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Autore: Terre_del_Nord    14/12/2008    13 recensioni
Sirius Black e la sua Nobile Casata; gli Sherton e la Confraternita del Nord; l’Ascesa di Lord Voldemort e dei suoi Mangiamorte; gli Intrighi di Lestrange e Malfoy; le leggende di Potere e Sangue risalenti a Salazar Slytherin. E Hogwarts, i primi passi dei Malandrini e di chi, Amico o Nemico, condivise la loro Storia. UNA STORIA DI AMORE E DI GUERRA.
Anni 70. Il Mondo Magico, alle prese con Lord Voldemort, sempre più potente e feroce, farà da sfondo dark a storie d'amicizia per la vita, a un complicato rapporto tra un padre e i suoi figli, a vicende di fratelli divisi dalle scelte e dal sangue, a storie d'amore romantiche e avventurose. Gli eventi sono narrati in 1° persona da vari personaggi, canon e originali. "Nuovo Personaggio" indica la famiglia Sherton e altri OC.
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HABARCAT (Chap. 1/20) *** ORION (Chap. 21/24) *** HOGWARTS (Chap. 25/39) *** MIRZAM (Chap. 40/52) *** STORM IN HEAVEN (Chap. 53/62) *** CHAINS (Chap. 63/X) *** FEAR (Chap.97/) ***
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VINCITRICE 1° TURNO "Harry Potter Final Contest"
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Genere: Avventura, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: I Malandrini, Mangiamorte, Nuovo personaggio, Regulus Black, Sirius Black
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Malandrini/I guerra magica
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- Questa storia fa parte della serie 'That Love is All There is' Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
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That Love is All There is

Terre_del_Nord

Slytherin's Blood

Habarcat - I.014 - Herrengton Hill

I.014


Sirius Black
Herrengton Hill, Highlands - ven. 18 giugno 1971

Alla fine il giorno era arrivato: non potevo davvero crederci. Il mattino successivo alla visita a Lestrange, mentre, ancora dubbioso, facevo colazione lentamente, sperando invano di poter rimanere da solo con mio padre e ottenere da lui qualche risposta, Kreacher arrivò tutto trafelato, con una lettera di Alshain Sherton stretta nel pugnetto ossuto: ci comunicava che era tutto pronto per la nostra vacanza e che sarebbe venuto a prenderci personalmente quello stesso venerdì. Quando mi resi conto che era ora di partire, invece di essere preso dall’eccitazione e dalla felicità, sentii farsi largo un terrore sordo: ero convinto che io non sarei partito, perché in quei pochi giorni poteva capitare di tutto, mia madre poteva inventarsi una punizione per qualcosa, io potevo mettermi nei guai, ammalarmi o ferirmi… finii col passare i giorni che mi separavano da quel venerdì con un’ansia tremenda, che probabilmente mi avrebbe fatto ammalare sul serio.
Non dormii neppure la notte della vigilia: agitato, camminavo avanti e indietro nella mia stanza, guardavo fuori dalla finestra ogni pochi minuti, immaginando che Sherton arrivasse in piena notte e portasse via solo Reg, finché, sfinito, mi appoggiai allo stipite della finestra e finii col cedere lì alla stanchezza. All’alba, accarezzato dalle prime luci, mi ridestai di soprassalto, impaurito e allucinato, con la testa gonfia e confusa, con le orecchie tese per recepire qualsiasi brusio, mi lavai, mi diedi una sistemata ai capelli, mi misi una camicia pulita, che, fresca di bucato, mi avevano portato gli elfi nottetempo, e attesi, seduto in fondo al letto: se fossi andato a svegliare Regulus o fossi sceso di sotto prima del tempo, avrei dato a mia madre la scusa per punirmi. Di colpo sentii qualcuno bussare alla porta, tre, quattro volte, poi il vecchio Kreacher entrò, grugnì qualcosa, deluso di avermi trovato già in piedi e di non avermi potuto svegliare con il suo orrido ghigno e i vacui occhi a palla, quindi prima d andarsene mi disse in malo modo di scendere di sotto. Nel soggiorno trovai i miei, come sempre arcigni, mio fratello, sceso poco prima di me, insonnolito e confuso, e Alshain Sherton, vestito con un elegante abito color crema, ancora più bello che al matrimonio di mia cugina. Cercai di non far trasparire l’eccitazione che provavo: per la prima volta nella mia vita, stavo per fuggire dal 12 di Grimmauld Place e dai suoi orrendi proprietari, per quasi due mesi. Non era la vacanza in sé, né il fatto che sarei stato con Sherton, era proprio l’idea di non vedere mio padre e mia madre per tutto quel tempo che mi rendeva felice: a quel punto riuscivo ad avere persino pensieri amorevolmente fraterni per Regulus.

    “Ragazzi mi raccomando, non mettetemi in imbarazzo, non combinate guai, o vi giuro che vi sprofondo nelle segrete di casa Sherton con le mie stesse mani, una volta per tutte!”.

Nostro padre ci gracchiava contro, ma né io né mio fratello lo stavamo più a sentire: ci sembrava di partecipare a un sogno, Alshain sembrava un cavaliere uscito da una favola per liberarci e presto anche noi saremmo stati protagonisti di fantastiche avventure al suo fianco. Il nostro sorriso era davvero compiaciuto e solo in parte offuscato dall’aria funerea stampata sul viso della mamma; inoltre ci ritrovammo piacevolmente incoraggiati quando Alshain ci rivolse una risata canzonatoria, commentando la comparsa dei nostri bagagli.

    “Ragazzi, non è necessario che portiate con voi altro, oltre voi stessi, quello che indossate adesso, e i ricambi che ho concordato con vostro padre. A Herrengton c’è tutto quello che può servirvi a passare le prossime settimane senza annoiarvi, non vi preoccupate.”

Sì, stavamo davvero per uscire dall’orbita delle assurde fisime di nostra madre! Niente regole, niente etichetta, niente ciance, per ben due mesi! Alshain si voltò sorridente verso nostra madre, che finse di guardare altrove, e parve rimanerne deluso, ma non sorpreso, fece un cenno a nostro padre che gli porse poco convinto un vecchio calzino rattoppato, di lana a righe rosse e verdi: l’avevo notato stranamente abbandonato sul divano, una vera indegnità per i canoni della nostra famiglia, meritevole di uno dei classici attacchi isterici e di folle rabbia per cui mia madre era tristemente famosa tra i nostri domestici. Capii solo allora che si trattava della passaporta creata apposta da Sherton non solo per portarci a Herrengton, ma anche, e forse soprattutto, per prendere in giro il carattere così poco scherzoso dei miei genitori: così bizzarra e fuori dagli schemi, contrastava infatti completamente con la nobile altezzosità di casa Black.

    “E tu questa la chiameresti passaporta?”
    “Orion, in qualche modo dovevo dimostrarti che non è l’aspetto a rendere migliore la magia...”

Gli fece un occhietto e mio padre sbuffò esasperato, di certo quella era una discussione che noi non capivamo ma che apparentemente li coinvolgeva già da un pò.

    “Bene, ragazzi, ora prendete un lembo del tessuto e tenetelo stretto, e occhio a non mollare mai la presa fino all’arrivo”.

