Brotherhood.
Gavroche
+ Eponine
Il freddo penetrava sotto gli abiti bucherellati, quella mattina
d’inverno.
Su Parigi candidi fiocchi di neve erano scesi formando un manto gentile
che ovattava nel suo braccio il rampante volo delle carrozze lungo i
viali.
Gli alberi rachitici si commiseravano, chinavano il capo velato di
gelida brina, inchinandosi ai passanti.
Abiti dimessi per coprire i resti dei ricordi smessi, incartati in
cappotti troppo vecchi e stivali dai colori spenti.
L’espressione persa di chi ancora non si è mai
trovato per davvero. Un passo incerto, titubante. Si muoveva lungo i
marciapiedi con l’aria di dover partecipare ad un funerale.
I viali scoloriti dal pallore della brutta stagioni, ingobbiti per gli
stenti. Ostello dei morti di fame, albergo di lusso che di notte
contava più di centocinquanta stelle.
<< Tra i miserabili, noi siamo i signori >>
sussurravano i monelli per strada, quelli che avevano ormai quasi
l’età per accedere alla cerchia degli uomini
d’onore, con la lama nascosta nella tasca interna del
soprabito. Mormoravano prendendo per il colletto le nuove reclute,
bambini con il viso smunto e sporco, il respiro smorzato dal freddo. Le
labbra bluastre, da cui fili di nebbia salivano al cielo.
<< viviamo in una pensione di lusso, possiamo spostarci
da una stanza all’altra a nostro piacimento, e passiamo la
notte sotto le stelle a inventare parole e a scambiarci le avventure.
Beh, il pranzo non è il massimo, su quello dovrebbero
lavorarci. >>
I monelli vivevano in una grande gabbia a forma di elefante, un mostro
di rottami storti al centro di uno spazio vuoto, un deserto dove le
oasi erano minuscoli cantieri morti, gli operai in quei giorni avevano
fermato i lavori con i loro scioperi. Si diceva che ci sarebbe stata
una rivoluzione, lo balbettavano le donne con timore al mercato
rionale, tra un po’ di pane e delle mele mezze marce si
sentiva nell’aria la voce del popolo. Stava per esplodere. Di
nuovo. Quel mostro a due teste capace di rivoltarsi
all’improvviso contro il suo domatore e di trasformarlo in
vittima.
Tutti avevano paura della rivoluzione, dopo quanto era accaduto solo
dieci anni prima.
Ma a Parigi il sangue nonostante la neve ribolliva nelle vene dei
giovani sognatori, che si sa, sono i peggiori sanguinari sul campo di
battaglia.
I monelli ancora troppo piccoli per capire l’importanza della
rivoluzione, passavano il loro tempo a fare le formiche.
Presentandosi ad ogni ora agli angoli delle strade, bloccavano le
carrozze, mendicavano un briciolo d’attenzione rincorrendo i
passanti, per una volta non fischiavano le puttane con quella maniera
acerba di chi agisce senza comprendere bene cosa significhi inseguire
le gonnelle ma lo fa per sentirsi grande, un po’ come fumare
quella roba che faceva lacrimare e tossicchiare.
I monelli piagnucolavano e mostravano gli occhi dolci, gelavano e
maledicevano la notte gelida, si riunivano in drappelli per erigere un
coro di lamenti fino a far impazzire di dolore le giovani passanti, le
belle parigine dai capelli luminosi e dai nasi appena storti che si
affacciavano dallo sportello delle carrozze, abitacoli dove il freddo
penetrava solo per sbaglio, e porgevano con l’aria
rattristata alla vista di simile spettacolo, qualche monetina nelle
mani del bambino più piccolo.
Solo quando la carrozza sfuggiva, perdendosi nel marasma della capitale
i bambini buttavano a terra la maschera del dolore e dei patimenti e
mandavano a quel paese la bella damigella che aveva porto loro un soldo
per comprarsi da mangiare e andare agli spettacoli di
quart’ordine a vedere le loro sorelle recitare a gambe
scoperte e a fischiare gli scemi della situazione e a schiamazzare nel
buio impenetrabile della notte pungente rincorrendo i cani e sfuggendo
alla morte, sempre con quel maledetto sorrisino beffardo sulle labbra.
I monelli sapevano corrompere anche la morte, diceva con orgoglio il
loro capo, che non era né forte né grande, ma
abbastanza sveglio da sembrare a tutti gli altri degno del grado di
comandante. Questi aveva un viso vispo e colorito, appuntito per gli
stenti dell’inverno ma mai spento in qualche triste
espressione di sconforto.
