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Autore: Heaven_Tonight    01/04/2015    13 recensioni
“Ikkunaprinsessa”. La Principessa alla Finestra.
C’era lei, Lou, in quel ritratto. C’era lei in ogni suo respiro, in ogni cellula o pensiero.
La sua anima, il suo cuore, le sue speranze mai esposte, il suo amore e la sua fiducia in esso in ogni piccola e accurata pennellata di colore vivido.
C’era lei come il suo caro Sig. Korhonen la vedeva.
Al di là della maschera inutile che si era costruita negli anni.
I capelli rossi e lunghi che diventavano un tutt’uno con il cielo stellato.
L’espressione del suo viso, mentre guardava la neve cadere attraverso la finestra, sognante, sorridente.
Lei fiduciosa e serena. Col vestito blu di Nur e la collana con il ciondolo che un tempo era stata di Maili.
Lui aveva mantenuto la sua promessa: le aveva fatto un ritratto, attingendo a ricordi lontani.
L’aveva ritratta anche senza di lei presente in carne e ossa. Meglio di quanto potesse immaginare.
Cogliendo la sua vera essenza.
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Ville Valo
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo trenta

" Teadrops on the fire"

 

 

Simone entrò baldanzoso in casa preceduto da un leggero profumo muschiato, vestito di tutto punto e senza un capello fuori posto.
Erano solo le sette del mattino. Praticamente ancora notte fonda per Lou. Lo guardò con gli occhi appannati dal sonno, alzando quel tanto che bastava la testa dalla sua tazza di caffelatte rigorosamente tiepido, senza proferire parola.
«Oh, non pensavo di trovarti già viva e vigile!» – disse ironico e ad alta voce.
Lou bofonchiò qualcosa a denti stretti, sentendo montare dentro un’irresistibile voglia di uccidere all’istante il suo amico. Simone piroettò per casa canticchiando, avviandosi in cucina e tornando qualche minuto dopo con una fumante tazzina di caffè e l’ultima fetta di ciambella allo yogurt.
Si sedette rumorosamente di fronte a lei continuando a fissarla strafottente.
«Il tuo umore solare al mattino è sempre stato un mistero per me: che avrai mai da essere così felice?» – le disse prendendola in giro, sbocconcellando la ciambella con aria di sfida, sbattendo gli occhioni in faccia alla sua amica che lo guardava a sua volta, torva e con aria omicida.
«Che vuoi?» – sputò fuori, Lou.
«Passavo di qui.»
Lou meditò di ficcargli in gola caffè, ciambella e tazzina in un colpo solo.
«E soprattutto come hai avuto le chiavi di casa? Le ho date a Beppe, non a te.»
Lui alzò le spalle con aria indifferente.
«Ciò che è suo è anche mio.»
Lou sibilò una parolaccia.
«Sboccata. Da quando sei diventata così maleducata?» – le chiese amabile Simone, lisciandosi un sopracciglio più curato del suo.
«Vediamo un po’: da quando ti conosco? Ecco, diciamo che sei una fonte inesauribile di istinti bassi e primordiali di violenza.»
Simone ghignò malefico.
 
«Ho un regalo per te, anche se non lo meriti visto il modo in cui mi tratti!»
Si alzò di scatto posando la tazzina di caffè e facendone strabordare il contenuto sul tavolo bianco immacolato.
Lou soffocò l’impulso di mettersi ad urlare come una pazza.
Lo sentì rovistare nella sua borsa enorme.
Tornò sempre danzando al tavolo e le fece scorrere davanti un volantino color crema, quadrato e vergato elegantemente a mano.
«Che roba è?» – chiese sospettosa.
«L’invito alla mia sfilata.»
«Sarei venuta lo stesso: da quando fate gli inviti scritti a mano?»
Simone,
infastidito, agitò in aria un dito affusolato.
«Non è un semplice invito: tu fai parte dello spettacolo. Questo è per portare un amico o un parente.»
«Come prego?» Lou alzò un sopracciglio, gelida.
«Ho detto che puoi portare un amico o un parente alla sfilata.»
«Quella parte l’ho capita: mi sfugge il ‘fai parte dello spettacolo’
«Tu indosserai il vestito di punta: quello da sposa. Beh, insomma: per come vedo io una sposa, s’intende.» – spiegò Simone tornando a sedersi come se nulla fosse.
 
Lou rimase senza fiato, ma non avrebbe dato in escandescenze come Simone sicuramente si aspettava lei facesse. Non gli avrebbe dato soddisfazione, proprio no.
Tipico di lui prendere decisioni anche per gli altri.
Un vestito da sposa!  A lei! La voglia di ammazzarlo si faceva sempre più pressante.
Contò fino a dieci, bevendo con calma il suo caffelatte in silenzio.
 
«E quando sarebbe questa sfilata?» – chiese poi con calma.
Simone la guardò ad occhi stretti, colto di sorpresa.
«Fra un mese esatto.»
«Uhm… avresti dovuto dirmelo prima: ho già un impegno per quella settimana, mi spiace.»
«Beh, liberati dall’impegno. Mi servi tu: nessuno può indossarlo a parte te.» – disse incrociando le braccia sul petto.
«Mi spiace, non posso: devo vedere Sara per le illustrazioni del libro, sai… non posso assolutamente mancare!»
Le era venuta benissimo quella balla.
«Io non posso cambiare la modella! – strepitò Simone  - Devi essere tu!»
«Non insistere: non posso e il mio lavoro ha la precedenza sul tuo. Puoi trovare una modella facilmente, io non posso mancare a questo impegno: ho le bollette da pagare, mi spiace!» – stirò le labbra nel suo sorriso più convincente.
Simone tamburellò con le dita sulle braccia incrociate, fissandola torvo.
«Ho disegnato quel vestito per te. Dove la trovo una modella così bassa, io? Per una volta che ti chiedo un favore, tu me lo neghi?»
«Una volta?! – Lou ridacchiò al di sopra del bordo della tazza, ignorando l’insulto sulla sua altezza - Non puoi chiedermi di sfilare, non posso esserci. Chiedimi qualsiasi altra cosa, ma non questa!»
Simone inarcò un sopracciglio e ghignò allargando il suo sorriso ogni secondo di più.
«Qualsiasi cosa?» – chiese con un lampo folle negli occhi.
Lou prese tempo.
«Qualsiasi cosa non sia contro la legge.»
 