Per congedarsi, Sherton salutò mia madre con un inchino e il solito bacio della mano, ma lei sdegnosa non parve perdonarlo, urtata com’era per la sfacciataggine del calzino e chissà per cos’altro, poi, quasi di forza, abbracciò mio padre, che cercava di mediare tra la scontentezza della mamma e la solarità dell’amico, optando infine per un’espressione scontenta, come se gli importasse davvero che stavamo partendo. Quando alla fine si guardarono, però, vidi nei suoi occhi la luce diversa, la luce vitale, quella che assumeva solo con Alshain, come se riconoscesse se stesso solo in quei momenti, attraverso il suo amico. Gli prese le mani tatuate e le ammirò, lo guardò negli occhi, avvicinò il viso all’orecchio sinistro dicendo qualcosa che nessuno di noi comprese, Sherton fece un cenno di assenso e, quando si staccarono, sorrisero entrambi. Vidi, in mio padre, l’espressione serena e giovane, che gli ero riuscito a scorgere solo in qualche vecchia foto: fu allora che ricordai… Quando avevo cinque anni, giocando, avevo trovato una foto di scuola di mio padre, diciottenne, abbracciato a un ragazzo magro e già un poco più alto di lui, vestiti entrambi con la divisa di Serpeverde. Orion teneva con la destra una scopa da Quidditch, che non poteva essere la sua, poiché sapevo che non aveva mai gareggiato, e con l’altra faceva il gesto V di vittoria da dietro la spalla del suo amico, che reggeva a sua volta una coppa. Erano radiosi e felici. Era la stessa foto che avevo visto ad Amesbury il giorno della partenza di Mey… lei mi aveva chiesto perché ero triste... e mi aveva offerto la sua amicizia. Non ci avevo pensato in quei due mesi, avevo fatto in modo di non pensare mai a lei in tutto quel tempo, di evitarla e ignorarla se c’erano le condizioni per incontrarsi. Da allora non le avevo più parlato... Perché mia madre diceva sempre a mio padre che doveva fare di tutto per averla... per Regulus. E sapevo che la mamma otteneva sempre tutto. Ora l’avrei rivista… mi avrebbe perdonato per quei mesi di silenzio? E saremmo stati davvero amici? Mentre ero perso nei miei pensieri, Sherton si mise al mio fianco e toccò a sua volta la parte del calzino adiacente a quella che avevo impugnato io: subito si chiuse il nostro cerchio e di colpo sentii uno strano calore emergere dal tessuto, tutto iniziò a girare attorno a me, ero come preso all’amo, sembrava che qualcosa mi avesse ghermito all’altezza dello stomaco, vorticai e resistetti a stento dal mollare la presa. La cosa durò per un tempo che mi parve interminabile, non immaginavo che fosse così difficile trattenere un oggetto così insulso, finché alla fine mi sentii cadere dall’alto, la presa allo stomaco finì e il calzino smise di scottarmi in mano.
Mi ritrovai piegato a terra con mio fratello di fianco a me, sotto la luce di un pallido sole e una corona di montagne aspre e brulle tutto intorno a noi. Mi alzai e cercai di mettere a fuoco: dall’ombra capii che eravamo sul fianco occidentale di una montagna e precisamente su una specie di mulattiera; in basso si apriva una valle, separata dal piede del monte dal letto di un fiume turbinoso che faceva quasi da confine con la civiltà, e punteggiata da sparute abitazioni e qualche campo coltivato. Noi eravamo molto più in alto, circondati da boschi su tre lati e il quarto era appunto quella specie di strapiombo di roccia bianca e levigata a picco sul fiume. Per un attimo fui preda delle vertigini, con la sensazione di essere senza scampo, poi notai che la stradina in cui ci trovavamo proseguiva e si snodava tra gli alberi e che il nostro ospite si stava già avviando in quella direzione. Reg era stupito come me, entrambi immaginavamo di ritrovarci subito nel salotto degli Sherton, non in mezzo al nulla, ma mi guardò impaziente e mi sibilò un “MUOVITI!” per non rischiare di rimanere indietro a causa delle mie indecisioni, anche perché, se l’avessimo perso, non sapevamo come fare per andare avanti o tornare indietro. Mi passai le mani sui pantaloni e la camicia, sperando di togliere un po’ di polvere e non apparire come un barbaro quando fossimo arrivati a casa Sherton, e mi avviai con Regulus, all’avventura, quasi trotterellando. Appena entrammo nel bosco, vedemmo che Alshain si era fermato ad aspettarci, si era tolto le vesti eleganti con cui si era presentato a casa nostra e aveva iniziato a indossare dei pantaloni più comodi e semplici, e una specie di tunica corta, rimanendo per un attimo a torso nudo. Ci invitò a fare altrettanto cambiando le nostre scarpe e i nostri indumenti con quelli che ci offrì; mentre, vergognandomi, mi spogliavo, notai che, sul corpo temprato dalla vita all’aperto, portava numerosi tatuaggi: una serie di rune erano collegate dalle spire di un serpente lungo tutta la spina dorsale, altre serpi cingevano rune lungo le braccia e le gambe, avevo intravisto qualcosa durante la sua vestizione a Yule, ma lì, nella luce soffusa della boscaglia, avevo una vista d’insieme di quel gioco di arabeschi sulla sua pelle. Mi chiedevo se anche Meissa avesse il corpo decorato in quel modo.
Per almeno i due terzi del viaggio, Sherton si mostrò poco loquace: per un po’, ricordando come nostro padre si lamentasse spesso delle nostre vane chiacchiere, immaginai che quella fosse la nostra prima lezione, sicuro com’ero che quella “vacanza” fosse una specie di scuola di correzione ideata dai nostri genitori con la complicità del loro amico. Per nostra fortuna, però, l’amico in questione era anche l’unica persona che conoscessimo, in grado di farci apprezzare la vita e dimostrarci che era degna di essere vissuta.
In breve fu chiaro anche il concetto di “femminucce rammollite” con cui ci bollava sempre nostro padre: mentre Sherton si muoveva agile su quel percorso aspro che si apriva tra i boschi, saltava i ruscelli, s’inerpicava tra lingue di roccia, io e Reg annaspavamo. Avevamo i piedi feriti, nonostante le calzature più adatte, le braccia e il viso graffiato dai rami e dai rovi, i pantaloni prestati già impolverati e infangati da alcune cadute. Mio fratello aveva la faccia di chi trattiene ormai a stento le lacrime, lo guardai storto e con un paio di grugniti, articolare le parole era ormai un’impresa troppo difficile e faticosa, gli feci capire che era probabilmente ciò che si aspettava da noi nostro padre e, forse, persino Sherton. Così stringemmo i denti e proseguimmo. Con molta difficoltà gli stemmo dietro fino a raggiungere una specie di sbalzo di roccia, sempre sul lato ovest della montagna, da cui ammirammo un panorama maestoso e riprendemmo fiato. Il sole era salito a segnare quasi mezzogiorno, la verde pianura era molto più in basso di prima, la voce del fiume non era più percettibile, dinanzi a noi le montagne che ci avevano accolto all’arrivo come una corona inviolabile, si aprivano in inaspettati altopiani, boschi e radure.
Sherton ci offrì dell’acqua e estrasse, da una piccola bisaccia, un unguento con cui ci curò i piedi piagati. trasse poi dalla bisaccia più capiente che portava alla cintola, del pane e della carne secca, e la distribuì insieme a frutta selvatica che aveva raccolto mentre salivamo fin lì.

    “Herrengton è molto lontana?”

Con voce degna di un fantasma, Reg manifestò quanto fosse preoccupato, sinceramente lo ero anch’io: nulla intorno a noi, infatti, faceva pensare che dopo tutta quella fatica ci fossimo avvicinati a una qualche forma di civiltà, anzi, da lì, non si vedevano più nemmeno le sparute casette di prima. Dov’era lo splendido maniero che avevamo visto durante la festa di Habarcat?

    “Tutto questo è Herrengton, da quando siamo entrati nel bosco e ci siamo tolti le vesti stiamo facendo la via più sicura per arrivare a casa senza doverci inoltrare nel fitto della foresta, per ora non siete adatti a quella strada.”.

