Capitolo
trenta
" Teadrops on the fire"
Simone entrò
baldanzoso in
casa preceduto da un leggero profumo muschiato, vestito di tutto punto
e senza
un capello fuori posto.
Erano solo le
sette del
mattino. Praticamente ancora notte fonda per Lou. Lo guardò
con gli occhi
appannati dal sonno, alzando quel tanto che bastava la testa dalla sua
tazza di
caffelatte rigorosamente tiepido, senza proferire parola.
«Oh,
non pensavo di trovarti
già viva e vigile!» – disse ironico e ad
alta voce.
Lou
bofonchiò qualcosa a denti
stretti, sentendo montare dentro un’irresistibile voglia di
uccidere
all’istante il suo amico. Simone piroettò per casa
canticchiando, avviandosi in
cucina e tornando qualche minuto dopo con una fumante tazzina di
caffè e
l’ultima fetta di ciambella allo yogurt.
Si sedette
rumorosamente di
fronte a lei continuando a fissarla strafottente.
«Il
tuo umore solare al
mattino è sempre stato un mistero per me: che avrai mai da
essere così felice?»
– le disse prendendola in giro, sbocconcellando la ciambella
con aria di sfida,
sbattendo gli occhioni in faccia alla sua amica che lo guardava a sua
volta, torva
e con aria omicida.
«Che
vuoi?» – sputò fuori, Lou.
«Passavo
di qui.»
Lou
meditò di ficcargli in
gola caffè, ciambella e tazzina in un colpo solo.
«E
soprattutto come hai avuto
le chiavi di casa? Le ho date a Beppe, non a te.»
Lui
alzò le spalle con aria
indifferente.
«Ciò
che è suo è anche mio.»
Lou
sibilò una parolaccia.
«Sboccata.
Da quando sei
diventata così maleducata?» – le chiese
amabile Simone, lisciandosi un
sopracciglio più curato del suo.
«Vediamo
un po’: da quando ti
conosco? Ecco, diciamo che sei una fonte inesauribile di istinti bassi
e
primordiali di violenza.»
Simone
ghignò malefico.
«Ho un
regalo per te, anche se
non lo meriti visto il modo in cui mi tratti!»
Si
alzò di scatto posando la
tazzina di caffè e facendone strabordare il contenuto sul
tavolo bianco
immacolato.
Lou
soffocò l’impulso di mettersi
ad urlare come una pazza.
Lo
sentì rovistare nella sua
borsa enorme.
Tornò
sempre danzando al
tavolo e le fece scorrere davanti un volantino color crema, quadrato e
vergato
elegantemente a mano.
«Che
roba è?» – chiese sospettosa.
«L’invito
alla mia sfilata.»
«Sarei
venuta lo stesso: da
quando fate gli inviti scritti a mano?»
Simone, infastidito, agitò in aria un dito
affusolato.
«Non
è un semplice invito: tu
fai parte dello spettacolo. Questo è per portare un amico o
un parente.»
«Come
prego?» Lou alzò un
sopracciglio, gelida.
«Ho
detto che puoi portare un
amico o un parente alla sfilata.»
«Quella
parte l’ho capita: mi
sfugge il ‘fai
parte dello spettacolo’.»
«Tu
indosserai il vestito di
punta: quello da sposa. Beh, insomma: per come vedo io una sposa,
s’intende.» –
spiegò Simone tornando a sedersi come se nulla fosse.
Lou rimase senza
fiato, ma non
avrebbe dato in escandescenze come Simone sicuramente si aspettava lei
facesse.
Non gli avrebbe dato soddisfazione, proprio no.
Tipico di lui
prendere
decisioni anche per gli altri.
Un vestito da
sposa! A lei! La voglia di ammazzarlo si faceva
sempre più pressante.
Contò
fino a dieci, bevendo
con calma il suo caffelatte in silenzio.
«E
quando sarebbe questa sfilata?»
– chiese poi con calma.
Simone la
guardò ad occhi
stretti, colto di sorpresa.
«Fra
un mese esatto.»
«Uhm…
avresti dovuto dirmelo
prima: ho già un impegno per quella settimana, mi
spiace.»
«Beh,
liberati dall’impegno.
Mi servi tu: nessuno può indossarlo a parte te.»
– disse incrociando le braccia
sul petto.
«Mi
spiace, non posso: devo
vedere Sara per le illustrazioni del libro, sai… non posso
assolutamente
mancare!»
Le era venuta
benissimo quella
balla.
«Io
non posso cambiare la
modella! – strepitò Simone - Devi essere
tu!»
«Non
insistere: non posso e il
mio lavoro ha la precedenza sul tuo. Puoi trovare una modella
facilmente, io
non posso mancare a questo impegno: ho le bollette da pagare, mi
spiace!» – stirò le labbra nel suo
sorriso più convincente.
Simone
tamburellò con le dita
sulle braccia incrociate, fissandola torvo.
«Ho
disegnato quel vestito per
te. Dove la trovo una modella così bassa, io? Per una volta
che ti chiedo un
favore, tu me lo neghi?»
«Una
volta?! – Lou ridacchiò
al di sopra del bordo della tazza, ignorando l’insulto sulla
sua altezza - Non
puoi chiedermi di sfilare, non posso esserci. Chiedimi qualsiasi altra
cosa, ma
non questa!»
Simone
inarcò un sopracciglio
e ghignò allargando il suo sorriso ogni secondo di
più.
«Qualsiasi
cosa?» – chiese con
un lampo folle negli occhi.
Lou prese tempo.
«Qualsiasi
cosa non sia contro
la legge.»
Lui
tornò ancora una volta a
rovistare nella sua borsa e tirò fuori due biglietti gialli,
rettangolari.
«Beh?»
– chiese Lou
disinteressata.
Lui glieli
spinse fin sotto il
naso.
«Hai
detto che avresti fatto
qualsiasi altra cosa. Beh, falla.»
Lou li
sbirciò con un’occhiata
veloce e subito dopo cercò di non sputare il latte che le
era andato di
traverso. Inghiottì rumorosamente.
Simone la
guardava con l’espressione
più innocente che potesse rifilarle.
Lei invece aveva
gli occhi
fuori dalle orbite.
Se gli sguardi
avessero potuto
uccidere…
«Scordatelo.»
«Hai
promesso.»
«Non
ho promesso un bel
niente! Sei impazzito: non c’è altra
spiegazione.»
«Sono
assolutamente serio. Non
sfilerai per me? Bene, allora mi accompagni ad un concerto.»
«Non a
questo concerto.»
«Perché
no? È un concerto come
un altro. Lo hai dimenticato, no? Ti è indifferente, giusto?
E poi scusa, pensi
che tra la folla lui noti proprio te?»
«La
mia risposta è no.»
Lou si
alzò, improvvisamente
sazia. Da quando Simone aveva scoperto che gli HIM avrebbero suonato in
Italia
le aveva dato il tormento per settimane.