Lui tornò ancora una volta a rovistare nella sua borsa e tirò fuori due biglietti gialli, rettangolari.
«Beh?» – chiese Lou disinteressata.
Lui glieli spinse fin sotto il naso.
«Hai detto che avresti fatto qualsiasi altra cosa. Beh, falla.»
Lou li sbirciò con un’occhiata veloce e subito dopo cercò di non sputare il latte che le era andato di traverso. Inghiottì rumorosamente.
Simone la guardava con l’espressione più innocente che potesse rifilarle.
Lei invece aveva gli occhi fuori dalle orbite.
Se gli sguardi avessero potuto uccidere…
«Scordatelo.»
«Hai promesso.»
«Non ho promesso un bel niente! Sei impazzito: non c’è altra spiegazione.»
«Sono assolutamente serio. Non sfilerai per me? Bene, allora mi accompagni ad un concerto.»
«Non a questo concerto.»
«Perché no? È un concerto come un altro. Lo hai dimenticato, no? Ti è indifferente, giusto? E poi scusa, pensi che tra la folla lui noti proprio te?»
«La mia risposta è no.»
Lou si alzò, improvvisamente sazia. Da quando Simone aveva scoperto che gli HIM avrebbero suonato in Italia le aveva dato il tormento per settimane.
Dopo aver cercato di buttarla fra le braccia di Julian per i pochi giorni in cui lo spagnolo era rimasto in Italia, fallendo miseramente e senza alcun risultato, era stata un’escalation di richieste e discussioni inutili e assurde.
Sciacquò la tazza, la asciugò con cura riponendola poi nello scaffale, allineando il manico nella direzione di tutte le altre. L’ordine maniacale che la circondava avrebbe reso orgogliosa qualsiasi madre. Quell’ordine però nascondeva ben altro nel suo caso, lei che era incasinata e trovava il suo disordine confortante.
Da qualche mese a quella parte invece, vigeva l’ordine e la pulizia asettica e assoluta, segno inequivocabile che in lei qualcosa non andava. Cercando di mettere ordine in ciò che la circondava, sperava di metterlo anche dentro di lei.
Le stava riuscendo male, però.
 
«Non verrò al concerto. E non so neanche come hai potuto soltanto pensare che io possa prendere in considerazione la cosa. Mi conosci bene, eppure mi deludi sempre come se fossi un estraneo.»
«Hai paura? E di cosa? Che lui ti veda tra migliaia di persone? O sei tu ad aver paura di trovartelo in carne ed ossa così vicino?»
 
Lou non rispose e contò fino a dieci.
Non capiva perché tutti si aspettassero che lei andasse a quel maledetto concerto.
Non capiva perché tutti si ostinassero a pensare a lei e Ville come un tempo.
Non capiva perché fosse difficile accettare, come aveva fatto lei del resto e sicuramente Ville, che il passato è passato e che la vita era andata in maniera diversa per ognuno di loro.
Non erano rimasti in contatto, non c’era stato nessun addio e non ci sarebbe stato sicuramente nessun ritorno. Mai.
 
Certo che aveva paura.
Aveva paura della propria reazione nel vederlo.
Aveva paura per la sua sanità mentale così già messa a dura prova in quegli anni.
Non escludeva che si sarebbe potuta comportare in maniera inappropriata, cercando di farsi notare da lui.
E non avrebbe sicuramente reagito bene alla sua indifferenza.
Non era pronta.
Non lo sarebbe mai stata.
Quello che i suoi amici non immaginavano era il fatto che lei non aveva smesso di pensare a Ville neanche per un istante da quando si era sparsa la notizia dei concerti.
Che non aveva smesso di immaginare mille modi per vederlo e passare inosservata allo stesso tempo.
O di sognare di poter incrociare per un’ultima volta il suo sguardo.
 
Ma in mezzo a tutti quei sogni ad occhi aperti, la Lou concreta e con i piedi che faticosamente aveva cercato di mantenere ben piantati a terra, aveva la meglio.
La Lou di un tempo avrebbe seguito il suo cuore.
La Lou del presente seguiva la strada triste e piatta ma sicura dell’autocontrollo.
Afferrò lo straccio umido e si girò a guardare dritto negli occhi del suo amico di vecchia data.
 
«Quello che dici non ha alcun senso. Quello che tenti di fare, non ha senso. Non ho voglia di venire con te a vedere Ville.» – sputò fuori il suo nome senza esitazione.
«È ridicolo anche solo parlarne di questa cosa. Ridicolo che tu, proprio tu tra tanti, chiedi a me di venire ad un concerto di cui sono certa non ti importa un fico secco.
Non so perché tu lo faccia e ancor di più perché ti aspetti che io dica di sì.
Non lo farò. Non verrò al concerto. Non parlarmi mai più di Ville se non sono io a farlo per prima.
Non trattarmi mai più come stai facendo ora.
Smettila di starmi addosso o metterò in discussione tutto quello che abbiamo costruito in quindici anni.»
 
Gli passò davanti e con un movimento secco e preciso pulì la macchia di caffè che c’era sul tavolo bianco.
Si sentì subito meglio, anche se durò poco.
Simone era chiuso in un silenzio stupefatto.
Lo vide arrossire.
«Okay… cercavo solo… di…» - balbettò a disagio. 
Lentamente riprese il biglietto del concerto e lo infilò di nuovo nella borsa.
Lou non si fece intenerire e incrociò le braccia al petto.
«Cerca di pensare ai fatti tuoi d’ora in poi.»
«Come vuoi. Non ti dirò più nulla.»
«Perfetto.»
«Ora devo andare al lavoro… ci vediamo.»
«Buona giornata.»
Il suo tono era glaciale.
Lo osservò a braccia conserte raccogliere le sue cose e avviarsi mestamente alla porta, per poi girarsi con un cipiglio severo sul volto.
«Ci sono molte persone che stranamente continuano a volerti bene e a preoccuparsi per te: vedi di non perderle tutte per strada come hai fatto con Ville.»
Ecco che Simone sfoderava l’arma di indurre al senso di colpa: stavolta non avrebbe funzionato.
Era troppo tesa, incavolata con lui per il suo modo subdolo di controllare la sua vita, non rispettando mai le sue scelte, i suoi desideri e gli spazi che lei metteva tra sé e il resto del mondo.
Aprì la bocca per rispondergli a tono ma lui, impettito e offeso, si era già richiuso la porta alle spalle.
Che andasse al diavolo!
Era stanca di tutto e tutti e la sua giornata era appena iniziata.
Iniziò a strofinare ogni superficie con foga quando lo squillo del cellulare la distolse dai suoi pensieri cupi.
 
Chi diavolo chiamava a quell’ora?
“Ti prego, fa’ che non sia mia madre e i suoi rimproveri: oggi non reggerei!”
Sbirciò il suo cellulare con timore: l’ultima cosa di cui aveva bisogno in quel momento erano le bacchettate della sua inflessibile genitrice.
 
