
percepito la pericolosità, i suoi occhi di ghiaccio erano
come
privi di vita, sembrava un serpente, come quello della grotta, temibile
e pronto a colpire, ma soprattutto, ora, avevo idea che fosse davvero
un individuo senza scrupoli, se persino Sherton mi era sembrato a
disagio al suo arrivo. Abraxas ci diede la mano e sembrò
quasi
soppesarci, come se solo osservandoci fosse capace di penetrare nella
nostra mente e scovare chissà quale segreto: nostra madre
una
volta ci minacciò di metterci nelle mani di un feroce
legilimens, e per un momento mi percorse la schiena un brivido di
fredda paura all’idea che quell’uomo fosse riuscito
davvero
a leggere quello che avevo pensato fin dal suo arrivo.
"Sì, certo che ci conosciamo,
anche se forse
solo ora mi rendo conto di quanto assomigliate al buon vecchio Orion
alla vostra età. Beh salutatemelo, ragazzi, e ditegli che
presto
andrò a fargli visita”.
“Non ce ne sarà
bisogno, Orion ci
raggiungerà quanto prima, potrai parlarci di
persona.”
Malfoy sorrise, viscido, Alshain guardò prima lui poi la
nera
figura che era rimasta in disparte a osservare tutta la scena, dopo che
gli altri tre, che calatisi i cappucci riconobbi come Lestrange con i
due figli, e lì un brivido mi percorse la schiena, fecero un
segno di saluto a Sherton e si mischiarono alla folla dei maghi.
“Abraxas…. Sono
contento che sia qui
anche Lucius, puoi dirgli che avrò piacere di riceverlo alla
fine del rito, così chiuderemo quel discorso tra
gentiluomini…”
“Sarà da te appena
lo vorrai, ora vado a salutare gli altri, a più
tardi.”
Alshain annuì, si abbracciarono di nuovo, poi Malfoy
raggiunse
suo figlio. Sherton lo seguì con lo sguardo fino a che non
arrivò a destinazione, si volse verso Slughorn, il vecchio
sembrava aver visto bene tutta la scena, si avvicinò
discreto
fino a portarsi dietro il nostro ospite, nell’ombra si
dissero
poche parole, poi Alshain si volse verso di noi e ci affidò
alle
sue cure.
“Mi raccomando, non
allontanatevi dal
professore. Horace li affido a te come fossero i miei, mi
raccomando”.
Ci passò la mano sui capelli e ci baciò sulla
fronte, poi con uno schiocco si smaterializzò.
*continua*
NdA:
Ringrazio quanti hanno letto, hanno aggiunto a preferiti/seguiti/ecc,
hanno recensito e/o hanno proposto/votato questa FF per il concorso sui
migliori personaggi originali indetto da Erika di EFP (maggio 2010).
Valeria
Scheda
Immagine: ho
scattato questa foto a Butt of Lewis durante le mie vacanze scozzesi
(2014)
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