Dopo aver
cercato di buttarla
fra le braccia di Julian per i pochi giorni in cui lo spagnolo era
rimasto in
Italia, fallendo miseramente e senza alcun risultato, era stata
un’escalation
di richieste e discussioni inutili e assurde.
Sciacquò
la tazza, la asciugò
con cura riponendola poi nello scaffale, allineando il manico nella
direzione
di tutte le altre. L’ordine maniacale che la circondava
avrebbe reso orgogliosa
qualsiasi madre. Quell’ordine però nascondeva ben
altro nel suo caso, lei che
era incasinata e trovava il suo disordine confortante.
Da qualche mese
a quella parte
invece, vigeva l’ordine e la pulizia asettica e assoluta,
segno inequivocabile che
in lei qualcosa non andava. Cercando di mettere ordine in
ciò che la
circondava, sperava di metterlo anche dentro di lei.
Le stava
riuscendo male, però.
«Non
verrò al concerto. E non
so neanche come hai potuto soltanto pensare che io possa prendere in
considerazione la cosa. Mi conosci bene, eppure mi deludi sempre come
se fossi
un estraneo.»
«Hai
paura? E di cosa? Che lui
ti veda tra migliaia di persone? O sei tu ad aver paura di trovartelo
in carne
ed ossa così vicino?»
Lou non rispose
e contò fino a
dieci.
Non capiva
perché tutti si
aspettassero che lei andasse a quel maledetto concerto.
Non capiva
perché tutti si
ostinassero a pensare a lei e Ville come un tempo.
Non capiva
perché fosse
difficile accettare, come aveva fatto lei del resto e sicuramente
Ville, che il
passato è passato e che la vita era andata in maniera
diversa per ognuno di
loro.
Non erano
rimasti in contatto,
non c’era stato nessun addio e non ci sarebbe stato
sicuramente nessun ritorno.
Mai.
Certo che aveva
paura.
Aveva paura
della propria
reazione nel vederlo.
Aveva paura per
la sua sanità
mentale così già messa a dura prova in quegli
anni.
Non escludeva
che si sarebbe
potuta comportare in maniera inappropriata, cercando di farsi notare da
lui.
E non avrebbe
sicuramente
reagito bene alla sua indifferenza.
Non era pronta.
Non lo sarebbe
mai stata.
Quello che i
suoi amici non
immaginavano era il fatto che lei non aveva smesso di pensare a Ville
neanche
per un istante da quando si era sparsa la notizia dei concerti.
Che non aveva
smesso di
immaginare mille modi per vederlo e passare inosservata allo stesso
tempo.
O di sognare di
poter
incrociare per un’ultima volta il suo sguardo.
Ma in mezzo a
tutti quei sogni
ad occhi aperti, la Lou concreta e con i piedi che faticosamente aveva
cercato
di mantenere ben piantati a terra, aveva la meglio.
La Lou di un
tempo avrebbe
seguito il suo cuore.
La Lou del
presente seguiva la
strada triste e piatta ma sicura dell’autocontrollo.
Afferrò
lo straccio umido e si
girò a guardare dritto negli occhi del suo amico di vecchia
data.
«Quello
che dici non ha alcun
senso. Quello che tenti di fare, non ha senso. Non ho voglia di venire
con te a
vedere Ville.» – sputò fuori il suo nome
senza esitazione.
«È
ridicolo anche solo
parlarne di questa cosa. Ridicolo che tu, proprio tu tra tanti, chiedi
a me di
venire ad un concerto di cui sono certa non ti importa un fico secco.
Non so
perché tu lo faccia e
ancor di più perché ti aspetti che io dica di
sì.
Non lo
farò. Non verrò al
concerto. Non parlarmi mai più di Ville se non sono io a
farlo per prima.
Non trattarmi
mai più come
stai facendo ora.
Smettila di
starmi addosso o
metterò in discussione tutto quello che abbiamo costruito in
quindici anni.»
Gli
passò davanti e con un movimento
secco e preciso pulì la macchia di caffè che
c’era sul tavolo bianco.
Si
sentì subito meglio, anche
se durò poco.
Simone era
chiuso in un
silenzio stupefatto.
Lo vide
arrossire.
«Okay…
cercavo solo… di…» -
balbettò a disagio.
Lentamente
riprese il
biglietto del concerto e lo infilò di nuovo nella borsa.
Lou non si fece
intenerire e
incrociò le braccia al petto.
«Cerca
di pensare ai fatti
tuoi d’ora in poi.»
«Come
vuoi. Non ti dirò più
nulla.»
«Perfetto.»
«Ora
devo andare al lavoro… ci
vediamo.»
«Buona
giornata.»
Il suo tono era
glaciale.
Lo
osservò a braccia conserte raccogliere
le sue cose e avviarsi mestamente alla porta, per poi girarsi con un
cipiglio
severo sul volto.
«Ci
sono molte persone che
stranamente continuano a volerti bene e a preoccuparsi per te: vedi di
non
perderle tutte per strada come hai fatto con Ville.»
Ecco che Simone
sfoderava
l’arma di indurre al senso di colpa: stavolta non avrebbe
funzionato.
Era troppo tesa,
incavolata
con lui per il suo modo subdolo di controllare la sua vita, non
rispettando mai
le sue scelte, i suoi desideri e gli spazi che lei metteva tra
sé e il resto
del mondo.
Aprì
la bocca per rispondergli
a tono ma lui, impettito e offeso, si era già richiuso la
porta alle spalle.
Che andasse al
diavolo!
Era stanca di
tutto e tutti e
la sua giornata era appena iniziata.
Iniziò
a strofinare ogni
superficie con foga quando lo squillo del cellulare la distolse dai
suoi
pensieri cupi.
Chi diavolo
chiamava a
quell’ora?
“Ti
prego, fa’ che non sia mia madre e i suoi rimproveri: oggi
non
reggerei!”
Sbirciò
il suo cellulare con
timore: l’ultima cosa di cui aveva bisogno in quel momento
erano le bacchettate
della sua inflessibile genitrice.
Era Karl.
Tirò un sospiro di
sollievo e rispose con il cuore leggero.
«Karl!
Come mai mi chiami a
quest’ora?»
«Luly!»
La vocina
squillante della
piccola Evangeline le perforò le orecchie.
«Peste!»
La giornata
stava decisamente
migliorando.
«Evangeline
Emma Winkler: non
dovresti essere all’asilo?»
«Ho la
febbre. E ho anche il
mal di gola. E mi fa male il nasino, Luly!»
Sorrise
divertita alla
scenetta della piccola che tossiva e piagnucolava al di là
della linea.
«Che
hai combinato? Ti sei di
nuovo tolta il pigiamino durante la notte?»
Lilly aveva
l’abitudine di
scoprirsi durante il sonno: ricordava quando era piccola e la trovavano
sistematicamente
fuori dal piumino e le gambette penzoloni al di fuori delle sbarre del
lettino.