Io e Reg ci guardammo, entrambi non osavamo immaginare cosa potesse essere la foresta di Herrengton, se quell’odissea senza fine in cui ci eravamo imbarcati e da cui difficilmente saremmo usciti vivi, era da considerarsi la strada più sicura e alla nostra altezza. Non appena finimmo tutto il cibo che ci era stato offerto e l’unguento fece effetto, ci rimettemmo in viaggio, sempre in silenzio: la strada penetrava di nuovo nel fresco del bosco e scendeva a nord est, orientandosi poi sempre più verso nord, infine virò dolcemente a est rialzandosi un poco; era quasi metà pomeriggio quando ci fermammo in una nuova radura, in attesa di non si sapeva bene che cosa. Quel tratto del percorso correva su una cresta di roccia che sovrastava il mare, sembrava un’enorme bolla di mercurio appena increspato da timide onde, su cui si rifletteva il cielo grigio azzurro come gli occhi del nostro ospite. Mi affacciai appena dallo strapiombo e vidi che la montagna scendeva perpendicolarmente nel mare, senza creare una spiaggia, ma innestandosi sulla superficie liquida con faraglioni di roccia liscia e bianchissima, caduti a conficcarsi nel mare nella notte dei tempi. Non era possibile sentire che in lontananza il suono della risacca, e si percepiva appena il bianco della spuma che s’infrangeva sulla roccia. Che fossimo sopra la grotta di Salazar? Era quello l’arco marino da cui eravamo entrati? Mi resi conto che già ero rapito dalla vastità di quegli spazi infiniti, nonostante la totale stanchezza ammiravo i silenzi, i colori, le forme di quella terra selvaggia e indomita, e persino quel suo essere in realtà così terribile e pericolosa. Preso da ammirazione per il mondo che esisteva fuori della mia casa, non mi accorsi subito che di fronte a noi, alti nel cielo, erano apparse un paio di figure oscure che s’ingrandivano sempre più, si muovevano nella nostra direzione e tendevano a scendere di quota. Quando finalmente li misi a fuoco, per un attimo mi spaventai, non avendo idea di cosa fossero, poi capii: erano due ippogrifi, che si preparavano a planare dinanzi a noi. Su uno dei due, stupenda visione di una giovane amazzone, stava Meissa vestita in un modo bizzarro, per niente simile agli abiti tutti vaporosi e eleganti che avevo imparato ad associare alla sua persona: portava dei pantaloni di pelle scamosciata, degli stivaletti e un un pesante spolverino, anch’esso d pelle. I bei capelli corvini erano annodati in due trecce che scendevano alte ai lati del viso, le mani erano protette da guanti.
Una volta a terra, Sherton offrì del cibo a Ipnos, l’ippogrifo arrivato da solo, e una volta reso mansueto, sistemò me e mio fratello sulla sua schiena salendo poi a sua volta dietro di noi, mentre Meissa riprese il volo da sola, precedendoci sicura. Per me era un’esperienza assolutamente nuova ed unica: dapprincipio sentii forte la morsa della paura, soprattutto quando la bestia si staccò dai confini terrestri e si librò sopra il mare, diretta a est, poi mi resi conto della magnifica sensazione del vento sulla mia pelle, lo scenario da favola che mi circondava, il calore dell’ippogrifo e la strana e nuova sensazione che mi dava il contatto tra le mie mani e il suo piumaggio. Meissa volava per lo più davanti a noi, ma a volte virava e si metteva al nostro fianco, facendoci coraggio con un sorriso o chiedendoci se ci stavamo divertendo: allora tutta la mia tensione spariva ed io sorridevo come difficilmente mi capitava di fare. Col tramonto che iniziava a rosseggiare dietro di noi, diretti verso un cielo sempre più cupo, gli animali smisero di sovrastare il mare e ripresero a costeggiare gli speroni di roccia, salirono ancora un po’ di quota e puntarono decisi verso est. In basso vedevo la foresta che si faceva più selvaggia e inespugnabile, finchè, mentre gli ippogrifi iniziavano a scendere volteggiando, sotto di noi si aprì all’improvviso una radura segreta, che sembrava essere la nostra destinazione finale. Smontammo dagli ippogrifi, che Sherton ricompensò subito con del cibo, quindi si voltò verso di noi, prese la bacchetta che portava alla cintola e fece un paio d’incantesimi pulenti per toglierci un po’ di polvere e di sudore da dosso. Ci ridiede le nostre vesti e le nostre scarpe, si rivestì anche lui, rimise nella sua capiente bisaccia tutto quello che non ci serviva più e ci avviammo nel bosco, sempre diretti a est, su una stradina di terra battuta, che presto divenne un sentiero lastricato. Meissa ci precedeva a una certa distanza, sembrava che avesse anche più fretta di noi di tornare a casa.
Gli alberi a mano a mano si diradarono, la vegetazione selvaggia fu sostituita da ampi giardini, con i fiori sistemati ordinatamente, le siepi tagliate secondo giochi geometrici, i roseti in fiore. C’erano delle fontane e delle statue qua e là, delle panchine sistemate negli angoli più affascinanti, con vista sul mare, ovunque c’erano bracieri accesi, che illuminavano il tragitto, la sera calava inesorabile intorno a noi. Infine scorgemmo l’ombra del maniero, sovrastato dalle sue 5 torri, spuntare tra gli alberi, mentre ci incamminavamo sotto una specie di teoria di profumati archi fioriti, che collegava quei giardini esterni con quelli più prossimi alla casa. Ora finalmente riconoscevo la magnifica dimora degli Sherton. Un porticato si aprì davanti a noi al termine delle arcate, entrammo e lo risalimmo tenendo la sinistra, fino a penetrare in una specie di chiostro che circondava un cortile pieno di roseti: su di esso si apriva una scalinata di pietra a due ali, che si congiungevano in una terrazza le cui pietre si sistemavano a disegno, a formare una coppia di serpenti avvinghiati a reggere una gigantesca sfera, forse di giada o di un altro minerale verde, non poteva essere uno smeraldo, impossibile che ne esistesse al mondo uno così grande. Sotto, il motto di famiglia degli Sherton recitava “LES BIEN-AIMES ”, i prediletti. Da un paio di porte laterali sbucarono Kreya e Doimòs, mentre Meissa sembrava essersi già volatilizzata.

    “Ora seguite Kreya e datevi una rinfrescata, tra mezzora sarà servita la cena, vi prego di essere puntuali, anche se siamo solo noi tre, così poi potrete andare a riposare, ne avete sicuramente bisogno, oggi è stata dura per tutti e soprattutto per voi due che non siete abituati”.
    “Noi 3? E Meissa?”
    "Meissa e gli altri non staranno con noi fin dopo il solstizio, devono aiutare Mirzam a prepararsi per il suo rito…"

L’elfa ci fece strada lungo un corridoio orientato a sudovest, interminabile, in cui ammirammo una vera e propria galleria di ritratti degli antichi Sherton, in cui tutto dalla struttura muraria nel suo complesso al più piccolo dettaglio dei bracieri, celebrava la natura Slytherin di quella famiglia; arrivati in fondo alla galleria coperta, salimmo nella torre di sudovest lungo una scalinata che era ampia e luminosa anche a quell’ora della sera, soprattutto se messa a confronto con quella di casa nostra: anche qui c’erano bracieri accesi e ritratti appesi alle pareti, tutti accomunati da uno stemma in cui campeggiavano i serpenti argentei dagli occhi di smeraldo e la dicitura “les Bien-Aimès”, ma non c’erano animali o elfi morti impagliati ed esposti, come a Grimmauld Place. Arrivati al primo piano, la scalinata s’interrompeva in un ampio atrio, che dava su una terrazza con vista sul mare, e immetteva negli appartamenti destinati agli ospiti: fummo condotti in una grande camera a due letti, in cui erano già sistemate le nostre cose, e scoprimmo di avere a disposizione un bagno, molto più grande di quello a noi riservato a Grimmauld Place, e un immenso patio finestrato che si apriva a sud verso il bosco, con al centro una grande vasca piena di acque calde, circondate da rocce: io e Reg ci spogliammo sperando di tuffarci subito in quella meraviglia, immaginando già la nostra stanchezza scivolare via come per incanto e guardando storto Kreya quando ci ricordò che era tardi e che dovevamo solo lavarci, vestirci e andare a cena, i giochi li avremmo fatti a tempo debito. Sui nostri letti, enormi e circondati da ricchi baldacchini dorati, erano già pronti i nostri vestiti, con nostra gioia e sorpresa, Kreya non insistette perché ci pettinassimo come damerini. L’elfa ci aspettava sulla porta e, quando fummo pronti, ci avviammo dietro di lei in sala da pranzo; dalla terrazza scendemmo le scale, passammo dentro la lunga galleria e giungemmo alla scalinata principale, quella interna alla torre centrale, che avrebbe portato in alto agli appartamenti della famiglia Sherton e al primo piano alla grande sala da pranzo usata dalla famiglia: trovammo Alshain seduto ad uno scrittoio, stava firmando una pergamena, con la sua classica calligrafia inclinata ed energica, la arrotolò e la legò alla zampa di un gufo che poi liberò alla finestra.
La stanza era dominata da un enorme caminetto, in marmo nero, sovrastato da un ritratto di un uomo e una donna, eleganti e austeri: lui aveva gli occhi color dell’acciaio di Alshain, lei, Ryanna Meyer, che avevo già visto nei ritratti di Amesbury, con gli stessi capelli corvini del figlio, era la donna più bella che avessi mai visto fino a quel momento. A chiudere la composizione, in basso, c’erano due ragazzini, uno sui dieci anni e l’altro intorno ai cinque, probabilmente Sherton e suo fratello: notai che le mani di tutti loro erano tatuate, tutti avevano anche la runa impressa sul collo e che il padre portava all’anulare destro l’anello a forma di serpenti intrecciati con lo smeraldo stretto nelle bocche che ora aveva Alshain. Perché mio padre aveva detto a Lestrange che Sherton nn portava anelli? Ricordavo benissimo d avergli sempre visto quell’anello da quando lo conoscevo, però, in effetti, quell’anello spariva tutte le volte he si presentava ad un evento pubblico. Era davvero strano…
Come ci vide entrare, Sherton ci fece cenno di sederci, alla sua sinistra: il tavolo da pranzo era in legno di mogano, rettangolare, riccamente intagliato, e presentava altri quattro coperti e relativi posti vacanti, due a sinistra al nostro fianco, uno all’altro capotavola e l’ultimo a destra di fronte a noi, i posti vuoti della moglie e degli figli di Alshain; tutte le posate erano d’argento finemente cesellato, i piatti erano di ceramica finissima, con dei motivi floreali ricercati, la tovaglia era anch’essa ricamata con motivi floreali. Tutta la stanza era in pietra con il soffitto a costoloni e volte a sesto acuto, il pavimento era ricoperto di tappeti tessuti con ricercati disegni orientali, il mobilio era ridotto all’indispensabile, facendo risaltare ancora di più i dettagli di tutto il resto, come i bracieri cesellati con i soliti motivi serpenteschi. Con il gesto convenuto Alshain ordinò ai domestici di servirci la ricca cena, costituita da carne arrostita, molta verdura e a chiudere una torta deliziosa. Reg ed io eravamo assolutamente sazi e sfiniti, consapevoli di non aver mai mangiato così bene, quello che però mi aveva lasciato notevolmente stupito era che ci fossimo scambiati pochissime parole per tutta la serata: era molto strano, perché di solito Alshain con noi era molto simpatico e allegro.
Quando la cena ebbe termine si alzò e si mise a sedere su un'antica poltrona di fronte al caminetto e sembrò perdersi nei giochi delle fiamme, io e Reg ci guardammo, non sapevamo cosa fare, se prendere quel gesto come il suo modo di congedarci, o se dovevamo rimanere, se potevamo parlare o restare in silenzio. Fu allora, quando meno ce l’aspettavamo, che, rimestato appena il fuoco, si voltò di nuovo verso di noi, con un’espressione accogliente e ci chiamò a sederci su due poltrone di fronte a lui. Era arrivato il momento della storia e quello era già sufficiente a farci riprendere dalla stanchezza del viaggio e dai miei dubbi: invece delle solite storie di maghi leggendari, di guerre ed eroi, ci raccontò la storia di una nuvola. Una semplice, innocua, nuvola. Una nuvola considerata da tutti la più bella, la più nobile e la più importante, tanto che lei se ne gloriava e si isolava sempre di più, ritenendo le altre indegne di farle compagnia. Un giorno incrociò il vento e gli chiese annoiata se conoscesse un luogo in cui le nuvole erano alla sua altezza. Il vento le disse di sì e la nuvola si lasciò convincere a farsi trasportare lontano, nelle Highlands, con la promessa di trovare un luogo e una compagnia degne della sua nobiltà. Una volta arrivata però, non solo non trovò alcuna nuvola, ma il vento smise di soffiare, così rimase da sola, intrappolata nelle Terre del Nord, dove passò la sua vita a meditare sull’importanza dell’umiltà.

