Capitolo
trentadue
"Northern
Light, you call me home"
«Guarda
Luly, ci sono i cerbiattoli!», disse
eccitata la bimba.
«Sono scoiattoli,
Evangeline.
Sono carini, vero?»
«Sì, come quello
dell’Era
Glaciale!»
«Vero, come
Scrat…», rispose
Lou, baciando i capelli della piccola.
Sei giorni prima al suo arrivo
a Colonia, aveva trovato una bambina diversa da quella che aveva
lasciato
l’Italia solo qualche settimana prima. Karl aveva ragione di
essere ansioso,
perché la bimba che conoscevano come vitale e combattiva era
diventata di colpo
timida e svogliata. Si era illuminata nel vedere
Lou e per un giorno intero non
era voluta scendere dalle sue braccia.
Karl aveva permesso alla
figlioletta di dormire con lei a patto che non diventasse
un’abitudine.
Aveva fatto bene a correre da
loro: il suo sesto senso le diceva sempre la cosa giusta.
Beh, quasi sempre.
La nonna della piccola al
contrario non era stata molto contenta del suo arrivo:
l’aveva squadrata con la
sua aria gelida e altezzosa, facendola sentire a disagio.
E lei dopo un primo
istante di
smarrimento aveva alzato le spalle e pensato che poteva andare a farsi
fottere
lei e la sua superbia. Aveva visto quella donna soltanto una volta
dalla
nascita di Lilly, al funerale di Mara e anche allora andava di fretta.
Era
ripartita il giorno seguente, senza tanti problemi. E ora pretendeva
che si
facesse da parte? Se lo poteva anche scordare.
Aveva fatto una promessa a
Mara: quella di esserci sempre per la bambina e di fare quello che
anche lei
avrebbe fatto.
«Ora che ci sei anche tu,
potresti aiutarmi a trovare un piccolo appartamentino per me e la
bambina?» –
le aveva chiesto Karl ancor prima che lei salisse sulla sua auto, in
aeroporto.
«Perché, non
avevi deciso di
vivere con tua madre?»
«Beh, sì:
all’inizio, per
aiutare Lilly ad ambientarsi avevo pensato che fosse la soluzione
migliore… ma
adesso…» Aveva titubato lui.
«Adesso cosa?»
«Avevo dimenticato quanto
fosse
stressante vivere con lei.», le aveva sorriso con
un’alzata di spalle.
«Oh, capisco… va
bene. Ti
aiuto volentieri, anche se non capisco a cosa ti servo io. Sei
bravissimo in
queste cose.»
«Ecco…
», si era schiarito la
voce, imbarazzato. «Pensavo di chiederti di venire a vivere
qui.»
Lou lo aveva fissato come se
fosse improvvisamente impazzito.
«Cosa?»
«Aspetta: non saltare
subito a
conclusioni. Ho solo pensato che la tua presenza qui potrebbe evitare
che
Evangeline si chiudesse ancora di più e iniziasse ad avere
problemi seri. E ho
pensato che dal momento che hai concluso il tuo impegno con le
illustrazioni
del libro potevi liberarti, e in ogni caso potresti lavorare ai
prossimi anche
da qui… e anche per il part time in
libreria…»
«Karl, non so che dire: sai
che per Lilly farei qualsiasi cosa, ma davvero... Questa cosa mi coglie
impreparata.»
«Lo so e hai tutto il tempo
che vuoi per pensarci. Capirei anche se tu rifiutassi, anche se mi
auguro che
accetti.»
Lou continuava a guardare
fuori dal finestrino, in silenzio.
«Non credo sarà
facile trovare
un lavoro qui.»
«Lou, andiamo: è
più probabile
che tu trova qualcosa qui che sia di tua competenza, che in Italia. E
poi anche
se non trovassi niente, non ci sarebbero problemi!»
«Non dire
assurdità: non
voglio mica fare la mantenuta!»