«No.
Sono stata brava… aspetta
Papy, non ho finito. No, io parlo con lei! Cattivo!»
Ridacchiò
nel sentire un
trambusto, la voce bassa e solitamente calma e pacata di Karl che
cercava di
imbonire la pestifera bimba, la vocina di lei che urlava e
l’abbaiare eccitato
di Calzetta.
«Lou,
mi senti?»
«Che
diavolo combinate voi
due? Sono solo le… - sbirciò l’orologio
rosso appeso alla parete della piccola
cucina - sette e trenta del mattino.»
«Lo
so, e scusa se ti abbiamo
svegliata. È da ieri sera che vuole chiamarti: si
è svegliata alle sei
saltandomi sullo sterno, con il cellulare in mano, intimandomi di
chiamarti.»
«Voglio
parlare io con Luly!
Passamela!»
Karl
sibilò una sfilza di colorite
parolacce in tedesco.
«Non
dire parolacce, Papy! La
nonna Ilse mi ha detto come si dicono!»
Lou
scoppiò a ridere.
«Ti
rendi conto? Mia madre che
insegna parolacce a mia figlia.»
«Tranquillo,
ero già sveglia e
per fortuna non capisco molto il tedesco. Che succede?»
«Si
è beccata l’influenza
all’asilo: Valentina ha il morbillo, mi ha appena chiamata
Katia. E io devo
partire per due giorni. L’ho saputo solo ieri e non ti
chiederei di aiutarmi se
Katia non avesse i suoi problemi con le sue figlie: si era offerta di
tenere
Evangeline…»
«Mi
chiamo Lilly! Lillyyyyy!»
– urlò la piccola a poca distanza dal ricevitore.
Calzetta
confermò con un
ululato.
«Come
dicevo, – tuonò Karl
ormai a corto di pazienza – Evangeline ha solo
un’influenza per ora. Potrebbe
aver preso anche lei il morbillo e…»
«Karl,
Karl: fermati e
respira. Vengo io.»
«Sei
sicura? Non hai i tuoi
impegni, vero? Scusami… ma sei la mia ultima speranza. Non
posso mancare a
questa conferenza.»
«Stai
tranquillo ho detto: è
da tanto che voglio vedervi. Mi dai il tempo di mettere in borsa
qualcosa e
sono da voi, diciamo fra… un paio d’ore? Ce la fai
a non strozzare la
streghetta indemoniata?»
«Oh
dio, ti ringrazio! Come
faremmo senza di te?» – il sollievo nella voce di
Karl era palese.
«Ehi,
aspetta: ma hai avuto il
morbillo da piccola? Non vorrei che ti ammalassi anche tu!»
«Tranne
la peste bubbonica e
il colera, ho avuto ogni malattia possibile: sono immune da
tutto.»
“Quasi”.
«Voglio
venire anche io alla ‘confidenza’!»
– urlò Lilly.
«Ti
prego. Fai in fretta.» –
sussurrò disperato Karl, allo stremo delle forze.
Lou
tornò a ridere.
«Fate
i bravi finché non
arrivo, okay?»
*****
Lilly la guardava sospettosa
con le braccine paffute piantate sui fianchi.
«Non
mi fai la puntura come fa
sempre il Dottor Medina, vero?»
«No,
che non te la faccio: io
non sono un dottore, Lilly. Non vieni a darmi un bacino?»
– chiese Lou ancora
ferma sulla soglia della porta, posando la borsa preparata alla
bell’e meglio
in pochi minuti e grattando il musetto di Calzetta che si era fiondato
a farle
le feste.
«Papy,
posso darglielo o poi
si ammala anche lei?» – chiese la piccola al padre,
con un broncio in grado di
sciogliere anche i ghiacciai.
Karl
ricambiò lo sguardo
divertito di Lou che lo tranquillizzava con un cenno della testa.
«Puoi
dare un bacio a Lou, ma
non starnutirle in faccia come fai sempre con me: non è
carino.»
«Okay!»
– ridacchiò la bambina,
abbracciando le gambe di Lou, scansando con un gesto possessivo il
cagnolino.
Eccola
lì, l’unica persona al
mondo in grado di farla correre con un solo cenno.
L’unica
persona che sentiva
sua nonostante non avesse un solo cromosoma in comune con lei.
Nessuna
somiglianza fisica.
Nessun grado di
parentela.
Ma
più sua di chiunque altro.
L’unica
persona capace di
colmare il vuoto che aveva dentro.
Si
chinò per poterla
abbracciare e la bimba le strinse le braccine intorno al collo,
arrampicandosi
addosso, avvinghiata come una scimmietta.
Lou si rendeva
conto di quanto
le mancasse per il resto del tempo solo quando la stringeva a
sé.
«Che
cos’ha la mia peste? Ti
fa male anche il pancino?»
Lilly nascose il
volto nel
collo di Lou, frignando a comando.
«Sì…
e mi fa male il nasino. Papy
me lo soffia forte, non è bravo come te.»
Karl
ridacchiò, infilandosi la
giacca grigia che tirava fuori nelle occasioni formali.
«Il
tuo Papy ha le mani grandi
come tutti i papà, lo sai? È per quello che ti fa
male, ma non lo fa apposta.»
Lou
strizzò l’occhio all’uomo
che era pronto per uscire.
Si
tirò su, con la bimba
sempre aggrappata a lei.
«Stai
tranquillo. È tutto
sotto controllo.»
«Lo
so, non mi preoccupo per
lei ma per te.» rise lui.
«Io e
la peste ce la caveremo,
vero Lilly? Non saluti il tuo papà?»
«Sì,
ciao Papy.» – bofonchiò questa
non muovendosi di un millimetro, rimanendo con il volto affondato nel
collo di
Lou.
«Dammi
un bacio, streghetta!»
– le intimò il padre ridendo.
«No.
Sei cattivo, vattene!» –
strillò Lilly aumentando la stretta intorno al collo di Lou
e dimenandosi.
«Avanti
Evangeline: non fare i
capricci o Lou va via.»
«Non
te ne vai, vero? – la
piccola alzò il faccino, sgranandole gli occhioni verde
scuro lucidi di febbre
in faccia - Rimani qui con me, vero Luly?»
«Solo
se fai la brava bimba,
saluti il tuo papà e non mi farai arrabbiare.» -
ribatté Lou seria, rovinando
la severità con un bacio sul nasino arrossato della piccola.
«Va
bene.»
Lilly protese il
volto
aspettando il bacio del padre che non se lo face ripetere due volte.
Karl era pazzo
della figlia, anche
se probabilmente due giorni di riposo gli sarebbero stati di giovamento
e allo
stesso tempo ne avrebbe sofferto.
«Mi
mancherai, piccola… torno
presto, va bene?»
«Sì,
okay, ciao. Ora vai.» –
disse sbrigativa la bambina, tornando a posare la testa
nell’incavo del collo
di Lou.