    “Di qualsiasi cosa abbiate bisogno, ricordate che Kreya sarà a vostra disposizione e me lo riferirà subito, ora, però, vi consiglio di andare a riposare, se volete passate nel patio, le proprietà dell’acqua vi faranno dormire meglio. Domani avrei piacere di portarvi con me, qindi dovreste svegliarvi presto. Ora, se volete, potete scrivere a casa, vi ho assegnato un paio di gufi per la corrispondenza, li troverete sulla terrazza della vostra camera.”

Avevo la sensazione che volesse restare solo il prima possibile, quindi feci un cenno a Reg, ci alzammo e ci congedammo secondo i cerimoniali che ci avevano insegnato i nostri genitori, strappandogli un sorrisetto divertito. Seguimmo Kreya per non perderci fin dalla prima sera e, accogliendo il consiglio del nostro ospite, ci spogliammo e ci tuffammo nelle acque del patio, sentendo la stanchezza perdersi nella carezza di quell’acqua profumata di fiori. Giocammo un po’ a schizzarci, le nostre risate risuonarono e riecheggiarono nella stanza illuminata anch’essa dai bracieri: non sarei mai più uscito da lì, se non fosse stato per l'elfa che si presentò con degli accappatoi e ci tirò fuori quasi di peso. Ci asciugammo e ci preparammo per la notte, ci sdraiammo sotto le morbide coperte, ognuno nel proprio baldacchino e iniziammo a chiacchierare sulle meraviglie viste e vissute quel giorno, celando a mio fratello le perplessità sui silenzi di Alshain e sull’assenza degli altri, ma presto sentii la voce di Reg farsi sempre più flebile e confusa, fino a spegnersi nel sonno. Solo con i miei pensieri, rimasi a contemplare la luna che faceva capolino dalla finestra: sembrava che lì il cielo fosse più terso, che le stelle brillassero di una luce più intensa e decisa, anche l’aria sembrava essere diversa, e soddisfare meglio la mia necessità di respirare. Mi rotolai nel letto, trovando difficoltà ad addormentarmi, preso com’ero da mille particolari che mi solleticavano curiosità e fantasia: quella costruzione doveva avere mille anni, la pietra era più vecchia di qualsiasi cosa io avessi mai visto fino a quel momento, mi immaginai quali e quante persone, quali e quante storie potevano essere passate in quella mia stessa stanza, quali intrighi e passioni avevano avuto luogo a pochi centimetri da me.
La camera era ampia, con un soffitto decisamente alto, coperto da quattro volte a crociera, che poggiavano su una rosa di nove pilastri, otto addossati alle pareti e uno in mezzo alla stanza, costituiti da fasci d nervature che s spingevano in alto ad aprirsi come petali di un fiore. I due letti erano affiancati, ed entrambi erano orientati in modo da avere di fronte le grandi vetrate ad arco ogivale che s aprivano verso est, così da essere baciati presto dalle prime luci dell’alba, mentre sul lato sud s apriva la porta che comunicava con il patio, a nord c’erano le finestre da cui in quel momento ammiravo il cielo stellato e la porta che dava sulle scale. Accanto ai letti una porta immetteva sulla terrazza. Era davvero tutto meraviglioso, lì, molto diverso da casa nostra, ma c’erano tante domande che si agitavano nella mia mente, e mi toglievano il sonno, lottando e vincendo per ore sulla fatica. Non potevo smettere di pensare alla storia della nuvola, era semplice ed anche scontata, ma non riuscivo a capire perché ce l’avesse raccontata, quale messaggio voleva davvero trasmetterci: fin da quel primo giorno avevo la convinzione, magari errata, che in tutto quello che Sherton faceva o diceva ci fosse un significato pregnante, nascosto sotto la semplicità visibile in superficie. Quando alla fine riuscii a perdere i sensi, i miei sogni agitati furono popolati da ippogrifi che mi lasciavano cadere in volo sulle scogliere, da immagini di mio padre che piombava in Scozia solo per sprofondarmi nelle segrete umide e anguste, piene di serpenti, di casa Sherton. E dal viso di mia madre, che si stagliava su tutti i ritratti della scalinata del maniero scozzese, inseguendomi in una atroce fuga.

***

Sirius Black
Herrengton Hill, Highlands - sab. 19/20 giugno 1971

Mi svegliai sudato e confuso, quando non era ancora l'alba e sul mare s’iniziava appena a cogliere il rosa del sole nascente; mi alzai, mi lavai e mi vestii, presi in mano le scarpe e sgattaiolai fuori, senza far rumore, per non disturbare mio fratello che, al contrario di me, sembrava dormire sereno, in pace col mondo. Scesi le scale, uscii nel cortile delle rose e da lì raggiunsi il giardino esterno, lasciandomi ritemprare dal fresco del mattino, restando sempre un po’ agitato: non sapevo bene nemmeno io che cosa stavo cercando, provavo ancora una strana sensazione di soffocamento. Arrivai al limitare del giardino, scavalcai il muretto e guardai di sotto, verso il mare e le scogliere, decine e decine di metri più in basso: pensai per un momento che quello poteva essere un buon posto per sparire, tutti avrebbero detto semplicemente “che terribile disgrazia!”Con la punta della scarpa mossi appena la terra per vedere con quanta facilità tutto quanto potesse franare, ma quando spostai deciso il piede in avanti, verso il vuoto, ecco che mi sentii risospingere indietro, senza che dinanzi a me ci fosse apparentemente nulla.

    “E’ meglio giocare con l’acqua del patio, Sirius!”.