«Guadagno abbastanza per
poter
mantenere altre tre persone e sai che i soldi non sono mai stati un
problema
per me: ci accontentiamo di poco.»
«Non lo so…
dammi il tempo di
pensarci su, va bene?»
Karl aveva sorriso, alleggerito.
«Hai tutto il tempo che
vuoi
per decidere.»
E così ora si trovava
sulle
rive del Reno mentre passeggiavano in lungo e largo per il Parco
omonimo con la
piccola Lilly, aspettando che Karl le raggiungesse, godendosi la prima
giornata
di sole da quando era arrivata.
Eccola lì a prendere una
decisione che avrebbe dato nuovamente una svolta alla sua vita.
Col passare delle ore quella
proposta le sembrava la decisione giusta: Roma le provocava stress e
anche il
suo dirimpettaio, si sentiva inutile e con la perenne sensazione di
perdere del
tempo prezioso.
«Tesoro, ti piacerebbe se
rimanessi qui con voi, fin quando non torniamo a casa?»,
chiese alla piccola
che le saltellava contenta accanto indicando ora un gruppo di bambini
intenti a
tirarsi la palla, ora una barca che
passava lungo il fiume. Lilly strinse la manina nella sua e
guardò in su strizzandole
gli occhi verdi.
«Sì! Tanto
tanto: così è come
quando siamo in Italia a vieni da noi a casa nostra?»
«Certo: ma sarà
per tanto
tempo. Che dici, vuoi che rimanga qui?»
La piccola
annuì energica.
«Bene… ci
divertiremo un sacco
noi due, qui!», disse solleticando la mano della bambina che
rise deliziata.
«Però la collana
ce la teniamo
lo stesso anche se siamo vicine!»
«Ovviamente!»
«Non mi piace nonna Ilse:
mi
sgrida sempre quando parlo in italiano.», continuò
la bambina.
«È
perché lei non lo capisce,
tesoro.», disse Lou difendendo la donna che trovava lei
stessa odiosa. «Quando sei
con lei parla solo in tedesco, va bene?»
«Okay. Ma non mi piace lo
stesso.»
Lou sorrise sotto i baffi: la
piccola era schietta e diretta quanto lo era stata Mara.
«Fra un po’ avrai
una casa
nuova e vedrai la nonna solo ogni tanto.»
«Menomale.»,
disse la bimba. «Luly,
possiamo chiedere a zio Pepè e zio Simone di venire anche
loro qui? E di
portare Calzetta e Natale? Mi mancano tanto e anche io manco a
loro!»
I due animali domestici erano
stati affidati temporaneamente a Katia che aveva una casa con giardino
dove
poteva permettersi di ospitarli; inoltre erano familiari al felino e
alla
cagnetta, che stravedeva per la piccola Valentina.
«Vedremo, tesoro. So che ti
mancano tanto. Ma non devi preoccuparti per loro:
c’è Vale che fa loro tante
coccole anche per te, lo sai?»
«Sì, lo so. Ma
sono i miei
amici e mi mancano. E anche Valentina mi manca.»
«Piccola
mia…», Lou le strinse
la mano. «Vedrai che torneremo a casa molto presto.»
La notte precedente aveva
scritto una lunga mail a Simone e Beppe e anticipato che era possibile
che
rimanesse a Colonia più a lungo di quanto avesse programmato.
Attendeva a breve una risposta
piccata e colorita da parte di Simone e un “lo
immaginavo!” da Beppe.
Sentiva il bisogno di
allontanarsi da tutto e ricominciare da capo, ma non sapeva ancora se
quella
era la strada giusta. Qualcuno
avrebbe
detto che stava di nuovo fuggendo e forse era così.
È difficile trovare una
nuova casa per la propria anima quando la si è persa
già una volta.
«Sono stanca, Luly: ci
sediamo?»
«Vuoi tornare a casa?