Indossava abiti dalla dubbia pulizia, comunque passabili, ed un
cilindro che doveva aver scroccato a qualche stupido signorotto che
aveva avuto la malasorte di sedergli vicino all’opera. Gli
altri bambini chinavano il capo quando lo scorgevano passare, gli
consegnavano il bottino delle loro ore a spasso per i bassifondi e poi
per le vie dei ricchi. Lo chiamavano << signore
>> nonostante avesse al massimo dodici anni.
Solo pochi potevano degnarsi di camminare con lui, a meno che non si
trattasse dei monelli appena reclutati, quelli che qualche madre aveva
dimenticato di tirarsi appresso durante un’uscita o che il
padre aveva sbattuto << a giocare >> fuori
di casa e dai suoi pensieri, lasciando loro la porta chiusa per giorni
e giorni. Per quei bambini il capo si comportava un po’ come
da nuovo padre, insegnava loro il gergo e le regole del loro mondo,
mostrava loro la bellezza d’essere liberi e padroni del
proprio successo, e solo quando era sicuro che potessero cavarsela da
soli li lasciava andare o riusciva ad affrancarli al suo gruppo di
fedeli.
Gavroche era un cavaliere senza titolo o portafogli in fondo.
Gli piaceva perdersi nelle strade parigine, schernire le passanti della
sua stessa classe sociale, e adorava scrutare nella folla, con un
po’ di sano alcol in mano seduto in un locale
all’aria aperta, perso a metà tra fantasia e
realtà.
La realtà non l’aveva mai schiacciato, nonostante
lui fosse diventato troppo presto uno senza casa e senza cognome. Suo
padre non lo riconosceva più, sua madre non lo aveva mai
riconosciuto.
Entrambi erano vivi e vegeti, ma era come se fossero morti.
O meglio, con amarezza se l’era ripetuto fino a perdere anche
quell’angoscia che prima gli strappava il cuore dal petto,
lui per loro non era niente.
Materiale organico da smaltire al più presto.
Gavroche aveva anche due sorelle, che lo avevano salvato dalla morte
per fame quando era nella culla e nessuno pensava a lui. O meglio. Lui
ricordava di avere tre sorelle.
O forse quella terza ombra luminosa che parlava con lui trattandolo
come fosse la cosa più bella che avesse mai conosciuto al
mondo era solo un suo sogno, qualcosa che non esisteva davvero.
Gavroche quel giorno era tornato al grande elefante saltellando in modo
vispo. Si era innamorato di una ragazzina.
Aveva i capelli rossi e lavorava in una bettola. Quindici anni appena e
un sorriso che prometteva il paradiso. Un sorriso che lui poteva
comprare per qualche lauta mancia. Presto avrebbe ottenuto anche
più delle sue labbra, si era detto tutto serio.
Aveva l’età giusta per diventare un uomo per
davvero. Anche se uomo lo era da quando aveva tre anni e doveva
guadagnarsi il pane e guardarsi le chiappe da cani porci e soprattutto,
uomini.
Ripensò per stare allegro alla sua bella. Lavorava alla
stessa locanda in cui ogni tanto vedeva passare quell’altra
sventurata di sua sorella Eponine, che doveva avere anche lei
più o meno quell’età. Eponine
però sembrava già più vecchia. Solo i
suoi occhi mostravano il cuore di ragazza che dentro la caricava di
stupide illusioni. Tipo la passione per quel giovanotto
dall’aria incantata, povero in canna, che sua sorella seguiva
ogni giorno silenziosa come un gatto, per i vicoli di Parigi, fino ad
un cancello che pareva inespugnabile per ogni miserabile di rispetto
dove il giovane si fermava, gli occhi disperati e rosi
dall’angoscia fissi alle finestre apparentemente disabitate
oltre l’uscio, e con i pugni serrati in tasca, i piedi
piantati rabbiosamente nel terreno. Diventava un albero incapace di
smuoversi di lì, metteva su radici, e quella fessa di
Eponine si accovacciava dietro l’angolo, con
l’abito che avrebbe finito per ucciderla per come la copriva
malamente, e i capelli da sventurata mal pettinati lungo le spalle,
sciolti dal vento e dalla foga dell’inseguimento. Sembrava
una puttana di cinquant’anni, illusa ancora di piacere agli
uomini e delusa dalla vita malsana che aveva dovuto sopportare.
Guardare quel giovane uomo, poco più grande di lei, doveva
essere un palliativo alla sua tristezza.
Sapere di non poterlo mai avere, era solo un’assicurazione
per il suo cuore.
L’unica cosa che non le avevano strappato volente o nolente,
era proprio quell’amore di cui nessuno sapeva cosa farsene.
Non poteva donargli né un nome né una
dignità, solo i suoi sguardi più sinceri, la sua
presenza silenziosa, la vigilanza costante sugli affari suoi.