Mi voltai spaventato: Sherton era improvvisamente seduto su una panchina dietro di me, sembrava essersi materializzato dal nulla, fumava una strana pipa, nella sua sontuosa veste da camera, tutto vestito di verde, con i capelli legati in una spessa coda e i piedi nudi, tatuati anch’essi come le mani.

    “Non riuscivo a dormire, così…”

Mi giustificai, pensando che si stesse chiedendo cosa ci facessi già in piedi. E soprattutto in quel posto.

    “Capita quando si dorme lontano da casa, poi probabilmente avrai mille domande in testa, è abbastanza normale non riuscire a dormire.”

Alshain non mi guardava nemmeno, preso da un puntino nel cielo e dalle sue nuvolette di fumo, ma sembrava che per lui fossi un libro aperto. Avevo molte domande da fargli, ogni volta che avevo provato ad affrontare con mio padre il discorso Sherton ero finito in castigo, con l’accusa di non essere capace di farmi gli affari miei, ma ora era lì di fronte a me, eravamo da soli e non volevo più rimandare. Era dall’autunno precedente che aspettavo quel momento.

    “Cosa mi ha trattenuto dal cadere?”

Alshain mi guardò serio.

    “Volevi per caso cadere?”
    “Certo che no!”

Ma in cuor mio non ne ero poi così sicuro. Non capivo cosa mi fosse passato per la testa, io non volevo di certo buttarmi di sotto, allora perché… Era chiaro che non l’avevo convinto, ma Alshain tornò comunque a guardare il cielo, con un’espressione grave e seria.

    “Quando sono tornato qui, nove anni fa, con la mia famiglia, la prima cosa che ho fatto è stata creare una protezione magica che cingesse la tenuta, così che nessun estraneo potesse vederci, sentirci o disturbarci, e che impedisse a chi è dentro di farsi del male, per esempio cadendo di sotto accidentalmente o volontariamente. Nel punto in cui ti trovi in questo momento sono avvenute fin troppe disgrazie.”

Mi fissò addosso i suoi penetranti occhi azzurri, come se volesse leggermi nell’anima. Sentii la faccia in fiamme e chinai lo sguardo, a osservare la punta dei miei piedi.

    "La protezione naturalmente vale solo per chi ha il segno che gli Sherton tracciano sui loro cari, io lo impressi su te e tuo fratello al momento della vostra nascita, perché siete i figli dell’uomo che tengo nel cuore più di un fratello, e farò di tutto per proteggervi, ricordalo sempre!”

Quelle parole ebbero su di me l’effetto che mio padre invano aveva cercato di ottenere con gli schiaffi per anni: di colpo compresi l’importanza di molte cose a cui teneva tanto, come la famiglia, la responsabilità, l’amicizia e il rispetto delle promesse. Alshain era già tornato a guardare il cielo, assorto in chissà quali pensieri, ed io mi stavo domandando ancora di più la vera ragione della nostra presenza in Scozia, cosa ci attendeva nelle settimane successive.

    “Ora dovresti rendermi qualcosa che mi appartiene…”

Misi la mano in tasca, in silenzio, tirai fuori la verghetta di Lestrange e gliela posi nel palmo aperto, senza esitazioni, ma volevo delle risposte.

    “Che cos’ha di tanto speciale quest’anello da giustificare un furto?”

Mi guardò di nuovo e sorrise, rigirandosi tra le dita quello stupido oggetto.

    “Appartiene alla mia famiglia dalla notte dei tempi, Sirius, ci è stato rubato durante le antiche guerre e da allora non facciamo che cercarlo. Lestrange l’aveva per puro caso e per puro caso ho scoperto che ne era lui in possesso. Ora grazie a te è tornato a casa…”
    “Ma Lestrange dice che …”
    “Quest’anello non ha alcun potere, se sta in mani sbagliate, Sirius, solo il legittimo proprietario può sfruttarne i doni. La leggenda, oramai nota a pochi, narra che con quest’anello Hifrig Sherton sposò la sorella di Salazar Slytherins e che in esso è stato racchiuso poi da quel grande mago un prezioso dono di nozze. Per impedire che l’anello fosse rubato ne sono state create altre due copie, una delle quali ti è servita per riprenderti l’originale. L’altra è sempre rimasta qui.”
    “Qual è il dono di nozze? E chi è il legittimo proprietario?”
    “Ho solo una teoria e devo verificarla. Secondo me, comunque, si tratta solo di un dono simbolico. Sei deluso?”
    “Un po’, credevo…”
    “Quello che hai fatto è molto importante per me, Sirius, e te ne sarò sempre grato, non era giusto che quello che appartiene a questa Terra rimanesse lontano da qui, tenuto in poco conto, come fosse una cianfrusaglia qualsiasi…”

Si alzò, mi passò la mano intorno alle spalle e mi guardò negli occhi.

    “Ora andiamo. Tra oggi e domani dovremo trovare tutto l’occorrente per il rito di Litha che avverrà tra due giorni. Kreya ha già preparato i vestiti adatti a te e Regulus, vai a cambiarti e fai colazione, si parte tra un’ora e stanotte si resta a dormire fuori.”

Asciutto ed essenziale, se ne andò appena disse queste parole, lasciandosi quasi sparire tra le piante, senza alcun rumore, come se i suoi piedi non toccassero terra, ma si muovessero su una nuvola. Assistetti a tutto questo affascinato e confuso, perso in una specie di tranche, quando però interpretai quelle parole, mi preoccupai di nuovo: a stento ero sopravvissuto alla giornata precedente e ora mi diceva che saremmo subito ripartiti, mi chiesi se Reg sarebbe stato in grado di affrontare un’altra strapazzata del genere, in fondo eravamo entrambi poco più che bambini. Al dunque, però, la giornata si rivelò migliore di quanto avessi immaginato. Partimmo diretti a sudovest, uscendo dalla torre sud, leggeri, solo noi tre, per quella che apparve da subito, con mio grande sollievo, semplicemente una passeggiata per i boschi: quella parte della tenuta, il giorno prima inaccessibile, vista dal basso sembrava meno aspra e selvaggia, fatta di morbidi declivi in cui i boschi non erano inespugnabili barriere di verde e le sorgenti d’acqua parevano moltiplicarsi magicamente. In seguito scoprii che questo era il vero volto di quella terra, mentre il giorno precedente avevamo subito un’illusione magica, creata ad arte da Alshain per proteggere la sua famiglia da occhi estranei.
Sherton parlò per tutto il tempo, descrivendoci le proprietà delle piante che incontravamo e arricchendo le descrizioni con racconti e aneddoti che esaltavano la mia fantasia: in particolare mi colpì la pianta del sambuco, legata alla storia dei fratelli Peverell e i doni dati loro dalla Morte, tra i quali appunto una bacchetta dai poteri straordinari fatta col legno di quell’albero. Notai che il nostro ospite aveva molto insistito con quella storia e in particolare non sulla bacchetta ma sull’anello dato al secondo fratello, come se avesse un’importanza superiore a tutto il resto. Forse era suggestione per tutto quello che di strano e meraviglioso stavamo vivendo, ma mi convinsi ancora di più che nulla accadeva per caso, che c’era un piano ben preciso sotto. Al contrario di me, Reg non sembrava molto entusiasta: non riusciva a capire l’utilità di tutto questo cercare, quando, come ci insegnava nostro padre, era sufficiente tirar fuori i galeoni per avere quelle piante e i loro estratti senza sforzo. Mi vergognai per l’ottusità di mio fratello, ma Alshain lo guardò senza meravigliarsi, forse vedeva in lui la versione “in fieri” del suo miglior amico, quindi gli accarezzò bonariamente la testa e, canzonandolo un po’, gli rivolse una gran risata:

    “Con i galeoni non si compra il piacere di giornate come questa, ragazzo mio!”

Mi domandai come mai quell’uomo che, stando ai discorsi di Lestrange, aveva anche più denaro di nostro padre, non avesse la sua stessa ossessione per i soldi e, almeno fino a quel momento, sembrasse utilizzare anche la magia solo quando era assolutamente indispensabile. Ci fermammo a mangiare in una radura, ed io rimasi con i sensi in allerta per tutto il tempo, sperando di riconoscere subito un’orma o un canto e fare bella impressione su Alshain. Alla fine, scoprii un paio di orme fresche e ottenni da Sherton delle interessanti spiegazioni, anche se erano solo impronte di scoiattolo. Nel pomeriggio ci affidò l’incarico di raccogliere le foglie di alcune piante che ci aveva descritto e scovare anche delle radici utili al rito: ero sicuro che ci stesse proponendo subito una verifica per stabilire quanto avevamo capito dei suoi discorsi.