Oppure
troviamo una panchina comoda e stiamo ancora un po’: oggi
è una bella giornata
e c’è il sole.»
«No, voglio stare qui a
guardare le barche.»
Poco più in là
vide una
panchina ancora libera e si affrettò prima che qualcuno la
occupasse prima di
loro.
Si sistemò la bambina
sulle
ginocchia e insieme guardarono verso il fiume di fronte a loro. Le
piaceva
quella città: in qualche modo le ricordava Helsinki, anche
se erano
completamente diverse.
Forse era per l’atmosfera o
il
clima: fatto stava che per la prima volta da anni si riempiva i polmoni
di aria
frizzante.
Il giorno precedente lei e
Karl si erano messi in moto per vedere qualche appartamento: ne avevano
trovato
uno disponibile quasi in centro, molto vicino al posto di lavoro
dell’uomo.
Lei stava aspettando Karl,
guardando distrattamente le vetrine in compagnia della piccola Lily che
non aveva
voluto saperne di rimanere a casa con la nonna.
I negozi eleganti e costosi
erano sulla via principale mentre lei preferiva di gran lunga le
piccole
botteghe artigiane o i minuscoli e polverosi negozi di dischi che
vendevano
ancora vinili.
Era proprio in uno di questi
che aveva visto il poster del concerto degli HIM.
Il giorno successivo avrebbero
suonato in quella città.
“Valo, mi
perseguiti. È impossibile che tu lasci la mia mente, anche
quando non ti penso, sei tu a cercarmi.” – pensò quasi divertita, con la
stranissima sensazione di sentirne quasi la presenza lì
vicino, con lei.
Sembrava che il destino si
stesse divertendo parecchio in quel periodo.
“E chi sono io
per deludere il destino?”,
pensò.
Sorrise a Karl che stava
arrivando con un sorriso raggiante sul viso, si avvicinava e con in
braccio la
bambina le cingeva le spalle, dandole un bacio sulla fronte.
Avrebbe fatto bene a farci
l’abitudine, non sarebbe sicuramente stata l’ultima
volta che si trovava di
fronte ad una foto di Ville.
Col tempo anche quello non
l’avrebbe più scalfita.
Col tempo avrebbe ripensato al
periodo con lui come un qualcosa di bello e magico da raccontare un
giorno alla
piccola Evangeline.
*****
«Forse
dovresti uscire a prendere una boccata d’aria, piuttosto che
stare qui a rompere le palle a tutti con il tuo muso e le tue
rispostacce acide
e cattive!»
La voce dura ed
esasperata del suo migliore amico nonché bassista della
sua band, gli sferzò lo stomaco come un pugno. Lui era la
sua roccia sul palco
e fuori da esso, quello che lo riprendeva sempre per la collottola
quando ne
combinava una delle sue e che bene o male sopportava le sue bizze, e
ora gli
stava dando una strigliata più che meritata.
Il tour era agli
sgoccioli e le date in Germania sarebbero state le
ultime: dopodiché sarebbero tornati tutti a casa per un
lungo periodo di
riposo.
Si rendeva conto di aver
reso la vita della sua band e dello staff un
vero inferno. Prima e dopo le date in Italia era stato quasi
impossibile
rivolgergli la parola senza che lui scattasse come una molla, nervoso.
Si passò una
mano sul viso stanco e annuì all’indirizzo del suo
amico.
Aveva ragione: doveva uscire e darsi una calmata. L’idea di
casa lo rincuorò:
non vedeva l’ora di tornarvi e trovare un po’ di
calma interiore. Inoltre le
mancava la sua gatta: lasciarla nelle mani della sua famiglia era stata
una
buona idea.
Amy si era offerta di
tenerla per lui dopo la delusione della notizia
che non sarebbe andata con lui in tour.
«Non ho
bisogno della badante e non voglio nessuno intorno quando
scendo dal palco: l’unica cosa di cui ho bisogno è
una birra e un letto. E
tanto silenzio.» Le aveva detto rudemente.