Karl scosse la
testa
sconsolato.
«È
il prezzo che pago per non
portarla con me, temo.»
«Le
passerà…» – lo
rincuorò
Lou.
Lui le sorrise,
abbracciandola.
«Grazie
per esserci sempre.»
Ricambiò
il sorriso dell’uomo.
Quei due non sapevano quanto invece loro facessero bene a lei.
«Perderai
il treno se continui
a ciarlare e ringraziarmi. Va’. Ci sentiamo
stasera.»
«Agli
ordini. Allora vado. A
stasera e divertitevi…»
«Come
sempre.»
Lou richiuse la
porta,
salutando Karl attraverso il vetro. Lui si girò ancora un
volta, alzando una
mano prima di sparire dalla sua visuale. Recuperò la borsa
avviandosi in camera
da letto, quella che usava da sempre quando era ospite in quella casa.
Per tutto il
tempo Lilly
rimase aggrappata a lei, in silenzio.
«Piccola,
sei arrabbiata con
il tuo papà?»
«Sì.»
- borbottò.
«Sai
che a volte Papy deve
andare a lavorare lontano. Ma sai anche che torna, non devi fare
così o lui poi
è triste.»
La bambina
borbottò di nuovo
parole incomprensibili.
Lou
lanciò sul letto la borsa,
con la voglia di seguirla e mettersi a dormire.
Calzetta
saltò immediatamente
sul letto, annusando e zampettando sulla sua borsa.
Si sedette sul
bordo tenendo
stretta la bambina che rimaneva aggrappata a lei; le fece solletico
sotto le
braccine per indurla a mollare la presa.
Lilly
ridacchiò debolmente. Se
fosse stata bene avrebbe scalciato come una pazza e lanciato urla
stridule.
Allentò
però la presa sul suo
collo e si sistemò meglio sulle sue gambe per osservarla.
Gli occhioni
verdi della
piccola la valutarono velocemente.
Lou
ricambiò lo sguardo serio,
notando che i capelli le erano cresciuti un pochino e i boccoli castani
ormai
le arrivavano alla schiena. E che l’estate le aveva lasciato
sul nasino
impercettibili lentiggini. Aveva un graffio sulla fronte, sicuramente i
suoi
dispetti al gatto di casa non erano piaciuti e quello era il risultato.
«Che
hai fatto a Natale?» – le
chiese Lou sfiorando con un dito il graffio quasi guarito.
«Niente!
Volevo mettergli il
fiocco come il micio che sta sul libro di favole, ma lui non voleva e
allora
gli ho messo la molletta dei panni sulla coda!» –
rispose orgogliosa di sé.
«Lo
sai che non si fa!
Evangeline!» – la rimproverò, reprimendo
una risatina.
Quel povero
micio anziano ne
passava di tutti i colori con Lilly: peggio di quanto Simone avesse mai
fatto!
Si
guardò intorno alla ricerca
dell’enorme gatto rossiccio, ma non c’era traccia.
Probabilmente si teneva
lontano dalla sua padroncina sadica fino a quando non era ora della
pappa.
Allora lo si
vedeva arrancare
placido e miagolare con forza per richiamare l’attenzione.
La piccola fece
una
smorfietta.
«Voglio
un gatto femmina! Così
posso metterci i fiocchi e il profumo! Qui sono tutti maschi!»
Lou
pensò alla sua Katty:
dubitava che si sarebbe fatta infiocchettare da chicchessia…
Beh, forse
soltanto da una
persona.
“Perché
diamine devo sempre pensare a lui, a loro?” – pensò
infastidita.
«Hai
ragione: qui ci sono
troppi maschi.» – rise Lou, tornando a prestare
l’attenzione alla piccola.
«Forse
possiamo chiedere a
Papy di prendere un pappagallino femmina.»
«No!
Non mi piacciono i
pappagalli! Fanno sempre la cacca puzzolente! Valentina ne ha uno e la
sua mamma
vuole ucciderlo: dice sempre che lo mette nel forno con le patate! Ma
non si
può, vero Luly? Non può mica cucinare Nerone?
Vero?»
«Ma
certo che la mamma di Vale
non cucinerà il povero Nerone: è solo una cosa
che i grandi dicono ma poi non
fanno.»
«Allora
è come quando Papy
dice che andiamo a vivere dove abita Nonna Ilse?»
Lou si
paralizzò.
«Quando
l’ha detta questa
cosa, Papy?» – chiese giocherellando con i riccioli
della piccola.
«Lo
dice sempre: dice che fra
poco andiamo a vivere in… in… non mi ricordo dove
abita la nonna!»
«In
Germania. Non te lo stai
inventando, vero piccola peste?»
Lilly scosse
energicamente la
testa.
«No.
Anche la nonna quando mi
telefona mi dice che è felice che andiamo lì a
vivere. Ma io non ci voglio
andare!» – frignò la piccola,
pericolosamente vicina al pianto.
«Io
voglio rimanere qui, con
Valentina e voglio la mia casa! E poi tu non potrai venire sempre
perché è
lontano lontano! E anche zio Simone e zio Pepe non vengono e io non
voglio!»
Che storia era
quella? Karl
non aveva mai accennato alla cosa! Sperò che la piccola si
stesse inventando
tutto: non avrebbe sopportato una distanza simile tra lei e Lilly.
Ebbe
improvvisamente voglia di
mettersi a frignare come stava facendo la bimba.
«Non
lo so, piccola… il tuo Papy
non mi ha detto niente. Facciamo così: quando torna ci parlo
io, okay? E poi
non è così lontano lontano –
cercò di rassicurarla – c’è
sempre il nostro carro
magico. O l’aereo!»
Le
strizzò l’occhio ma Lilly
continuava a piangere.
«Ma la
nostra casa è questa,
non in quella “Gerbania”! Qui
c’è la
mamma… se vado via chi le porta i fiori e le conchiglie
bianche?»
Le
asciugò le lacrime che
strabordarono. Le si strinse il cuore nel vedere quel faccino adorato
così
triste.
Che cavolo
passava per la
testa bionda di Karl?
Lou
abbracciò la piccola
baciandole i capelli.
«Non
ci pensiamo ora, va bene?
Hai fame? Vuoi qualcosa di buono?»
Lilly
tirò su col nasino e
scosse la testa.
«No,
ho sonno ora. Mi canti la
ninna nanna?»
«Tesoro,
lo sai che non sono
brava a cantare. Che ne dici se ti leggo una favola?»
«Va
bene. – sbadigliò la
bimba, tornando a raggomitolarsi contro di lei – La mia
preferita.»
Ma certo. La sua
preferita.
Quella del “Principe
della Torre”.
Perché
mai le avesse inventato
quella favola non lo sapeva spiegare. Si era spesso chiesta se stesse
raccontandola alla piccola Evangeline o a se stessa.