    “In cosa consiste il rito, signore?”

Reg, sempre timido con chiunque, sembrava libero da tutte le sue paure e condizionamenti e mi ritrovai a essere fiero di lui: sarebbe stato bellissimo se quell’estate avesse aperto gli occhi e fosse saltato dalla mia parte della barricata, se invece di avere una piattola per fratello, avessi avuto finalmente un amico e un confidente. Sarebbe stato bellissimo poter...

    “Festeggiamo Litha, l’inizio dell’estate: di solito si cacciano e si offrono in sacrificio dei cervi. In più è celebrato il rito del Cammino di alcuni membri della mia famiglia, come negli altri Sabbat: questa volta è il turno di Mirzam.”

Ci guardò e capì che non sapevamo nulla di questi argomenti. Sospirò appena.

    “Nelle Terre del Nord ci sono da sempre dei riti che la mia famiglia ama celebrare ancora, mentre in altre parti della Gran Bretagna sono ormai in disuso da secoli, anche tra i maghi più tradizionalisti. Secondo questi riti, nel corso della nostra vita, ogni cinque anni compiamo un passo nel nostro Cammino della Conoscenza: Meissa ha preso le sue rune a Ostara, che per noi Slytherins coincide con la festa di Habarcat: era il suo terzo rito. Mirzam ha compiuto ventuno anni in maggio, festeggerà perciò a Litha il suo quinto rito. L’anno prossimo toccherà a me e a mia moglie. I riti e le prove che li precedono servono a potenziare le nostre capacità, sacrificando qualcosa di noi stessi e testimoniando la nostra adesione agli antichi precetti. Le piante che stiamo raccogliendo servono al rito, inoltre voi, con la vostra presenza, sarete testimoni e questo legherà ancor di più le nostre famiglie: anche vostro padre ha presenziato per me, quando ho compiuto ventuno anni”.

Come avevo intuito, tutto quello che stava succedendo non era casuale, ma aveva un senso e una ragione, che andavano di là della nostra vita, si legava a riti sacri che nascevano nella notte dei tempi, e quell’uomo, misterioso e affascinante, ci stava dando l’opportunità di assistere a tutto questo perché eravamo legati a lui, fin da prima della nostra nascita. In uno stato d’animo particolare, in preda a una specie di mistica illuminazione, come può spesso capitare a undici anni, quando elevi a tuo eroe un uomo di tale carisma, trovai subito le piante richieste, presi le foglie come indicato e ne raccolsi una parte per me, deciso ad appuntare tutto quanto ci diceva Sherton, appena fossimo tornati al maniero, ormai sicuro che un giorno ne avrei ricavato benefici. Alshain non disse nulla quando capì le mie intenzioni, ma vidi uno strano sorriso aleggiargli sotto i baffi, non so se di soddisfazione o perché mi trovava buffo. Alla fine aiutai anche Reg, più per far colpo su Sherton che non per amore di mio fratello. Era ormai sera quando, tornando all’accampamento con le ultime radici, ci accolse una gradita sorpresa: Alshain, infatti, aveva montato una tenda per la notte, piuttosto rustica ed essenziale all’esterno, ma grande e piena di comodità all’interno, tanto che sembrava una tenda da sultano, con cuscini, tappeti, letti morbidi e colorati. Mi sorprese un po’ però quando capii che lui avrebbe dormito fuori, vicino al fuoco, sulla nuda terra: avevo notato che amava lavita spartana, ma mi sembrava assurdo che rimanesse fuori con quel freddo. La cena fu a base di piccola selvaggina, catturata da Alshain mentre noi eravamo impegnati nella nostra ricerca e arrostita sul fuoco, ma il momento più bello fu appena dopo, quando Sherton iniziò a raccontarci la leggenda di quella sera: questa volta ci raccontò di epiche imprese e di maghi leggendari, un momento di rara bellezza, sia perché aveva una capacità interpretativa degna di un teatrante, sia perché mai i nostri genitori si erano presi la briga di passare il tempo a raccontarci storie. Quando ci ritirammo a dormire, finalmente ero rilassato e mi lasciai andare a un buon sonno ristoratore, abitato da sogni incentrati sui racconti d Alshain e non sui miei incubi e le mie paure; anche Reg, dopo quella giornata di nervosismo e insofferenza, che imputavo alla stanchezza non del tutto smaltita del giorno precedente, si era parzialmente placato e prendemmo sonno relativamente presto, mentre dall’esterno si stagliava sulla tenda l’ombra di Sherton, seduto davanti al fuoco a fumare la sua pipa.

*

Il mattino seguente, ci svegliò il profumo di porridge, mangiammo anche frutta fresca e ripartimmo, appena Alshain smontò magicamente la tenda e cancellò le tracce del bivacco: questa volta ci dirigemmo verso la costa, che raggiungemmo scendendo per molte decine di metri lungo un profondo canalone, ripido e pericoloso. All’arrivo ci ritrovammo in una piccola baia, protetta a est e ovest da ripide scogliere e a sud costituita da un’ampia spiaggia di ciottoli che si disperdeva rapidamente nei boschi per poi risalire verso una nuova cintura di rocce e alture, da cui eravamo appena scesi. Si era ormai fatto quasi mezzogiorno e dopo un pasto frugale, ci incamminammo lungo la spiaggia, risalendola sul lato nord occidentale fino alle scogliere verticali aspre e irte di ostacoli, dove Alshain eresse di nuovo la nostra tenda, poi affrontammo gli scogli resi scivolosi dai muschi e dall’acqua, ci arrampicammo di nuovo tra le rocce lungo un sentiero invisibile che Sherton però conosceva a memoria. Dopo circa un paio d’ore ci ritrovammo in una spiaggia minuscola protetta da un anfiteatro di rocce, alcuni faraglioni e archi marini, conficcati nel mare: ero certo che fossero i faraglioni che avevo ammirato dall’alto due giorni prima, dalla radura in cui ci avevano raggiunto gli ippogrifi. La spiaggia di ciottoli e rocce era interrotta, divisa in due parti da una lingua di mare che la penetrava profondamente, con le acque turbinose che finivano col nascondersi entro l’imboccatura di una grotta semisommersa: vi si accedeva con estrema difficoltà, in parte camminando nell’acqua, in parte nuotando, in parte arrampicandoci di nuovo sulla roccia scivolosa, fino ad approdare su una seconda spiaggia interna più ampia, fatta di detriti marini e, nei punti più reconditi, da stalattiti e stalagmiti, con la parte centrale del soffitto costituito da una pietra quasi perlacea, su cui si rifletteva l’azzurro verdastro dell’acqua e del cielo. Così buia non l’avevo riconosciuta subito, ma alla fine capii che era la spiaggia in cui era stato celebrato il rito di Meissa.
Alshain si tolse la tunica che portava incollata addosso, bagnata, rimanendo a torso nudo con i soli pantaloni, anch’essi fradici, estrasse dalla cintola la sua bacchetta, ce la puntò addosso e ci asciugò corpo e vesti all’istante. Sistemati noi, si asciugò a sua volta poi mosse la bacchetta e invocò “INCENDIO”: dodici bracieri si accesero in cerchio tutto attorno a noi, e altri sette si accesero sul rialzo di granito, su cui si ergeva l’altare di marmo nero e la gigantesca serpe di pietra, dalla testa d’argento e dagli occhi d smeraldo, con le fauci spalancate. Inorridii e sentii i peli della mia schiena rizzarsi, sembrava vero e feroce, pronto ad abbattersi su di noi. Sherton ci sorrise incoraggiante, mentre dalla volta faceva calare sette stendardi di Salazar Serpeverde tutto intorno al serpente di pietra, mentre tra i dodici bracieri si materializzava un altare d’argento finemente cesellato con motivi serpenteschi, su cui era inciso il motto di famiglia.

    “È quasi tutto pronto, qui avverranno i sacrifici e saranno bruciate le piante che avete raccolto. Tutto questo accadrà domattina all’alba. Ora dobbiamo procurarci un cervo, in attesa che arrivino gli altri.
    “Ci saranno tanti maghi come l’altra volta?"
    “Non tanti come quel giorno, solo i maghi del Nord e alcuni miei parenti.”