Afferrò la
giacca e occhiali da sole tanto grandi da coprigli mezza
faccia e uscì.
Il loro hotel era vicino
al teatro in cui avrebbero suonato.
La luce lo
accecò per qualche istante quando mise fuori il naso per la
prima volta da mesi: non ricordava l’ultima volta in cui
aveva passeggiato al sole.
Prese a camminare senza una meta, osservando la gente intorno a lui,
affaccendata ognuna nella propria vita e quotidianità.
Sperava che nessuno lo
riconoscesse e si calcò ulteriormente il
cappello sul viso.
L’ultima cosa
che voleva era sorridere ed essere gentile forzatamente e
fare autografi ai fan esagitati. Non sopportava di vedere
l’eccitazione ed
emozione di trovarsi di fronte al loro idolo trasformarsi lentamente in
delusione,
come spesso accadeva quando si rendevano conto che era scostante e per
niente
affabile.
Si infilò in
una strada parallela meno affollata dove non vi erano che
poche persone a camminare lungo la strada, continuando il suo stanco
vagabondare.
Si annoiava
già e il sole picchiava duro nonostante l’aria
fredda:
forse era il caso di rientrare in hotel e mettersi a dormire, piuttosto
che
arrivare alla sera successiva con un mal di testa da insolazione.
Girò sui
tacchi e si immobilizzò improvvisamente.
Qualcosa aveva attirato
la sua attenzione ma non capiva esattamente
cosa fosse.
Poi tornò a
guardare la donna intenta ad guardare una vetrina al di là
del marciapiede in cui era lui.
Aveva i capelli corti e
scuri, tagliati appena sotto le orecchie,
leggermente mossi.
Un cappotto bianco,
jeans e stivali neri.
Non aveva niente di
appariscente da motivare la sua attenzione.
Ma qualcosa nel modo in
cui la donna si muoveva, la linea della
schiena… le ricordava qualcuno, le era stranamente familiare.
Teneva per mano una
bambina che parlava e scalpitava e saltellava
continuamente sul posto, facendo voltare la testa della donna nella sua
direzione di tanto in tanto.
Poi lei si
scostò i capelli, infilandoli dietro l’orecchio.
Quel semplice gesto lo
colpì in pieno petto.
«Lou…»
Lei lo faceva allo
stesso modo, indugiando un po’ sui capelli rossi e
lisciandoli.
La donna aveva i capelli
corti e scuri: non poteva essere lei.
Si girò,
mostrandogli il profilo e lui tornò a sussultare.
Avrebbe riconosciuto
quel profilo ovunque.
La donna sorrise alla
bambina e una fossetta fece capolino sulla sua
guancia.
Si spostò in
modo da poterla vedere meglio.
Il vento gli
portò la voce acuta della bambina che chiedeva qualcosa in
italiano alla donna.
Lei continuava a
sorridere e annuire alla piccola.
Quante
possibilità c’erano che fosse lei?
Non era possibile, era
soltanto la sua stanchezza e la voglia di
rivederla che gli facevano avere visioni.
Era già
capitato in passato che una ragazza con una vaga somiglianza
con Lou attirasse la sua attenzione, ma era svanita fulmineamente
così come era
arrivata.
Osservò la
linea del viso, il collo, le piccole orecchie.
«Non
può essere lei…», disse rivolto a se
stesso.
Quante
possibilità c’erano che lei fosse lì,
in un posto sconosciuto e
improbabile, a pochi metri da lui?
C’era qualche
decina di metri tra loro, non di più.
Qualche metro e una
strada poco affollata.
La donna rise e
l’unica certezza ancora flebile che aveva, svanì.
Lou.
Era lei.
Non aveva dimenticato la
sua voce dolce e sottile così come non aveva
dimenticato la sua risata, quasi timida.
Mosse un passo e fece
per scendere dal marciapiede.