Lilly voleva che
il Principe
trovasse la Principessa Perduta: quando lei provava a raccontare il
finale in
modo diverso, così come lo aveva raccontato la prima volta,
pretendeva che lo
cambiasse.
Anche Mara
avrebbe voluto lo
stesso finale.
Era un vero
peccato che la
Principessa Perduta della favola fosse una codarda e che si limitava a
guardare
il Principe quando lui dormiva. Che continuasse a trasformarsi in
fantasma di
notte, per poter vegliare sul sonno del suo Principe.
«Questo
finale fa schifo e non
mi piace. Devi dire che lui si sveglia, la vede e si baciano. Sono
queste le
favole belle, Luly!» - le diceva la bambina, incrociando
contrariata le
braccine sul petto.
Come darle
torto?
E allora lei
inventava per
Lilly un vestito fatto con il blu della notte, con mille stelle che
luccicavano
sopra e la Principessa Perduta, aiutata dal Vecchio Mago dei Sogni e
del suo
Pendaglio Incantato, poteva tornare ad essere visibile per il Principe
della
Torre. Lui si svegliava e la baciava, chiedendole di rimanere per
sempre con
lei.
Quel finale le
faceva schifo e
voleva mettersi a frignare anche lei, ora.
«E va
bene: ti piace così
tanto la favola del Principe della Torre? Ce ne sono di più
belle…» - le disse
Lou, portandola nella sua stanza.
«Sì,
mi piace perché la
Principessa Perduta somiglia a te nella foto che aveva la
mamma.” – bofonchiò
la bambina tra uno sbadiglio e l’altro.
«Quale
foto, tesoro?» – chiese
Lou rimboccandole le coperte dopo averle tolto le pantofole con le
orecchie di
coniglio.
«Quella
che sta nella macchina
“foffogafica” nel comodino di Mamy. Ci sei tu e zio
Simone e una signora che
non conosco. Solo che tu hai i capelli arancioni, come in quella che
sta sul
camino, non marroni come ora. E sono lunghi lunghi, come quelli delle
sirene. C’è
anche la Torre del Principe, quindi mi piace.»
Di che cavolo
parlava
Evangeline?
«Va
bene… allora sei pronta?
Posso iniziare?» – le accarezzò i
capelli.
«Sì,
mi dai la mano?» – chiese
la bambina afferrandole le dita, chiudendo gli occhi.
“Luly,
rimani qui mentre dormo?»
“Rimani
qui con me stanotte? Fino a che non mi addormento? Prometto di
non toccarti più il sedere...”
Anche lei lo
aveva chiesto una
volta, in preda a deliri febbrili.
E lui aveva
risposto di sì.
E con la voce
più bella che
lei avesse mai sentito, le aveva cantato una ninna nanna.
«Non
vado via, Lilly. Sono
qui.»
La piccola
sorrise e pochi
istanti dopo era già addormentata.
Lou
continuò ad accarezzarle i
capelli finché anche lei si rasserenò, ritrovando
quella calma di cui aveva bisogno.
In quella stanza c’era l’odore della bambina. I
suoi giochi, le sue foto
insieme al papà, a lei e Simone e Beppe, con Valentina.
Sul comodino
c’era la foto di
una Lilly minuscola tra le braccia di Mara raggiante di
felicità.
La piccola aveva
attaccato un
cuore di carta rossa su un angolo della cornice verde acido e
conchiglie
bianche sui tre lati rimanenti.
C’erano
le sue poche bambole,
i suoi pastelli, i suoi vestitini.
L’unica
cosa che cambiava
giorno dopo giorno era la piccola, che cresceva e acquisiva la propria
personalità e presto sarebbe diventata troppo grande per
tutte quelle cose
sulle quali ora contava su di lei.
E se era vero
che Karl aveva
deciso di trasferirsi, si sarebbe persa molto altro.
Continuò
a tenere strette le
dita di Lilly per un tempo infinito, accarezzandole di tanto in tanto i
capelli, finché la piccola si girò su un fianco,
staccando la manina dalla sua.
Solo allora Lou
si alzò
stiracchiando la schiena e uscì in punta di piedi dalla
piccola stanza.
Disfò
la sua borsa con le
poche cose che aveva portato con sé sistemandole nel piccolo
armadio della
stanza che Karl e Mara le avevano riservato tanto tempo prima,
lasciando
all’interno solo il portatile.
Lì
c’erano molti dei suoi
vestiti che pian piano Nur le aveva rispedito da Helsinki.
Non li aveva mai
portati con
sé a Roma: le piaceva sapere che erano in un posto che lei
sentiva di poter
chiamare “casa”. Rovistò tra i cassetti
sfiorando le sciarpe e i capelli di
lana che nella capitale non le servivano ed usava soltanto
lì.
I maglioni e i
jeans che ora
le stavano troppo larghi.
Sul fondo del
terzo cassetto,
sotto una pila di t-shirt, sapeva che c’era la sciarpina
viola di Ville.
L’unica
cosa tangibile del
loro legame.
Era
così stupido avere ricordi
legati ad oggetti. Avrebbe dovuto buttar via quella sciarpina o meglio
ancora,
avrebbe dovuto rimandarla al proprietario.
Invece
l’aveva conservata. E a
volte tenuta fra le mani facendosi mille domande che erano rimaste
senza
risposta, lasciando che i ricordi fluissero liberamente.
Richiuse decisa
il cassetto,
ignorando volutamente il terzo.
Tornò
a vagare per la casa che
Karl teneva in perfetto ordine, fermandosi a guardare le foto sparse
ovunque.
C’erano frammenti di vita in quelle istantanee: momenti
felici e alcuni che lo
erano stati meno.
Si
fermò davanti alla foto sul
camino che ritraeva lei, Mara con il pancione e Simone: erano sulla
spiaggia
proprio davanti casa e ridevano. Erano caduti l’uno sopra
l’altro, in un
groviglio di gambe e braccia e i capelli lunghi e rossi di Lou erano
per metà
sui volti dei suoi amici.
Adorava quella
foto e
ricordava perfettamente il giorno in cui era stata scattata.
Mara aveva
deciso che dovevano
stare in quella casa tutti insieme per l’intera estate e
preparare la stanza
della bambina. Aveva costretto Simone a lasciare la sua amata e caotica
Roma
per una casa sperduta nel nulla: era l’unica che riusciva a
piegare il suo
amico isterico a fare quello che non voleva.
E insieme
avevano dipinto
immagini fiabesche nella stanza che sarebbe stata di Evangeline,
tornando per
un po’ ad essere quei tre giovani ragazzi ventenni che erano
stati durante
l’Accademia di Belle Arti.
Si erano
divertiti un mondo in
quelle settimane, ritrovando il feeling che li aveva uniti.
Le foto erano
diminuite nei
mesi successivi alla scomparsa di Mara, per tornare pian piano con foto
della
piccola Lilly durante gli anni.