Era Karl. Tirò un sospiro di sollievo e rispose con il cuore leggero.
«Karl! Come mai mi chiami a quest’ora?»
«Luly!»
La vocina squillante della piccola Evangeline le perforò le orecchie.
«Peste!»
La giornata stava decisamente migliorando.
«Evangeline Emma Winkler: non dovresti essere all’asilo?»
«Ho la febbre. E ho anche il mal di gola. E mi fa male il nasino, Luly!»
Sorrise divertita alla scenetta della piccola che tossiva e piagnucolava al di là della linea.
«Che hai combinato? Ti sei di nuovo tolta il pigiamino durante la notte?»
Lilly aveva l’abitudine di scoprirsi durante il sonno: ricordava quando era piccola e la trovavano sistematicamente fuori dal piumino e le gambette penzoloni al di fuori delle sbarre del lettino.
«No. Sono stata brava… aspetta Papy, non ho finito. No, io parlo con lei! Cattivo!»
 
Ridacchiò nel sentire un trambusto, la voce bassa e solitamente calma e pacata di Karl che cercava di imbonire la pestifera bimba, la vocina di lei che urlava e l’abbaiare eccitato di Calzetta.
«Lou, mi senti?»
«Che diavolo combinate voi due? Sono solo le… - sbirciò l’orologio rosso appeso alla parete della piccola cucina -  sette e trenta del mattino.»
«Lo so, e scusa se ti abbiamo svegliata. È da ieri sera che vuole chiamarti: si è svegliata alle sei saltandomi sullo sterno, con il cellulare in mano, intimandomi di chiamarti.»
«Voglio parlare io con Luly! Passamela!»
Karl sibilò una sfilza di colorite parolacce in tedesco.
«Non dire parolacce, Papy! La nonna Ilse mi ha detto come si dicono!»
Lou scoppiò a ridere.
 
«Ti rendi conto? Mia madre che insegna parolacce a mia figlia.»
«Tranquillo, ero già sveglia e per fortuna non capisco molto il tedesco. Che succede?»
«Si è beccata l’influenza all’asilo: Valentina ha il morbillo, mi ha appena chiamata Katia. E io devo partire per due giorni. L’ho saputo solo ieri e non ti chiederei di aiutarmi se Katia non avesse i suoi problemi con le sue figlie: si era offerta di tenere Evangeline…»
«Mi chiamo Lilly! Lillyyyyy!» – urlò la piccola a poca distanza dal ricevitore.
Calzetta confermò con un ululato.
«Come dicevo, – tuonò Karl ormai a corto di pazienza – Evangeline ha solo un’influenza per ora. Potrebbe aver preso anche lei il morbillo e…»
«Karl, Karl: fermati e respira. Vengo io.»
«Sei sicura? Non hai i tuoi impegni, vero? Scusami… ma sei la mia ultima speranza. Non posso mancare a questa conferenza.»
«Stai tranquillo ho detto: è da tanto che voglio vedervi. Mi dai il tempo di mettere in borsa qualcosa e sono da voi, diciamo fra… un paio d’ore? Ce la fai a non strozzare la streghetta indemoniata?»
«Oh dio, ti ringrazio! Come faremmo senza di te?» – il sollievo nella voce di Karl era palese.
«Ehi, aspetta: ma hai avuto il morbillo da piccola? Non vorrei che ti ammalassi anche tu!»
«Tranne la peste bubbonica e il colera, ho avuto ogni malattia possibile: sono immune da tutto.»
 
“Quasi”.
 
«Voglio venire anche io alla ‘confidenza’!» – urlò Lilly.
«Ti prego. Fai in fretta.» – sussurrò disperato Karl, allo stremo delle forze.
Lou tornò a ridere.
«Fate i bravi finché non arrivo, okay?»
   
 
*****
 
 
Lilly la guardava sospettosa con le braccine paffute piantate sui fianchi.
«Non mi fai la puntura come fa sempre il Dottor Medina, vero?»
«No, che non te la faccio: io non sono un dottore, Lilly. Non vieni a darmi un bacino?» – chiese Lou ancora ferma sulla soglia della porta, posando la borsa preparata alla bell’e meglio in pochi minuti e grattando il musetto di Calzetta che si era fiondato a farle le feste.
«Papy, posso darglielo o poi si ammala anche lei?» – chiese la piccola al padre, con un broncio in grado di sciogliere anche i ghiacciai.
Karl ricambiò lo sguardo divertito di Lou che lo tranquillizzava con un cenno della testa.
«Puoi dare un bacio a Lou, ma non starnutirle in faccia come fai sempre con me: non è carino.»
«Okay!» – ridacchiò la bambina, abbracciando le gambe di Lou, scansando con un gesto possessivo il cagnolino.
 