Ogni briciolo di rancore
per lei si era sciolto come neve al sole.
Voleva parlarle, vederla
ancora una volta.
Mosse un altro passo.
La bambina si
staccò da lei e corse incontro ad un uomo alto e biondo
che andava verso di loro con un sorriso. Prese la bambina in braccio e
avvicinandosi
alla donna le passò un braccio intorno alle spalle sottili
posandole un bacio
sulla fronte.
Lei gli sorrise, e si
strinse a lui abbracciandolo in vita.
Pochi istanti e si
stavano allontanando. Un perfetto quadretto di
famiglia felice.
La donna si
voltò improvvisamente dalla sua parte e lui girò
sui
tacchi, dandole la schiena.
In quella frazione di
secondo non ebbe più alcun dubbio.
Era Lou. Diversa, eppure
la stessa.
Rimase fermo davanti
alla vetrina, immobile per un tempo lunghissimo, finché
il proprietario dall’interno, non si avvicinò alla
porta per lanciargli uno
sguardo di rimprovero.
I suoi piedi si mossero
da soli.
Lentamente
tornò indietro verso l’hotel.
Quante
possibilità c’erano che lei fosse stata
lì, a pochi passi da lui
e allo stesso tempo più lontana che mai?
Si rese conto che per
quattro anni aveva vissuto nella speranza che lei
tornasse prima o poi, o che pensasse a lui di tanto in tanto. Aveva
fatto di
meglio: aveva una famiglia.
Al contrario di lui che
viveva in una casa dove la sua presenza
impregnava ogni cosa e il suo ritratto occupava un posto di primo
piano. Era
così stupido indugiare nei sogni e nei rimpianti.
Nel tragitto fino
all’hotel, in quei pochi minuti, promise a se stesso
che avrebbe voltato pagina.
Una volta a casa si
sarebbe disfatto di quel quadro e di ogni ricordo o
speranza nutrita finora.
Era giunto il momento
che aprisse le porte al futuro, qualsiasi cosa
gli volesse portare.
Meritava anche lui
qualcosa che potesse lontanamente somigliare alla
felicità serena che aveva visto sul viso di Lou.
*****
«Le tende mi piacciono
bianche, così quel poco di sole che ci sarà
sembrerà più forte.»
«A me piacciono quelle
gialle con
Peppa Pig!»
«Scegliere tra quelle
bianche
e quelle col maiale, sarà dura…»
Karl scoppiò a ridere
trascinandosi dietro anche la bambina.
Lou sospirò scuotendo la
testa. Arredare il nuovo appartamento si stava dimostrando un compito
più arduo
del previsto: la piccola Lilly aveva una personalità forte e
imperiosa.
Si era imposta su quasi tutto
quello che sarebbe andato nell’arredo della sua stanzetta
temporanea e ora
pretendeva di decidere anche sul resto della casa. Era spaventosamente
somigliante a Simone e la cosa li terrorizzava. Come se non ne bastasse
uno!
Simone non aveva degnato di
una risposta la sua mail.
Si era aspettata una lunga
sequela di insulti e recriminazioni, ma lui semplicemente aveva deciso
di non
rispondere.
Al posto suo l’aveva fatto
Beppe, invece.
E non si aspettava di certo la
sua improvvisa aggressività: l’aveva chiamata a
telefono ed era andato subito
al dunque senza tergiversare o prendere le cose alla lontana,
com’era suo
solito.
«Sei impazzita? E
lasceresti
la tua vita qui, di nuovo?», le aveva chiesto rude.
«E quale sarebbe la mia
vita lì,
scusa?»
«Stai scherzando, vero? Hai
un
lavoro, una casa tua e se tutto va bene un futuro. E tu prendi e vai
via solo
perché la piccola non si è ambientata, in
quanto… neanche un mese? Santo cielo!