La prima volta
che si era
alzata in piedi o quella in cui le era spuntato il primo dentino.
Quella in cui
aveva imparato a
stare sul vasino o a lavarsi i dentini da sola.
Il primo giorno
di asilo e
tanti altri momenti. E lei era quasi sempre presente.
Continuò
il suo peregrinare in
casa, sentendosi calma per la prima volta dopo settimane.
Forse avrebbe
potuto fermarsi
qualche giorno in più anche dopo il ritorno di Karl: giusto
un po’, per non
tornare subito a Roma sotto le grinfie di Simone.
Si
ritrovò davanti alla porta
chiusa della camera da letto di Karl e Mara ed entrò senza
timore: il letto era
disfatto. Nonostante l’ordine che vigeva in quella casa, Karl
non aveva avuto
il tempo di rifarlo.
Senza farsi
alcun problema lei
iniziò a mettere a posto le cose che lui aveva lasciato in
giro.
Si sentiva a suo
agio lì e
sentiva di non violare alcuna privacy.
Spalancò
le finestre lasciando
che il sole inondasse la stanza insieme all’odore del mare.
Le venne
improvvisamente
voglia di canticchiare e di ballare per tutta la casa, nonostante
sapesse di
essere stonata come una campana e avere ben poca grazia nelle movenze.
Quel posto le
ritemprava il
cuore e la mente.
Non poteva dar
torto a Simone
quando le diceva che aveva la Sindrome della Colf nel DNA,
pensò ridacchiando:
tenere occupate le mani la aiutava sempre a pensare di meno.
Stava per uscire
quando si
ricordò di quello che poco prima le aveva detto Lilly e
titubò soltanto qualche
istante prima di aprire l’unico cassetto del comodino che una
volta era di
Mara.
Dentro
c’erano alcune forcine
e mollette per capelli; l’orologio da polso bianco che lei
portava sempre; un
libro con un segnalibro infilato nel mezzo, un pacco di fazzolettini,
caramelle
al limone.
Uno specchietto
da borsetta e
il contenitore delle lenti a contatto.
Sfiorò
ogni cosa con il solito
groppo in gola.
Quasi nascosta
in fondo, c’era
la sua macchina fotografica digitale, sopra una busta da lettere rosa.
Stupita si
chiese come mai ce
l’avesse Mara: credeva di averla lasciata a Helsinki o che
Nur avesse
dimenticato di rimandargliela.
Si
rigirò quell’aggeggio fra
le mani, pensando al tempo che era passato dall’ultima volta
che l’aveva vista.
Provò
ad accenderla ma non
succedeva nulla: le batterie dovevano essersi esaurite nel frattempo.
Karl doveva pur
avere delle
batterie nuove da qualche parte; uscì dalla stanza
dimenticandosi di chiudere
il cassetto del comodino.
Cercò
ovunque senza risultato,
indispettita: era curiosa di sapere che ci fosse in quella scheda.
Se non ricordava
male
l’avevano usata quando Simone era stato da lei a Helsinki,
tanto tempo prima.
Con un lampo di
genio pensò di
visionare le foto con il computer: il suo vecchio e fidato “Highlander” aveva tirato le
cuoia da un
pezzo ormai. Tornò in camera e tirò fuori dalla
sua borsa il portatile,
aspettando seduta sul letto che tutta la sessione iniziale facesse il
suo
corso. Le sembrò che ci impiegasse
un’eternità, più del solito. Quando
finalmente fu pronto, estrasse la scheda e la infilò
nell’apposita porta.
Aprì
le varie cartelle: da
pignola qual’era aveva nominato ognuna con nomi e date. Molte
foto erano
paesaggi di Helsinki di quasi 7 anni prima. C’era
un’intera cartella dedicata
alle mostre degli artisti che aveva curato per Matleena, al
‘Kiasma’; ritrovò
anche quella in cui ad esporre era Julian.
C’erano
autoscatti di loro due
intenti a fare i buffoni. Lou fissò la sua immagine,
riconoscendo a stento in
quella giovane donna ridente con gli occhi brillanti, la donna che era
ora. Non
che adesso non ridesse: solo che aveva perso quel brio.
Come aveva fatto
la piccola
Lilly a trovare quelle foto? E ad accendere la digitale? Era una
bambina
precoce, ma dubitava fortemente che arrivasse a tanto.
Persa in quei
quesiti
continuava a scorrere le cartelle.
Non ricordava di
averne fatte
così tante…
Aprì
la cartella “Varie”,
incuriosita.
C’erano
foto di lei e Nur
nella loro casa; al Kauppatori, il porto di Helsinki, un posto che lei
adorava.
Varie angolature
della
Cattedrale, la sua “Dama Bianca”.
Il dito con cui
premeva “invio”
tremava leggermente: quanto le mancava la sua Helsinki… era
uno dei pochi posti
al mondo nel quale si era sempre sentita a suo agio.
E poi diverse
foto con Simone
e Nur, davanti alla loro casa. Riusciva a vedere persino un pezzo della
porta
del caro Sig. Korhonen.
Ed eccola
lì sullo sfondo, la
Torre di Ville: quasi nascosta dalla testa di Simone e i capelli di Nur
e il
proprio viso. Un autoscatto che li aveva colti entrambi impreparati e
lei che
se la rideva, l’unica che guardava dritta
nell’obiettivo. Il cielo nella foto
era di un azzurro così abbagliante e vivido: se ne
stupì come se non l’avesse
mai visto prima.
Continuava a
studiare ogni
particolare, evitando di guardare quel punto in mezzo alle loro facce.
Ci sarebbe
tornata in un
secondo momento.
Non appena il
cuore avesse
ripreso a battere normalmente, si disse.
Cliccò
sulla freccia per la
foto successiva e c’era la piccola Katty.
Minuscola palla
di pelo nero
arruffato che dormiva sul cuscino davanti alla finestra.
Katty che
zampettava feroce il
piumino della pantofola di Nur.
Katty che
fissava l’obiettivo
con aria perplessa e altera allo stesso tempo.
La sua
micina…
Non si era mai
preoccupata più
di tanto della sua sorte: sapeva con sicurezza che lui se
n’era preso cura,
portandola con sé nella sua torre.
Ne era
più che certa. Ville
non l’avrebbe mai lasciata a Nur o chiunque altro.
Katty era in
moltissime foto;
gli occhi della felina erano così verdi… come
quelli di…
“Smettila
immediatamente, Lucia”
Odiava la sua
parte
melodrammatica: quando meno se lo aspettava prendeva il sopravvento su
di lei,
buttando all’aria mesi e anni di autocontrollo.
Cliccò
automaticamente sulle
foto dove a regnare sovrana era sempre Katty, finché
arrivò ad una foto che non
aveva scattato lei.
Se ne sarebbe
ricordata.
E non avrebbe
potuto in ogni
caso scattarla visto che in quell’istantanea lei dormiva.