Eccola lì, l’unica persona al mondo in grado di farla correre con un solo cenno.
L’unica persona che sentiva sua nonostante non avesse un solo cromosoma in comune con lei.
Nessuna somiglianza fisica.
Nessun grado di parentela.
Ma più sua di chiunque altro.
L’unica persona capace di colmare il vuoto che aveva dentro.
Si chinò per poterla abbracciare e la bimba le strinse le braccine intorno al collo, arrampicandosi addosso, avvinghiata come una scimmietta.
Lou si rendeva conto di quanto le mancasse per il resto del tempo solo quando la stringeva a sé.
«Che cos’ha la mia peste? Ti fa male anche il pancino?»
Lilly nascose il volto nel collo di Lou, frignando a comando.
«Sì… e mi fa male il nasino. Papy me lo soffia forte, non è bravo come te.»
Karl ridacchiò, infilandosi la giacca grigia che tirava fuori nelle occasioni formali.
«Il tuo Papy ha le mani grandi come tutti i papà, lo sai? È per quello che ti fa male, ma non lo fa apposta.»
Lou strizzò l’occhio all’uomo che era pronto per uscire.
Si tirò su, con la bimba sempre aggrappata a lei.
«Stai tranquillo. È tutto sotto controllo.»
«Lo so, non mi preoccupo per lei ma per te.» rise lui.
«Io e la peste ce la caveremo, vero Lilly? Non saluti il tuo papà?»
«Sì, ciao Papy.» – bofonchiò questa non muovendosi di un millimetro, rimanendo con il volto affondato nel collo di Lou.
«Dammi un bacio, streghetta!» – le intimò il padre ridendo.
«No. Sei cattivo, vattene!» – strillò Lilly aumentando la stretta intorno al collo di Lou e dimenandosi.
«Avanti Evangeline: non fare i capricci o Lou va via.»
«Non te ne vai, vero? – la piccola alzò il faccino, sgranandole gli occhioni verde scuro lucidi di febbre in faccia - Rimani qui con me, vero Luly?»
«Solo se fai la brava bimba, saluti il tuo papà e non mi farai arrabbiare.» - ribatté Lou seria, rovinando la severità con un bacio sul nasino arrossato della piccola.
«Va bene.»
Lilly protese il volto aspettando il bacio del padre che non se lo face ripetere due volte.
Karl era pazzo della figlia, anche se probabilmente due giorni di riposo gli sarebbero stati di giovamento e allo stesso tempo ne avrebbe sofferto.
«Mi mancherai, piccola… torno presto, va bene?»
«Sì, okay, ciao. Ora vai.» – disse sbrigativa la bambina, tornando a posare la testa nell’incavo del collo di Lou.
Karl scosse la testa sconsolato.
«È il prezzo che pago per non portarla con me, temo.»
«Le passerà…» – lo rincuorò Lou.
Lui le sorrise, abbracciandola.
«Grazie per esserci sempre.»
Ricambiò il sorriso dell’uomo. Quei due non sapevano quanto invece loro facessero bene a lei.
«Perderai il treno se continui a ciarlare e ringraziarmi. Va’. Ci sentiamo stasera.»
«Agli ordini. Allora vado. A stasera e divertitevi…»
«Come sempre.»
Lou richiuse la porta, salutando Karl attraverso il vetro. Lui si girò ancora un volta, alzando una mano prima di sparire dalla sua visuale. Recuperò la borsa avviandosi in camera da letto, quella che usava da sempre quando era ospite in quella casa.
Per tutto il tempo Lilly rimase aggrappata a lei, in silenzio.
«Piccola, sei arrabbiata con il tuo papà?»
«Sì.» - borbottò.
«Sai che a volte Papy deve andare a lavorare lontano. Ma sai anche che torna, non devi fare così o lui poi è triste.»
La bambina borbottò di nuovo parole incomprensibili.
Lou lanciò sul letto la borsa, con la voglia di seguirla e mettersi a dormire.
Calzetta saltò immediatamente sul letto, annusando e zampettando sulla sua borsa.
Si sedette sul bordo tenendo stretta la bambina che rimaneva aggrappata a lei; le fece solletico sotto le braccine per indurla a mollare la presa.
Lilly ridacchiò debolmente. Se fosse stata bene avrebbe scalciato come una pazza e lanciato urla stridule.
Allentò però la presa sul suo collo e si sistemò meglio sulle sue gambe per osservarla.
Gli occhioni verdi della piccola la valutarono velocemente.
Lou ricambiò lo sguardo serio, notando che i capelli le erano cresciuti un pochino e i boccoli castani ormai le arrivavano alla schiena. E che l’estate le aveva lasciato sul nasino impercettibili lentiggini. Aveva un graffio sulla fronte, sicuramente i suoi dispetti al gatto di casa non erano piaciuti e quello era il risultato.
«Che hai fatto a Natale?» – le chiese Lou sfiorando con un dito il graffio quasi guarito.
«Niente! Volevo mettergli il fiocco come il micio che sta sul libro di favole, ma lui non voleva e allora gli ho messo la molletta dei panni sulla coda!» – rispose orgogliosa di sé.
«Lo sai che non si fa! Evangeline!» – la rimproverò, reprimendo una risatina.
Quel povero micio anziano ne passava di tutti i colori con Lilly: peggio di quanto Simone avesse mai fatto!
Si guardò intorno alla ricerca dell’enorme gatto rossiccio, ma non c’era traccia. Probabilmente si teneva lontano dalla sua padroncina sadica fino a quando non era ora della pappa.
Allora lo si vedeva arrancare placido e miagolare con forza per richiamare l’attenzione.
La piccola fece una smorfietta.
«Voglio un gatto femmina! Così posso metterci i fiocchi e il profumo! Qui sono tutti maschi!»
Lou pensò alla sua Katty: dubitava che si sarebbe fatta infiocchettare da chicchessia…
Beh, forse soltanto da una persona.
“Perché diamine devo sempre pensare a lui, a loro?” – pensò infastidita.
«Hai ragione: qui ci sono troppi maschi.» – rise Lou, tornando a prestare l’attenzione alla piccola.
«Forse possiamo chiedere a Papy di prendere un pappagallino femmina.»
«No! Non mi piacciono i pappagalli! Fanno sempre la cacca puzzolente! Valentina ne ha uno e la sua mamma vuole ucciderlo: dice sempre che lo mette nel forno con le patate! Ma non si può, vero Luly? Non può mica cucinare Nerone? Vero?»
«Ma certo che la mamma di Vale non cucinerà il povero Nerone: è solo una cosa che i grandi dicono ma poi non fanno.»
«Allora è come quando Papy dice che andiamo a vivere dove abita Nonna Ilse?»
Lou si paralizzò.
«Quando l’ha detta questa cosa, Papy?» – chiese giocherellando con i riccioli della piccola.
«Lo dice sempre: dice che fra poco andiamo a vivere in… in… non mi ricordo dove abita la nonna!»
«In Germania. Non te lo stai inventando, vero piccola peste?»
Lilly scosse energicamente la testa.
«No. Anche la nonna quando mi telefona mi dice che è felice che andiamo lì a vivere. Ma io non ci voglio andare!» – frignò la piccola, pericolosamente vicina al pianto.
«Io voglio rimanere qui, con Valentina e voglio la mia casa! E poi tu non potrai venire sempre perché è lontano lontano! E anche zio Simone e zio Pepe non vengono e io non voglio!»
 
Che storia era quella? Karl non aveva mai accennato alla cosa! Sperò che la piccola si stesse inventando tutto: non avrebbe sopportato una distanza simile tra lei e Lilly.
Ebbe improvvisamente voglia di mettersi a frignare come stava facendo la bimba.
«Non lo so, piccola… il tuo Papy non mi ha detto niente. Facciamo così: quando torna ci parlo io, okay? E poi non è così lontano lontano – cercò di rassicurarla – c’è sempre il nostro carro magico. O l’aereo!»
Le strizzò l’occhio ma Lilly continuava a piangere.
«Ma la nostra casa è questa, non in quella “Gerbania”! Qui c’è la mamma… se vado via chi le porta i fiori e le conchiglie bianche?»
Le asciugò le lacrime che strabordarono. Le si strinse il cuore nel vedere quel faccino adorato così triste.
Che cavolo passava per la testa bionda di Karl?
Lou abbracciò la piccola baciandole i capelli.
 