Alshain si avvicinò, ci circondò le spalle con le sue braccia e ci smaterializzammo, non capivo per quale motivo non l’avessimo mai fatto finora, ma mi ripromisi che glielo avrei chiesto quanto prima: ricomparimmo in una radura, dal rumore del mare capii che eravamo a pochi metri in linea d’aria dalla grotta, ma diversi metri più in alto. Di fronte a noi si apriva di nuovo il bosco e Alshain si diresse nell’intrico di alberi, aprì la bisaccia che aveva legato alla cintola, estrasse dei lacci e si mise a trafficare in prossimità dei piedi di alcune piante, depositando delle esche, poi ci fece cenno di inoltrarci con lui in mezzo a dei cespugli da cui era possibile controllare le trappole, si sedette a terra, distribuì le uova, alcune fette di carne salata e della frutta, tutto estratto come sempre dalla sua bisaccia senza fondo. Con la schiena appoggiata all’albero, di fronte a noi, molto più vicino di quanto non l’avessimo avuto mai in quei tre giorni, potevo studiarne con attenzione tutti i particolari del viso e del corpo: sembrava più giovane della sua età, soprattutto per l’espressione del suo sguardo, combattiva ed energica, non era molto muscoloso ma straordinariamente tonico, il corpo snello, quasi come quello di un ragazzo, i suoi capelli non avevano ancora un solo filo grigio. Mi affascinavano soprattutto i suoi tatuaggi, come quello che portava al centro del petto, ora potevo vederglielo benissimo, sembrava una specie di candelabro, pieno di righe orizzontali che s’incurvavano a forma di corna di antilope. Alshain si accorse dell’attenzione quasi morbosa con cui l’osservavo, ma fece finta di nulla, probabilmente in attesa che trovassi il coraggio di chiedergli quello che mi passava per la testa. Piano piano, senza che me ne rendessi conto, mi assopii nel tepore estivo del sottobosco, in quella tenue luce che filtrava tra gli alberi, e nel sonno agitato del pomeriggio mischiai l’immagine di Sherton giovane con la coppa in mano, il serpente di pietra e le nuvole che correvano per i cieli della Scozia sospinte da un vento truffaldino. Era quasi metà pomeriggio quando i miei sogni confusi si bloccarono, sentimmo un fruscio e dalla nostra postazione fu facile vedere le ampie corna ramate di un magnifico cervo piuttosto giovane e dal manto rossiccio, Alshain fulmineo si erse e lanciò un “PETRIFICUS” che immobilizzò l’animale nell’atto di cibarsi da un albero. Rimasi sorpreso, ero convinto che fossimo lì per uccidere e mi colpì profondamente anche il gesto carico di tenerezza con cui l’uomo si chinò sull’animale: gli accarezzò il muso terrorizzato quasi a volerlo rassicurare, poi con estrema delicatezza se lo mise sulle spalle, e ci disse che era ora di procedere sulla via del ritorno. Questa volta non ci smaterializzammo, ma prendemmo un sentiero tra gli alberi che lentamente e con poca pendenza portava alla spiaggia della tenda.
Approfittò del viaggio, che affrontammo con estrema lentezza e calma, per descriverci i riti cui avremmo assistito quella notte, raccontandoci alcune leggende legate al solstizio d’estate. Quando arrivammo, era ormai il tramonto e la spiaggia era ora ben diversa dal mattino, ovunque erano state erette tende, ovunque si stavano accendendo falò e numerosi maghi nei loro mantelli chiacchieravano tra loro in piccoli e grandi crocchi. Non c’erano facce a me note e, soprattutto, notai di nuovo che quasi nessuno aveva con sé mogli o figlie. Due streghe giovani e molto belle si avvicinarono e fecero grandi sorrisi ad Alshain il quale ricambiò con freddezza, queste si allontanarono ghignando e si avvicinarono a un altro gruppo di maghi, che le accolsero tra risa e abbracci affettuosi, offrendo loro da bere: guardai interrogativo il nostro ospite, il quale sospirò amareggiato.

    “Secondo la tradizione non è permesso l’ingresso alla spiaggia e alla grotta a donne che non appartengano a Herrengton, durante i riti. Quanto avete appena visto dimostra che c’è molto lavoro da fare anche nella Confraternita del Nord, per riportare decoro e rispettabilità nella società magica”.

Raggiungemmo in silenzio la nostra tenda, dove Sherton depositò a terra il cervo, proprio all’ingresso: Kreya ci attendeva con la cena di pesce appena preparata. Al termine, compiuta anche la vestizione, era ormai passata la mezzanotte, Sherton congedò Kreya, prese un sontuoso mantello nero, se lo gettò addosso, ci pose le braccia a cingerci le spalle e uscimmo dalla tenda.

    “Gran bell’esemplare”.

Un vecchio, grassoccio e piuttosto basso, stretto, come pressoché tutti i presenti, in una magnifica veste smeraldo, con un cappello a punta, i pochi capelli argentati arruffati, i baffoni stile tricheco che pendevano ai lati del naso, gli occhi azzurri acquosi, stava quasi sull’uscio, ammirando il cervo catturato da Alshain. L’avevo già intravisto a Habarcat, ma non gli avevo dato troppa importanza.

    “Professore!”

Si abbracciarono, baciandosi le guance, gli occhi erano pieni d’affetto.

    “Sono felice che sia dei nostri, quest’anno. Ragazzi, vi presento Horace Slughorn, professore di pozioni a Hogwarts, questi sono i figli di Orion, Sirius e Regulus Black.”.

Il professore annuì e sorrise.

    “Eccellente, finalmente ho il piacere di incontrarvi”.

Ci strinse con energia la mano, mentre i suoi occhi inquietanti sembravano trapassarci non solo le vesti, ma anche la carne, e un sorriso ambiguo gli si stampava in volto.
   
    “Mi raccomando, ragazzi, ascoltate con attenzione il signor Sherton, è stato uno dei migliori studenti che abbia mai avuto nella mia lunghissima carriera, e ora voi, stando al suo fianco, avete l’opportunità di conoscere una magia antica che nelle scuole spesso ormai non s’insegna più”.

Poi tornò a guardare il nostro ospite, serio e vagamente incupito.

    "Hai già visto i segni, Alshain?”
    “A Londra, e a Herrengton ci sono già, Horace, Deidra ha da poco visto un altro segno durante il suo viaggio in Galles, che si aggiunge agli altri già noti, sarebbe bene se qualcuno andasse a controllare Godric Hollow, ma credo non ci siano più dubbi, ci siamo”.
    “Capisco. Non pensi che sarebbe meglio se i ragazzi stessero con me durante la cerimonia? Tu sarai impegnato e c’è già molta confusione sulla spiaggia. Da solo non riuscirai a tener tutto sotto controllo stanotte. Sai già se Abraxas verrà?”

Un’ombra passò sul viso del nostro ospite.

    “E’ mio cugino, nulla può impedirglielo. Comunque sì, è una buona soluzione, in attesa che anche Orion ci raggiunga; ragazzi, quando ve lo chiederò, andrete col professore, vi spiegherà tutto quello che accadrà, mentre io sarò impegnato durante il rito. Siamo intesi?"

Rispondemmo in coro con un sì deciso, finora non ci aveva dato mai veri ordini, era stato gentile e disponibile, anche se avrei preferito non mollarlo un attimo, doveva avere una buona ragione per farci quella richiesta. Inoltre fino a quel momento non mi era passato per la testa che nostro padre potesse raggiungerci per il rito e l’idea di rivederlo così presto mi gettò per un attimo nel panico totale. Slughorn si allontanò con un sorriso e andò a salutare altri maghi che a mano a mano si materializzavano sulla spiaggia, noi restammo con Sherton, seduti su una sontuosa pelle di drago stesa da Kreya di fronte al fuoco: la spiaggia era ormai piena di tende, si erano accese decine e decine di fuochi, alcuni intonarono antichi canti, che Alshain ci traduceva. Piano piano ci addormentammo, di nuovo accoccolati al suo fianco, protetti dal suo calore e dal suo mantello, proprio come dei cuccioli, questa volta sognai di salire le scale che portavano alle stanze private degli Sherton, aprivo una porta che dava su una stanza completamente vuota, dominata solo da un camino gigantesco dove mi aspettava un vecchio mago dai capelli candidi come neve, lunghi fin oltre la cintola, tondi occhialini calati sul naso ricurvo, mi faceva segno di entrare e mi metteva l’anello di Lestrange all’anulare della mano destra, dopo avermi inciso sul petto una gigantesca runa. Non so quante ore passarono, ma di colpo mi svegliai, notai che gli occhi di Alshain, di solito persi in pensieri lontani, quella notte erano particolarmente vigili e attenti, mentre la bacchetta, sempre portata con indifferenza alla cintola, era nella sua mano: la osservava con attenzione, ogni tacca, ogni rilievo, ogni incisione, era seguita con cura maniacale sia con lo sguardo sia con la punta delle dita.
Mi stirai, suscitando la sua attenzione, lo sguardo preoccupato sparì dal suo viso, mi osservò sorridente, chiedendomi se ero stanco, io negai con la testa, cercando di apparire convincente. Quell’uomo mi sconvolgeva: in quella sera così importante stava lì con noi a proteggerci, a prendersi cura come mai Orion aveva fatto, invece di occuparsi di quella gente certamente più importante che due mocciosi come noi, come di sicuro avrebbe fatto nostro padre.