E non era stato
neanche Ville.
Perché
anche lui era
addormentato, con una mano posata sulla piccola Katty accoccolata come
sempre
sulla sua pancia.
«Ecco.
Ora puoi darti al
melodramma.» - si disse senza fiato.
L’altra
mano di Ville era fra
i suoi capelli, la teneva posata sulla nuca e le lunghe dita forti
sbucavano
fra i suoi ricci rossi.
Il proprio viso
era visibile
del tutto, così beato e sereno anche nel sonno, affondato
nell’incavo tra il
collo e la spalla dell’uomo.
Mentre di Ville
c’era solo il
collo, lasciato scoperto dalla camicia nera, il mento coperto da un
velo di
barba e la bocca.
La bocca di
Ville.
Sentiva i tonfi
del battito
del proprio cuore nelle orecchie.
“Probabilmente
sto per avere un infarto.” – pensò
tetra.
Chiuse gli occhi
per un lungo
tempo, sperando che la foto fosse solo frutto della sua fervida
immaginazione e
che nel riaprirli sarebbe sparita.
Sentì
la bocca inaridirsi
completamente.
E il suo stupido
cuore non
rallentava.
Si
alzò di scatto senza guardare
lo schermo e si precipitò in cucina dove bevve direttamente
dal rubinetto fino
ad avere la nausea.
“È
solo una foto, stupida donna.”
Non riusciva a
pensare
lucidamente.
Era del tutto
impreparata a
quelle emozioni.
Da dove sbucava
fuori quella
foto?
Chi
l’aveva scattata? Nur?
Simone? Julian?
Il periodo
coincideva con
quello in cui i due ragazzi erano sempre presenti in casa loro.
“Arrovellarsi
su chi ha scattato la foto è un diversivo debole e lo sai
bene.”
Ville.
Tornò
in camera e sulla soglia
si fermò con gli occhi fissi allo schermo.
Quella foto
faceva più male di
quanto immaginasse.
Per il solo
fatto che
esistesse.
Perché
le metteva davanti agli
occhi che era stato reale, che Ville non era solo il proprietario della
sciarpa
viola chiusa nel terzo cassetto della sua camera.
Perché
quello che erano stati
l’uno per l’altro in quei pochi mesi vissuti
insieme, balzavano fuori dalla
foto.
“Sono
state soltanto poche settimane, smettila di pensarci.”
Settimane in cui
aveva
scoperto una nuova se stessa. Qualcuno che le era piaciuto essere.
Con passi lenti
si avvicinò
nuovamente al letto e al computer aperto su quella finestra del suo
passato.
Ora il battito
era tornato
quasi nella norma e col passare dei secondi la foto faceva meno male.
Erano belli
insieme.
Osservando
quella foto era
chiaro il sentimento di fiducia da parte sua nell’affidarsi,
completamente
vulnerabile, all’uomo della foto. E lui…
Lui, a modo suo,
le offriva
riparo.
Come se le
stesse dicendo in
silenzio: “Vieni
più vicino, non avere paura.
Smettila di pensare, Prinsessa… e chiudi gli occhi.”.
Ed era quello
che le aveva
sempre detto, in fondo.
Che aveva sempre
cercato di
dirle.
“Smettila
di blaterare e vieni qui da me…”
Blaterare e
arrovellarsi e
dare di matto era il suo forte e in quella situazione lei aveva dato il
peggio
di se stessa, mandando all’aria tutto.
L’unica
cosa per cui valeva la
pena rischiare.
«Luly…»
La vocina della
bambina la
riscosse dal suo sogno ad occhi aperti.
Lanciò
un ultimo sguardo alla
foto prima di precipitarsi nella stanza della piccola.
Evangeline era
seduta nel suo
lettino e si stropicciava gli occhi infastidita.
«Sei
già sveglia, peste?»
«Avevi
detto che rimanevi qui
vicino a me!» – la rimproverò subito.
«Hai
ragione: ero andata a
fare pipì!» – le rispose ridacchiando,
strappando anche a lei un ghigno.
«Ho
fame. Voglio la nutella.»
«Papy
te la fa mangiare ora?»
La prese in
braccio baciandole
la fronte: era calda.
La febbre era di
nuovo salita.
«Sì.»
Lou le fece una
smorfia.
«Sei
una piccola streghetta:
lo so bene che non è così!»
«Solo
quando sono malata!»
«Uhm…
- borbottò Lou,
dirigendosi in cucina – Allora forse possiamo fare una
piccola eccezione,
questa volta!»
«Voglio
essere malata sempre.»
- sospirò Lilly.
Lou
scoppiò a ridere.
«Beh,
per la cioccolata ne
vale sempre la pena!»
Fece sedere la
piccola sul
tavolo, lasciando che la aiutasse a prepararle il meritato spuntino.
«Mettiamone
tanta, però.»
Lou
cambiò idea e lasciò
perdere il pane: le passò il barattolo e intinse un dito
nella crema alla
nocciole per poi portarselo alla bocca.
Evangeline
sgranò gli occhi
eccitata.
«Senza
pane è molto meglio:
tocca a te ora, peste!»
La bambina non
se lo fece
ripetere una seconda volta e ridendo la imitò.
Un potente
miagolio richiamò
la loro attenzione: Natale le aveva scovate e le guardava speranzoso.
«I
gatti la mangiano la
cioccolata?» – chiese Lilly con la boccuccia
impastata.
«Non
credo ai gatti piaccia la
nutella, piccola.»
«Natale
mangia tutto. Ma poi
fa la cacca in giro.»
Scoppiò
a ridere e Lou la
seguì a ruota.
«Allora
è meglio di no: il mal
di pancia lo avremo già noi due.»
Karl avrebbe
tirato le
orecchie a entrambe se fosse stato presente e Simone invece, avrebbe
commentato
che ogni grammo del nettare divino le sarebbe finito irrimediabilmente
sul
sedere.
«Questo
è un segreto da
femmine, Lilly.» – le sussurrò Lou con
tono cospiratorio.
La bambina
annuì energica e
tornò ad affondare le piccole dita nel barattolo.
«Mi
piacciono i segreti da
femmine che ho con te.» – rispose sussurrando a sua
volta.
«Anche
a me, tesorino… anche a
me.»
*****
Davanti al
camino e un
bicchiere di vino rosso, Lou fissava le fiamme che si contorcevano in
mille
volute.
Lilly, dopo una
giornata di
pura anarchia le dormiva soddisfatta accanto, raggomitolata con il suo
pupazzo
viola decrepito.
La febbre non
diminuiva ma la
piccola sembrava non risentirne più di tanto.
Quando Karl
aveva telefonato
quella sera, la figlia lo aveva liquidato con un ciao frettoloso ed era
tornata
a guardare i cartoni animati.
«Come
sta? È ancora arrabbiata
con me? Ha la febbre? Ha fatto i capricci? Ti ha dato noia?»