«Non ci pensiamo ora, va bene? Hai fame? Vuoi qualcosa di buono?»
Lilly tirò su col nasino e scosse la testa.
«No, ho sonno ora. Mi canti la ninna nanna?»
«Tesoro, lo sai che non sono brava a cantare. Che ne dici se ti leggo una favola?»
«Va bene. – sbadigliò la bimba, tornando a raggomitolarsi contro di lei – La mia preferita.»
Ma certo. La sua preferita. Quella del “Principe della Torre”.
Perché mai le avesse inventato quella favola non lo sapeva spiegare. Si era spesso chiesta se stesse raccontandola alla piccola Evangeline o a se stessa.
Lilly voleva che il Principe trovasse la Principessa Perduta: quando lei provava a raccontare il finale in modo diverso, così come lo aveva raccontato la prima volta, pretendeva che lo cambiasse.
Anche Mara avrebbe voluto lo stesso finale.
 
Era un vero peccato che la Principessa Perduta della favola fosse una codarda e che si limitava a guardare il Principe quando lui dormiva. Che continuasse a trasformarsi in fantasma di notte, per poter vegliare sul sonno del suo Principe.
«Questo finale fa schifo e non mi piace. Devi dire che lui si sveglia, la vede e si baciano. Sono queste le favole belle, Luly!» - le diceva la bambina, incrociando contrariata le braccine sul petto.
Come darle torto?
E allora lei inventava per Lilly un vestito fatto con il blu della notte, con mille stelle che luccicavano sopra e la Principessa Perduta, aiutata dal Vecchio Mago dei Sogni e del suo Pendaglio Incantato, poteva tornare ad essere visibile per il Principe della Torre. Lui si svegliava e la baciava, chiedendole di rimanere per sempre con lei.
Quel finale le faceva schifo e voleva mettersi a frignare anche lei, ora.
 
«E va bene: ti piace così tanto la favola del Principe della Torre? Ce ne sono di più belle…» - le disse Lou, portandola nella sua stanza.
«Sì, mi piace perché la Principessa Perduta somiglia a te nella foto che aveva la mamma.” – bofonchiò la bambina tra uno sbadiglio e l’altro.
«Quale foto, tesoro?» – chiese Lou rimboccandole le coperte dopo averle tolto le pantofole con le orecchie di coniglio.
«Quella che sta nella macchina “foffogafica” nel comodino di Mamy. Ci sei tu e zio Simone e una signora che non conosco. Solo che tu hai i capelli arancioni, come in quella che sta sul camino, non marroni come ora. E sono lunghi lunghi, come quelli delle sirene. C’è anche la Torre del Principe, quindi mi piace.»
 
Di che cavolo parlava Evangeline?
«Va bene… allora sei pronta? Posso iniziare?» – le accarezzò i capelli.
«Sì, mi dai la mano?» – chiese la bambina afferrandole le dita, chiudendo gli occhi.
“Luly, rimani qui mentre dormo?»
 
“Rimani qui con me stanotte? Fino a che non mi addormento? Prometto di non toccarti più il sedere...”
Anche lei lo aveva chiesto una volta, in preda a deliri febbrili.
E lui aveva risposto di sì.
E con la voce più bella che lei avesse mai sentito, le aveva cantato una ninna nanna.
 
«Non vado via, Lilly. Sono qui.»
La piccola sorrise e pochi istanti dopo era già addormentata.
Lou continuò ad accarezzarle i capelli finché anche lei si rasserenò, ritrovando quella calma di cui aveva bisogno. In quella stanza c’era l’odore della bambina. I suoi giochi, le sue foto insieme al papà, a lei e Simone e Beppe, con Valentina.
Sul comodino c’era la foto di una Lilly minuscola tra le braccia di Mara raggiante di felicità.
La piccola aveva attaccato un cuore di carta rossa su un angolo della cornice verde acido e conchiglie bianche sui tre lati rimanenti.
C’erano le sue poche bambole, i suoi pastelli, i suoi vestitini.
L’unica cosa che cambiava giorno dopo giorno era la piccola, che cresceva e acquisiva la propria personalità e presto sarebbe diventata troppo grande per tutte quelle cose sulle quali ora contava su di lei.
E se era vero che Karl aveva deciso di trasferirsi, si sarebbe persa molto altro.
Continuò a tenere strette le dita di Lilly per un tempo infinito, accarezzandole di tanto in tanto i capelli, finché la piccola si girò su un fianco, staccando la manina dalla sua.
Solo allora Lou si alzò stiracchiando la schiena e uscì in punta di piedi dalla piccola stanza.
Disfò la sua borsa con le poche cose che aveva portato con sé sistemandole nel piccolo armadio della stanza che Karl e Mara le avevano riservato tanto tempo prima, lasciando all’interno solo il portatile.
Lì c’erano molti dei suoi vestiti che pian piano Nur le aveva rispedito da Helsinki.
Non li aveva mai portati con sé a Roma: le piaceva sapere che erano in un posto che lei sentiva di poter chiamare “casa”. Rovistò tra i cassetti sfiorando le sciarpe e i capelli di lana che nella capitale non le servivano ed usava soltanto lì.
I maglioni e i jeans che ora le stavano troppo larghi.
Sul fondo del terzo cassetto, sotto una pila di t-shirt, sapeva che c’era la sciarpina viola di Ville.
L’unica cosa tangibile del loro legame.
Era così stupido avere ricordi legati ad oggetti. Avrebbe dovuto buttar via quella sciarpina o meglio ancora, avrebbe dovuto rimandarla al proprietario.
Invece l’aveva conservata. E a volte tenuta fra le mani facendosi mille domande che erano rimaste senza risposta, lasciando che i ricordi fluissero liberamente.
Richiuse decisa il cassetto, ignorando volutamente il terzo.
Tornò a vagare per la casa che Karl teneva in perfetto ordine, fermandosi a guardare le foto sparse ovunque. C’erano frammenti di vita in quelle istantanee: momenti felici e alcuni che lo erano stati meno.
 