    “Signore, perché noi non ci siamo materializzati qui direttamente dalla villa, mentre questi maghi possono materializzarsi tranquillamente sulla spiaggia?”.

Sherton sorrise capendo la mia confusione e mi guardò direttamente negli occhi:

    “Quando il signore di Herrengton non è nella tenuta, lascia eretta una protezione completa contro gli estranei: per questo abbiamo usato una passaporta per venire fin qui da Londra. Quando siamo entrati nel bosco, mi sono spogliato non per non sporcare le vesti ma per farmi riconoscere, attraverso i tatuaggi, così che la foresta si aprisse a me. Analogamente, la grotta di Serpeverde è accessibile a tutti solo dopo che il signore di Herrengton ha fatto il suo ingresso e ha tolto alcuni incanti: per tutti gli altri, fin quando non ho acceso i bracieri ed estratto gli stendardi, la grotta non solo era inaccessibile, ma era persino non individuabile. E sarà sempre così. Se ad esempio un giorno l’ultimo degli Sherton morisse senza indicare un successore e un custode, nessuno riuscirebbe più a trovare la grotta di Serpeverde, e tutta la tenuta di Herrengton pur sopravvivendo, per il resto del mondo sparirebbe nel nulla.”.
    “Ma siamo a una festa, signore, perché sono necessarie tante protezioni?”
    “Questo luogo detiene un grande potere, Sirius. Un potere che attira molti, benché non sia qualcosa che si possa acquisire con la semplice volontà, né con la forza. Purtroppo nel corso della tua vita avrai modo di comprendere che ci sono maghi innocui e maghi molto pericolosi, molti di questi sono tali non tanto per il potere che hanno, ma perché spesso non usano la razionalità nell’agire, ma solo l’istinto. Altri sono pericolosi perché conoscono solo alcuni tipi di magia, e si scordano del valore e della potenza della magia più grande.”
    “Qual è la magia più grande?”
    “L’amore. Ricordalo sempre Sirius, la magia più potente, quella che ti dà la forza di affrontare le situazioni difficili e sconfiggere anche i nemici più forti di te, è sempre l’amore.”

Mentre parlavamo, e i discorsi finivano in meandri che non avrei mai immaginato di affrontare con lui, la notte era quasi giunta al termine. Fu allora che udimmo degli schiocchi, più rumorosi di tanti altri che avevamo sentito fino a quel momento, tanto che persino Reg, ancora immerso nel sonno, si ridestò. Tra noi si materializzarono cinque maghi avvolti in pesanti mantelli neri, con i cappucci che nascondevano i visi ma che lasciavano intravvedere, nel mago più corpulento, una criniera biondissima, quasi bianca: a quell’apparizione Alshain serrò con determinazione la bacchetta, i suoi occhi divennero dei laghi oscuri, con i lampi delle ultime fiamme del bivacco che vi si specchiavano in modo sinistro. I nuovi arrivati si guardarono intorno, fino a che quello più grosso non mise a fuoco la figura di Sherton, quindi, mentre gli altri rimanevano in disparte, avanzò, con incedere imperioso, verso di noi: era molto alto, massiccio, completamente vestito di nero, elegantissimo, ostentatamente ricco, con un bastone da passeggio con l’impugnatura a forma di testa di serpente, molto simile a quella che avevo visto nelle mani di Alshain a Grimmaul Place, gli occhi d ghiaccio e una barba bionda, lunga fino alla cintola come i suoi lunghissimi capelli. Alshain si alzò, e per un attimo io sentii la morsa della paura attanagliarmi il corpo dallo stomaco alle gambe, temendo che quel mago fosse uno dei soggetti malvagi e pericolosi di cui mi aveva appena parlato, arrivato lì proprio per fargli del male, ma con sorpresa notai che sul viso del mio ospite comparve rapidamente un ampio sorriso, aprì le braccia e accolse con un abbraccio caloroso il nuovo arrivato, che nel frattempo si era ormai sfilato il cappuccio. Solo in quel momento forse frastornato dai racconti di Alshain, compresi che quello era soltanto Abraxas Malfoy.

    “Cugino, questa notte sei una visione per gli occhi! Come sempre del resto!”.

Alshain sorrise, era abituato ai complimenti dell’elegantissimo cugino Malfoy.

    “Deidra non è ancora arrivata?”
    “Ho visto i suoi segni, tra poco sarà qui. Vieni. Conosci già i figli di Orion, Sirius e Regulus Black, vero?”

Nostro padre aveva un rapporto d’odio-amore con Malfoy: titoli come “il maledetto bastardo” avevano risuonato innumerevoli volte lungo la scalinata di casa nostra, e per un bel pezzo furono all’ordine del giorno, all’epoca in cui diversi suoi affari sfumarono a causa dell’interferenza di quell’uomo. Ultimamente però avevano spesso fatto affari insieme, e ora che preferiva averlo come alleato invece che come avversario, i toni si erano notevolmente addolciti, ora nostro padre lo definiva addirittura “quel genio”, ma qualche volta, se riusciva a metterlo nel sacco a sua insaputa, lo irrideva dandogli dell’idiota. L’avevo visto più o meno di sfuggita diverse volte, ultimamente anche troppo spesso per i miei gusti, e ogni volta ne avevo percepito la pericolosità, i suoi occhi di ghiaccio erano come privi di vita, sembrava un serpente, come quello della grotta, temibile e pronto a colpire, ma soprattutto, ora, avevo idea che fosse davvero un individuo senza scrupoli, se persino Sherton mi era sembrato a disagio al suo arrivo. Abraxas ci diede la mano e sembrò quasi soppesarci, come se solo osservandoci fosse capace di penetrare nella nostra mente e scovare chissà quale segreto: nostra madre una volta ci minacciò di metterci nelle mani di un feroce legilimens, e per un momento mi percorse la schiena un brivido di fredda paura all’idea che quell’uomo fosse riuscito davvero a leggere quello che avevo pensato fin dal suo arrivo.

    "Sì, certo che ci conosciamo, anche se forse solo ora mi rendo conto di quanto assomigliate al buon vecchio Orion alla vostra età. Beh salutatemelo, ragazzi, e ditegli che presto andrò a fargli visita”.
    “Non ce ne sarà bisogno, Orion ci raggiungerà quanto prima, potrai parlarci di persona.”

Malfoy sorrise, viscido, Alshain guardò prima lui poi la nera figura che era rimasta in disparte a osservare tutta la scena, dopo che gli altri tre, che calatisi i cappucci riconobbi come Lestrange con i due figli, e lì un brivido mi percorse la schiena, fecero un segno di saluto a Sherton e si mischiarono alla folla dei maghi.

    “Abraxas…. Sono contento che sia qui anche Lucius, puoi dirgli che avrò piacere di riceverlo alla fine del rito, così chiuderemo quel discorso tra gentiluomini…”
    “Sarà da te appena lo vorrai, ora vado a salutare gli altri, a più tardi.”

Alshain annuì, si abbracciarono di nuovo, poi Malfoy raggiunse suo figlio. Sherton lo seguì con lo sguardo fino a che non arrivò a destinazione, si volse verso Slughorn, il vecchio sembrava aver visto bene tutta la scena, si avvicinò discreto fino a portarsi dietro il nostro ospite, nell’ombra si dissero poche parole, poi Alshain si volse verso di noi e ci affidò alle sue cure.

    “Mi raccomando, non allontanatevi dal professore. Horace li affido a te come fossero i miei, mi raccomando”.

Ci passò la mano sui capelli e ci baciò sulla fronte, poi con uno schiocco si smaterializzò.


*continua*



NdA:
Ringrazio quanti hanno letto, hanno aggiunto a preferiti/seguiti/ecc, hanno recensito e/o hanno proposto/votato questa FF per il concorso sui migliori personaggi originali indetto da Erika di EFP (maggio 2010).

Valeria



Scheda
Immagine: ho scattato questa foto a Butt of Lewis durante le mie vacanze scozzesi (2014)
  
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