– le aveva chiesto
apprensivo.
«È
stata più buona del solito,
non preoccuparti: stiamo bene e ho tutto sotto controllo… Tu
come stai?»
«Stanco.
Annoiato. Mi manca la
mia streghetta e vorrei essere lì con voi.»
«Non
fare i capricci, Papy!» –
lo aveva preso in giro lei.
Lou aveva sulla
punta della
lingua tante domande ma non era il caso di parlarne attraverso un
telefono.
«Sto
pestando silenziosamente
i piedi a terra!» - aveva riso lui.
«Ora
vai a dormire, Papy: ci
sentiamo domani.»
Karl aveva finto
di frignare e
le aveva augurato la buona notte.
Era stata una
giornata piena.
Il tuffo inaspettato nel passato aveva stravolto i suoi pensieri per
tutto il
giorno.
«Luly,
questa sei tu!»
Maledizione a
lei e alla sua
svampitaggine!
Aveva
dimenticato il portatile
aperto sulla foto e la bambina la guardava curiosa.
Le si era
avvicinata
giocherellando con i suoi boccoli arruffati.
«Sì,
sono io.»
«Che
bel micetto! Come si
chiama? E chi è questo signore che sta vicino a
te?»
Lou
tirò un profondo respiro.
«Il
micio è una femminuccia,
si chiama Katty ed era la mia gattina quando vivevo in
Finlandia.»
«Qui
hai i capelli lunghi
lunghi, Luly, e arancioni come nella
foto con Mamy e zio Simone!»
«Sì,
tesoro.»
«Sono
più belli.»
«Non
ti piacciono come li ho
adesso?»
Lilly si
girò a guardarla
attentamente e scosse la testa.
«No,
mi piacciono i capelli da
sirena. Sei più bella.»
«Ok,
allora me li farò
ricrescere, sei contenta?»
«Sì.
Luly, chi è questo
signore?»
Lou sorrise:
aveva
tergiversato sperando di distrarre la piccola ma non avrebbe smesso di
chiederglielo finché lei non avesse risposto.
«Questo
signore è il ‘Principe
della Torre’.» – disse senza pensarci.
La bambina
tornò a guardarla stupita
con la boccuccia aperta.
«Davvero?
E adesso dove sta?»
«È
rimasto in Finlandia, con
la mia micetta.»
“Ma cosa
diavolo sto dicendo? Perché le sto raccontando queste
cose?”
«E ti
stanno aspettando? Non
ti manca la tua micetta?»
Lou
tornò ad avere un tuffo al
cuore.
«Sì,
mi manca molto Katty…
anche se era dispettosa.»
«Come
me?»
«Sì,
un po’ come te!» – rise
Lou, baciandole il naso.
«Mi
piace la tua gattina. E
anche questo signore mi piace. Perché non gli dici di venire
qui da noi e di
portare la micetta, così fa amicizia con Natale e poi si
sposano e io poi ho
più gattini di Valentina?»
“Già…
perché non lo hai fatto, stupida?”
Come faceva a
spiegare a
quella bambina cose che non sapeva neanche spiegare a se stessa?
«Perché
la casa di Katty è in
Finlandia e qui non le piacerebbe. È una gattina viziata: le
piace stare nella
neve, sai?»
Lilly storse il
naso
contrariata.
«Possiamo
darle il gelato,
così non fa i capricci!»
Nella sua logica
di bambina, il
discorso non faceva una piega.
«Come
si chiama il signore?»
Lou
sospirò.
«Ville.»
La sua voce
accarezzò quel
nome con dita invisibili.
«Ville?
– lo ripeté
ridacchiando – Che nome buffo, però mi
piace.»
«Anche
a me piace.»
«Però
non si vede tutta la
faccia. Mi fai vedere una foto dove si vede, Luly?»
«Non
ne ho, tesoro.»
«Uhm…
- borbottò delusa la
bambina- Allora digli di mandartela perché la voglio vedere
io.»
«Va
bene.» – le disse in
fretta per accontentarla.
«È
il tuo fidanzato?»
«No,
Lilly non è il mio
fidanzato ma gli voglio bene anche se è passato tanto
tempo.»
«Non
fa niente: anche io
voglio bene alla mamma anche se è passato tantissimo
tempo.»
“Non
piangere. Non piangere. Non davanti a lei.”- si diceva
deglutendo a ritmi regolari.
«Hai
ragione, è così.»
Aveva poi
cercato di sviare
l’attenzione della bambina leggendole delle favole nuove, o
disegnandole nuovi
personaggi, fino a farle dimenticare quella foto.
Fino a poco
prima quando nel
dormiveglia Lilly le aveva chiesto: «Luly, ma se il signore
della foto è il
Principe della Torre, tu sei la Principessa Perduta?»
«Forse,
tesoro.»
«Okay…
domani io telefono e
gli dico che ti ho ritrovata, così mi fa vedere la
Torre…»
E si era
addormentata con un
sorriso e il progetto di far sì che la sua fiaba preferita
avesse il finale che
pretendeva.
Si
alzò sospirando di nuovo,
avvicinandosi alla foto che la ritraeva con Mara e Simone.
Avrebbe tanto
voluto che la
fiaba di Lilly fosse stata realtà.
Detestava
piangere: non lo
faceva mai e il risultato era quella enorme palla dolorosa che aveva al
centro
del petto.
“Concediti
un pianto e inizia a dimenticare sul serio.”- si disse
duramente.
Lasciò
che solo per questa
volta le lacrime scivolassero lente fino a caderle mollemente lungo il
viso,
sulle mani, sulla mensola del camino e nel calore delle fiamme fino ad
evaporare.
"Angolo
dell'autrice:
Eccoci
di nuovo. Sì, lo so... è passato del tempo.
È
che ormai lo sapete, quindi è inutile che mi ripeta!
Stavolta
vi lascio ben 16 pagine di PippeMentali: farete scorta per un
pò, anche se non aspetterete tanto per il prossimo.
Siamo
in dirittura di arrivo e manca poco davvero alla fine. Beh, non mi
resta che lasciarvi per i soliti ringraziamenti!
Voglio
ringraziare le gentili donzelle che hanno recensito l'ultimo capitolo:
m a y h
e m, Dadda_HIM, Soniettavioletstarlet, Lady Angel
2002, cla_mika, katvil, arwen85,
DarkViolet92, apinacuriosaEchelon, LilyValo, AlexisRose,
angelinaPoe, saraligorio1993.
Abbraccio
forte a tutte!
*Per il titolo al capitolo mi sono ispirata a Massive Attack - Teardrop *
Vi
aspetto nel Gruppo
Facebook
dedicato alle
discussioni e tutto ciò che ci passa per la testa, inclusi
insulti e minacce varie, intervallati a momenti d'ammmore per Lou e
Ville!
Siete
le benvenute.
Alla
prossima!
Baci
baci,
*H_T*
testo.
|