Si fermò davanti alla foto sul camino che ritraeva lei, Mara con il pancione e Simone: erano sulla spiaggia proprio davanti casa e ridevano. Erano caduti l’uno sopra l’altro, in un groviglio di gambe e braccia e i capelli lunghi e rossi di Lou erano per metà sui volti dei suoi amici.
Adorava quella foto e ricordava perfettamente il giorno in cui era stata scattata.
Mara aveva deciso che dovevano stare in quella casa tutti insieme per l’intera estate e preparare la stanza della bambina. Aveva costretto Simone a lasciare la sua amata e caotica Roma per una casa sperduta nel nulla: era l’unica che riusciva a piegare il suo amico isterico a fare quello che non voleva. 
E insieme avevano dipinto immagini fiabesche nella stanza che sarebbe stata di Evangeline, tornando per un po’ ad essere quei tre giovani ragazzi ventenni che erano stati durante l’Accademia di Belle Arti.
Si erano divertiti un mondo in quelle settimane, ritrovando il feeling che li aveva uniti.
Le foto erano diminuite nei mesi successivi alla scomparsa di Mara, per tornare pian piano con foto della piccola Lilly durante gli anni.
La prima volta che si era alzata in piedi o quella in cui le era spuntato il primo dentino.
Quella in cui aveva imparato a stare sul vasino o a lavarsi i dentini da sola.
Il primo giorno di asilo e tanti altri momenti. E lei era quasi sempre presente.
Continuò il suo peregrinare in casa, sentendosi calma per la prima volta dopo settimane.
Forse avrebbe potuto fermarsi qualche giorno in più anche dopo il ritorno di Karl: giusto un po’, per non tornare subito a Roma sotto le grinfie di Simone.
 
Si ritrovò davanti alla porta chiusa della camera da letto di Karl e Mara ed entrò senza timore: il letto era disfatto. Nonostante l’ordine che vigeva in quella casa, Karl non aveva avuto il tempo di rifarlo.
Senza farsi alcun problema lei iniziò a mettere a posto le cose che lui aveva lasciato in giro.
Si sentiva a suo agio lì e sentiva di non violare alcuna privacy.
Spalancò le finestre lasciando che il sole inondasse la stanza insieme all’odore del mare.
Le venne improvvisamente voglia di canticchiare e di ballare per tutta la casa, nonostante sapesse di essere stonata come una campana e avere ben poca grazia nelle movenze.
Quel posto le ritemprava il cuore e la mente.
Non poteva dar torto a Simone quando le diceva che aveva la Sindrome della Colf nel DNA, pensò ridacchiando: tenere occupate le mani la aiutava sempre a pensare di meno.
 
Stava per uscire quando si ricordò di quello che poco prima le aveva detto Lilly e titubò soltanto qualche istante prima di aprire l’unico cassetto del comodino che una volta era di Mara.
Dentro c’erano alcune forcine e mollette per capelli; l’orologio da polso bianco che lei portava sempre; un libro con un segnalibro infilato nel mezzo, un pacco di fazzolettini, caramelle al limone.
Uno specchietto da borsetta e il contenitore delle lenti a contatto.
Sfiorò ogni cosa con il solito groppo in gola.
Quasi nascosta in fondo, c’era la sua macchina fotografica digitale, sopra una busta da lettere rosa.
Stupita si chiese come mai ce l’avesse Mara: credeva di averla lasciata a Helsinki o che Nur avesse dimenticato di rimandargliela.
Si rigirò quell’aggeggio fra le mani, pensando al tempo che era passato dall’ultima volta che l’aveva vista.
Provò ad accenderla ma non succedeva nulla: le batterie dovevano essersi esaurite nel frattempo.
Karl doveva pur avere delle batterie nuove da qualche parte; uscì dalla stanza dimenticandosi di chiudere il cassetto del comodino.
Cercò ovunque senza risultato, indispettita: era curiosa di sapere che ci fosse in quella scheda.
Se non ricordava male l’avevano usata quando Simone era stato da lei a Helsinki, tanto tempo prima.
Con un lampo di genio pensò di visionare le foto con il computer: il suo vecchio e fidato “Highlander” aveva tirato le cuoia da un pezzo ormai. Tornò in camera e tirò fuori dalla sua borsa il portatile, aspettando seduta sul letto che tutta la sessione iniziale facesse il suo corso. Le sembrò che ci impiegasse un’eternità, più del solito. Quando finalmente fu pronto, estrasse la scheda e la infilò nell’apposita porta.
Aprì le varie cartelle: da pignola qual’era aveva nominato ognuna con nomi e date. Molte foto erano paesaggi di Helsinki di quasi 7 anni prima. C’era un’intera cartella dedicata alle mostre degli artisti che aveva curato per Matleena, al ‘Kiasma’; ritrovò anche quella in cui ad esporre era Julian.
C’erano autoscatti di loro due intenti a fare i buffoni. Lou fissò la sua immagine, riconoscendo a stento in quella giovane donna ridente con gli occhi brillanti, la donna che era ora. Non che adesso non ridesse: solo che aveva perso quel brio.
 
Come aveva fatto la piccola Lilly a trovare quelle foto? E ad accendere la digitale? Era una bambina precoce, ma dubitava fortemente che arrivasse a tanto.
Persa in quei quesiti continuava a scorrere le cartelle.
Non ricordava di averne fatte così tante…
Aprì la cartella “Varie”, incuriosita.
C’erano foto di lei e Nur nella loro casa; al Kauppatori, il porto di Helsinki, un posto che lei adorava.
Varie angolature della Cattedrale, la sua “Dama Bianca”.
Il dito con cui premeva “invio” tremava leggermente: quanto le mancava la sua Helsinki… era uno dei pochi posti al mondo nel quale si era sempre sentita a suo agio.
E poi diverse foto con Simone e Nur, davanti alla loro casa. Riusciva a vedere persino un pezzo della porta del caro Sig. Korhonen.
 
Ed eccola lì sullo sfondo, la Torre di Ville: quasi nascosta dalla testa di Simone e i capelli di Nur e il proprio viso. Un autoscatto che li aveva colti entrambi impreparati e lei che se la rideva, l’unica che guardava dritta nell’obiettivo. Il cielo nella foto era di un azzurro così abbagliante e vivido: se ne stupì come se non l’avesse mai visto prima.
Continuava a studiare ogni particolare, evitando di guardare quel punto in mezzo alle loro facce.
Ci sarebbe tornata in un secondo momento.
Non appena il cuore avesse ripreso a battere normalmente, si disse.
 
Cliccò sulla freccia per la foto successiva e c’era la piccola Katty.
Minuscola palla di pelo nero arruffato che dormiva sul cuscino davanti alla finestra.
Katty che zampettava feroce il piumino della pantofola di Nur.
Katty che fissava l’obiettivo con aria perplessa e altera allo stesso tempo.
La sua micina…
Non si era mai preoccupata più di tanto della sua sorte: sapeva con sicurezza che lui se n’era preso cura, portandola con sé nella sua torre.
Ne era più che certa. Ville non l’avrebbe mai lasciata a Nur o chiunque altro.
Katty era in moltissime foto; gli occhi della felina erano così verdi… come quelli di…
“Smettila immediatamente, Lucia”
Odiava la sua parte melodrammatica: quando meno se lo aspettava prendeva il sopravvento su di lei, buttando all’aria mesi e anni di autocontrollo.
Cliccò automaticamente sulle foto dove a regnare sovrana era sempre Katty, finché arrivò ad una foto che non aveva scattato lei.
 