Era un fantasma buono, non si sarebbe intromessa negli affari
d’amore di Marius. Le bastava poter amare la bellezza melensa
della sua schiena, rivolta sempre verso di lei.
Gavroche capiva questo con un’occhiata, e con il suo fare
schietto, quella stessa mattina, forse esaltato dalla bellezza della
sua Marie, aveva fermato Eponine e con i suoi occhi celesti fissi in
quelli della sorella aveva borbottato << da quando sono
le gonne a far le poste ai calzoni? >>
Eponine lo aveva fulminato, non riconoscendo la voce lievemente
cambiata del fratello, che stava crescendo a vista d’occhio,
e solo dopo alcuni secondi sussurrò un <<
fatti i fatti tuoi >> con un accenno pericoloso di rabbia
nella voce roca.
<< faresti meglio a prenderti quel pidocchioso che ronza
attorno casa tua da qualche tempo, prima che lui prenda te senza
nemmeno assicurarti un futuro o che la Signora ti derubi anche del
respiro. Non hai una bella cera. Sembri più vecchia di tua
madre >>
Eponine gli aveva assestato un calcio negli stinchi, tentando di
mantenersi più silenziosa possibile. Gavroche le si era
accovacciato accanto, cacciò dalla tasca quello che sembrava
un liquore stantio e glielo porse con fare caritatevole
<< bevi, ti rincuorerà >>
<< Non ne ho bisogno, grazie >>
replicò lei, arrossendo dalla rabbia.
Marius si voltava udendo quei bisbigli, ma dalla sua posizione non
riusciva a scorgere nulla di quanto accadeva davvero a pochi metri da
lui.
<< Lui non ti amerà mai >> disse
con calma il monello, sospirando << tutti abbiamo le
nostre gatte da pelare. Vedi me, innamorato di una locandiera. Tutti
sanno che quelle ti castrano in un modo o nell’altro. O
peggio, ti incastrano. E poi gli altri usano le tenaglie e ti
assicurano un lavoro all’opera. Evirati unitevi
>>
Eponine sorrideva, vedendo che suo fratello non aveva perso il suo
spirito ironico. Era deperito e cresciuto. E lei invecchiata.
<< Strano che tu mi abbia riconosciuta. Hai ragione.
Assomiglio a nostra madre sempre di più >>
Gavroche la osservò silenzioso.
Scosse il capo, dopo aver bevuto un po’ dalla bottiglia
<< non è vero. Tu non hai la barba.
>>
Eponine scoppiò a ridere allegramente. <<
meglio dire non ancora >>
<< se fossi stata ricca, a quest’ora saresti
con lui >> mormorò il bambino. In fondo, era
solo un fratello. Acerbo, aspro, falsamente coraggioso.
Un piccolo uomo abbandonato a se stesso che non voleva lasciare andare
una sventurata.
Erano due miserabili legati da una catena inossidabile.
Fratelli.
<< non sono i soldi che mi mancano, per stare con il
signor Pontmercy. Mi manca un viso angelico, un’aria
famigliare che mi inquieta ed un riserbo che non mi si addice.
>> si rassettò la veste sospirando.
<< Non è questo che mi impedirà di
seguirlo. Piuttosto tu perché mi segui? Dovresti odiarmi. Tu
vivi per strada >>
<< Tu hai la strada in casa >>
replicò alzando le spalle il bambino, cacciando dalla giacca
una mela e mordendola sonoramente.
Eponine annuì, di malavoglia. << Fratelli
nelle disgrazie >> sussurrò, mentre Marius,
come sempre, riusciva a scavalcare il cancello, e lei a scorgere un
braccio candido che si protendeva verso il giovane. Una mano esile ed
elegante. La mano che univa i loro destini.
Eponine si morse le labbra, e si diede piccoli pizzicotti alle gambe.
<< diavolo. Fa male più di questo
>> mormorò.
Gavroche le diede una pacca sulla spalla, offrendole di nuovo il
liquore << fratelli nelle disgrazie >>
ripetè con fare da filosofo in fasce.
Eponine tra le lacrime non potè far a meno di lasciar cadere
quella bottiglia piena di veleno e di stringerselo al petto.
Singhiozzarono insieme fino a stordirsi.
FINE
Altra storiella scardinata e senza pretese. Se avete retto fino a qui e
siete rimasti insoddisfatti, lapidatemi pure. Se vi ha strappato
un'emozione, mi farebbe piacere che me lo faceste sapere >,<
Spero che alla mia affezionata Alaide possa piacere.
Ti ringrazio molto per le recensioni precedenti.
Presto pubblicherò una Eponine/Marius. Io li adoro insieme.
<3
Maria
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