Se ne sarebbe ricordata.
E non avrebbe potuto in ogni caso scattarla visto che in quell’istantanea lei dormiva.
E non era stato neanche Ville.
Perché anche lui era addormentato, con una mano posata sulla piccola Katty accoccolata come sempre sulla sua pancia.
«Ecco. Ora puoi darti al melodramma.» - si disse senza fiato.
L’altra mano di Ville era fra i suoi capelli, la teneva posata sulla nuca e le lunghe dita forti sbucavano fra i suoi ricci rossi.
Il proprio viso era visibile del tutto, così beato e sereno anche nel sonno, affondato nell’incavo tra il collo e la spalla dell’uomo.
Mentre di Ville c’era solo il collo, lasciato scoperto dalla camicia nera, il mento coperto da un velo di barba e la bocca.
La bocca di Ville.
Sentiva i tonfi del battito del proprio cuore nelle orecchie.
“Probabilmente sto per avere un infarto.” – pensò tetra.
Chiuse gli occhi per un lungo tempo, sperando che la foto fosse solo frutto della sua fervida immaginazione e che nel riaprirli sarebbe sparita.
Sentì la bocca inaridirsi completamente.
E il suo stupido cuore non rallentava.
Si alzò di scatto senza guardare lo schermo e si precipitò in cucina dove bevve direttamente dal rubinetto fino ad avere la nausea.
“È solo una foto, stupida donna.”
Non riusciva a pensare lucidamente.
Era del tutto impreparata a quelle emozioni.
Da dove sbucava fuori quella foto?
Chi l’aveva scattata? Nur? Simone? Julian?
Il periodo coincideva con quello in cui i due ragazzi erano sempre presenti in casa loro.
 
“Arrovellarsi su chi ha scattato la foto è un diversivo debole e lo sai bene.”
Ville.
 
Tornò in camera e sulla soglia si fermò con gli occhi fissi allo schermo.
Quella foto faceva più male di quanto immaginasse.
Per il solo fatto che esistesse.
Perché le metteva davanti agli occhi che era stato reale, che Ville non era solo il proprietario della sciarpa viola chiusa nel terzo cassetto della sua camera.
Perché quello che erano stati l’uno per l’altro in quei pochi mesi vissuti insieme, balzavano fuori dalla foto.
“Sono state soltanto poche settimane, smettila di pensarci.”
Settimane in cui aveva scoperto una nuova se stessa. Qualcuno che le era piaciuto essere.
Con passi lenti si avvicinò nuovamente al letto e al computer aperto su quella finestra del suo passato.
Ora il battito era tornato quasi nella norma e col passare dei secondi la foto faceva meno male.
Erano belli insieme.
Osservando quella foto era chiaro il sentimento di fiducia da parte sua nell’affidarsi, completamente vulnerabile, all’uomo della foto. E lui…
Lui, a modo suo, le offriva riparo.
Come se le stesse dicendo in silenzio: “Vieni più vicino, non avere paura. Smettila di pensare, Prinsessa… e chiudi gli occhi.”.
Ed era quello che le aveva sempre detto, in fondo.
Che aveva sempre cercato di dirle.
“Smettila di blaterare e vieni qui da me…”
Blaterare e arrovellarsi e dare di matto era il suo forte e in quella situazione lei aveva dato il peggio di se stessa, mandando all’aria tutto.
L’unica cosa per cui valeva la pena rischiare.
«Luly…»
La vocina della bambina la riscosse dal suo sogno ad occhi aperti.
Lanciò un ultimo sguardo alla foto prima di precipitarsi nella stanza della piccola.
Evangeline era seduta nel suo lettino e si stropicciava gli occhi infastidita.
«Sei già sveglia, peste?»
«Avevi detto che rimanevi qui vicino a me!» – la rimproverò subito.
«Hai ragione: ero andata a fare pipì!» – le rispose ridacchiando, strappando anche a lei un ghigno.
«Ho fame. Voglio la nutella.»
«Papy te la fa mangiare ora?»
La prese in braccio baciandole la fronte: era calda.
La febbre era di nuovo salita.
«Sì.»
Lou le fece una smorfia.
«Sei una piccola streghetta: lo so bene che non è così!»
«Solo quando sono malata!»
«Uhm… - borbottò Lou, dirigendosi in cucina – Allora forse possiamo fare una piccola eccezione, questa volta!»
«Voglio essere malata sempre.» - sospirò Lilly.
Lou scoppiò a ridere.
«Beh, per la cioccolata ne vale sempre la pena!»
Fece sedere la piccola sul tavolo, lasciando che la aiutasse a prepararle il meritato spuntino.
«Mettiamone tanta, però.»
Lou cambiò idea e lasciò perdere il pane: le passò il barattolo e intinse un dito nella crema alla nocciole per poi portarselo alla bocca.
Evangeline sgranò gli occhi eccitata.
«Senza pane è molto meglio: tocca a te ora, peste!»
La bambina non se lo fece ripetere una seconda volta e ridendo la imitò.
Un potente miagolio richiamò la loro attenzione: Natale le aveva scovate e le guardava speranzoso.
«I gatti la mangiano la cioccolata?» – chiese Lilly con la boccuccia impastata.
«Non credo ai gatti piaccia la nutella, piccola.»
«Natale mangia tutto. Ma poi fa la cacca in giro.»
Scoppiò a ridere e Lou la seguì a ruota.
«Allora è meglio di no: il mal di pancia lo avremo già noi due.»
Karl avrebbe tirato le orecchie a entrambe se fosse stato presente e Simone invece, avrebbe commentato che ogni grammo del nettare divino le sarebbe finito irrimediabilmente sul sedere.
«Questo è un segreto da femmine, Lilly.» – le sussurrò Lou con tono cospiratorio.
La bambina annuì energica e tornò ad affondare le piccole dita nel barattolo.
«Mi piacciono i segreti da femmine che ho con te.» – rispose sussurrando a sua volta.
«Anche a me, tesorino… anche a me.»
 
 
*****
 
 
Davanti al camino e un bicchiere di vino rosso, Lou fissava le fiamme che si contorcevano in mille volute.
Lilly, dopo una giornata di pura anarchia le dormiva soddisfatta accanto, raggomitolata con il suo pupazzo viola decrepito.
La febbre non diminuiva ma la piccola sembrava non risentirne più di tanto.
Quando Karl aveva telefonato quella sera, la figlia lo aveva liquidato con un ciao frettoloso ed era tornata a guardare i cartoni animati.
«Come sta? È ancora arrabbiata con me? Ha la febbre? Ha fatto i capricci? Ti ha dato noia?» – le aveva chiesto apprensivo.
«È stata più buona del solito, non preoccuparti: stiamo bene e ho tutto sotto controllo… Tu come stai?»
«Stanco. Annoiato. Mi manca la mia streghetta e vorrei essere lì con voi.»
«Non fare i capricci, Papy!» – lo aveva preso in giro lei.
Lou aveva sulla punta della lingua tante domande ma non era il caso di parlarne attraverso un telefono.
«Sto pestando silenziosamente i piedi a terra!» - aveva riso lui.
«Ora vai a dormire, Papy: ci sentiamo domani.»
Karl aveva finto di frignare e le aveva augurato la buona notte.
Era stata una giornata piena. Il tuffo inaspettato nel passato aveva stravolto i suoi pensieri per tutto il giorno.
«Luly, questa sei tu!»
Maledizione a lei e alla sua svampitaggine!
Aveva dimenticato il portatile aperto sulla foto e la bambina la guardava curiosa.
Le si era avvicinata giocherellando con i suoi boccoli arruffati.
«Sì, sono io.»
«Che bel micetto! Come si chiama? E chi è questo signore che sta vicino a te?»
Lou tirò un profondo respiro.
«Il micio è una femminuccia, si chiama Katty ed era la mia gattina quando vivevo in Finlandia.»
«Qui hai i capelli lunghi lunghi, Luly,  e arancioni come nella foto con Mamy e zio Simone!»
«Sì, tesoro.»
«Sono più belli.»
«Non ti piacciono come li ho adesso?»
Lilly si girò a guardarla attentamente e scosse la testa.
«No, mi piacciono i capelli da sirena. Sei più bella.»
«Ok, allora me li farò ricrescere, sei contenta?»
«Sì. Luly, chi è questo signore?»
Lou sorrise: aveva tergiversato sperando di distrarre la piccola ma non avrebbe smesso di chiederglielo finché lei non avesse risposto.
«Questo signore è il ‘Principe della Torre’.» – disse senza pensarci.
La bambina tornò a guardarla stupita con la boccuccia aperta.
«Davvero? E adesso dove sta?»
«È rimasto in Finlandia, con la mia micetta.»
 
“Ma cosa diavolo sto dicendo? Perché le sto raccontando queste cose?”
 
«E ti stanno aspettando? Non ti manca la tua micetta?»
Lou tornò ad avere un tuffo al cuore.
«Sì, mi manca molto Katty… anche se era dispettosa.»
«Come me?»
«Sì, un po’ come te!» – rise Lou, baciandole il naso.
«Mi piace la tua gattina. E anche questo signore mi piace. Perché non gli dici di venire qui da noi e di portare la micetta, così fa amicizia con Natale e poi si sposano e io poi ho più gattini di Valentina?»
“Già… perché non lo hai fatto, stupida?”
Come faceva a spiegare a quella bambina cose che non sapeva neanche spiegare a se stessa?
«Perché la casa di Katty è in Finlandia e qui non le piacerebbe. È una gattina viziata: le piace stare nella neve, sai?»
Lilly storse il naso contrariata.
«Possiamo darle il gelato, così non fa i capricci!»
Nella sua logica di bambina, il discorso non faceva una piega.
«Come si chiama il signore?»
Lou sospirò.
«Ville.»
La sua voce accarezzò quel nome con dita invisibili.
«Ville? – lo ripeté ridacchiando – Che nome buffo, però mi piace.»
«Anche a me piace.»
«Però non si vede tutta la faccia. Mi fai vedere una foto dove si vede, Luly?»
«Non ne ho, tesoro.»
«Uhm… - borbottò delusa la bambina- Allora digli di mandartela perché la voglio vedere io.»
«Va bene.» – le disse in fretta per accontentarla.
«È il tuo fidanzato?»
«No, Lilly non è il mio fidanzato ma gli voglio bene anche se è passato tanto tempo.»
«Non fa niente: anche io voglio bene alla mamma anche se è passato tantissimo tempo.»
“Non piangere. Non piangere. Non davanti a lei.”- si diceva deglutendo a ritmi regolari.
«Hai ragione, è così.»
Aveva poi cercato di sviare l’attenzione della bambina leggendole delle favole nuove, o disegnandole nuovi personaggi, fino a farle dimenticare quella foto.
Fino a poco prima quando nel dormiveglia Lilly le aveva chiesto: «Luly, ma se il signore della foto è il Principe della Torre, tu sei la Principessa Perduta?»
«Forse, tesoro.»            
«Okay… domani io telefono e gli dico che ti ho ritrovata, così mi fa vedere la Torre…»
E si era addormentata con un sorriso e il progetto di far sì che la sua fiaba preferita avesse il finale che pretendeva.
Si alzò sospirando di nuovo, avvicinandosi alla foto che la ritraeva con Mara e Simone.
Avrebbe tanto voluto che la fiaba di Lilly fosse stata realtà.
Detestava piangere: non lo faceva mai e il risultato era quella enorme palla dolorosa che aveva al centro del petto.
“Concediti un pianto e inizia a dimenticare sul serio.”- si disse duramente.
 
Lasciò che solo per questa volta le lacrime scivolassero lente fino a caderle mollemente lungo il viso, sulle mani, sulla mensola del camino e nel calore delle fiamme fino ad evaporare.
 

 

******





"Angolo dell'autrice:

Eccoci di nuovo. Sì, lo so... è passato del tempo.
È che ormai lo sapete, quindi è inutile che mi ripeta!
Stavolta vi lascio ben 16 pagine di PippeMentali: farete scorta per un pò, anche se non aspetterete tanto per il prossimo.
Siamo in dirittura di arrivo e manca poco davvero alla fine. Beh, non mi resta che lasciarvi per i soliti ringraziamenti!

Voglio ringraziare le gentili donzelle che hanno recensito l'ultimo capitolo:
m a y h e m, Dadda_HIM, Soniettavioletstarlet, Lady Angel 2002, cla_mika, katvil, arwen85, DarkViolet92, apinacuriosaEchelon, LilyValo, AlexisRose,  angelinaPoe, saraligorio1993.
Abbraccio forte a tutte!

*Per il titolo al capitolo mi sono ispirata a Massive Attack - Teardrop *

Vi aspetto nel Gruppo Facebook dedicato alle discussioni e tutto ciò che ci passa per la testa, inclusi insulti e minacce varie, intervallati a momenti d'ammmore per Lou e Ville!

Siete le benvenute.
Alla prossima!
Baci baci,

*H_T*




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