Datele tempo, è solo una bambina e si sa che sono molto
più resistenti di
quanto noi immaginiamo! Tu e Karl a volte siete esagerati!»
Lei era rimasta in silenzio,
lasciando sbollire la stizza del ragazzo.
«Lou, stammi a sentire:
devi
lasciarli andare. Da soli. E tu iniziare una vita nuova. Non
è tua figlia, Lou.
Lui non è tuo marito. So che hai già avuto una
discussione molto simile con
Simone e all’epoca non ero d’accordo con lui. La
bambina era così piccola e
Karl fragile… e anche tu stavi meglio quando ti occupavi di
loro. Ma ora le
cose devono cambiare. Per il bene di tutti. Ti rendi conto di essere
sempre
punto e accapo e che non vai avanti in alcun modo? Devi pensare a te
stessa!»
«Non capisco cosa cambia se
io
lavoro da qui a tutte le cose che potrei fare anche
lì.», aveva ribattuto lei
ostinata.
«Perché devono
imparare a
cavarsela da soli, anche senza di te. È troppo facile per
Karl chiamare te
quando le cose non vanno bene! E non è giusto! Per te, per
la piccola
Evangeline! È ora che se la cavi da solo con sua
figlia!»
«Lo fa.»
«Oh, andiamo! La bimba ha
il
broncio e lui ti chiama: ha la febbre, chiama te e ti precipiti
immediatamente.
Potevo passarci sopra quando erano qui, a poche ore da noi. Ma volare
in
Germania solo perché lui si sente solo è da
egoisti! Tranquilla: dirò le stesse
cose anche a lui. È ora che qualcuno gli dica di cavarsela
anche quando pensa
di non farcela.»
«E da parte nostra non
è egoistico
lasciarli da soli?», aveva chiesto Lou, freddamente.
«Quando mai li abbiamo
lasciati soli? Dimmi solo un’occasione in cui non siamo stati
con loro! Ma è
ingiusto chiederti di mollare tutto “perché
tanto Lou lo farà per Lilly”.»
Beppe aveva ragione e lo
sapeva.
Ammettere a se stessa che anche
se era una cosa che desiderava non era la cosa giusta da fare, per
tante
ragioni. In due settimane si era resa conto che per quanto amasse la
piccola
Lilly e fosse a suo agio con Karl, dal di fuori tutti li vedevano come
una
famiglia. Cosa che non erano.
E lei sentiva un senso di
colpa nei confronti di Mara.
Aveva promesso alla sua amica
di esserci sempre per sua figlia, ma non prendendone di nuovo il posto
com’era
già successo.
«Non posso lasciarli su due
piedi…»
«Non li stai lasciando, per
la
miseria! Se la caveranno da soli!»
«Ci
penserò…»
«Lou. Stavolta non ci
passerò
sopra, ti voglio bene e non mi va di impormi, ma tengo a te. Teniamo a
te.», aveva
precisato più duramente. «E forse non sempre lo
dimostriamo nel modo giusto.
Vogliamo soltanto che tu ti senta libera dalle catene che ti sei
costruita da
sola. Lo capisci, vero?»
«Sì, so che cosa
intendi.»
«E allora dacci un taglio,
o
vengo a prenderti io stavolta.»
Lou aveva sorriso debolmente:
era riuscita a far inalberare perfino il pacifico Beppe.
«Non ti alterare: ne avevo
già
parlato con lui ieri. E anche con Lilly. Con lei è stato
più dura, ma dopo un
po’ di capricci ha capito.»
Beppe tirò un sospiro.
«E mi hai fatto parlare e
sbraitare per mezz’ora ugualmente? Sei proprio stronza a
volte!», aveva
sbottato lui, ridacchiando.
«Era divertente sentire la
tua
voce alzarsi man mano di tono e diventare ad ultrasuoni.»
«Bastarda. Quando
torni?», aveva
chiesto sempre ridendo.
«Appena posso. Almeno
questo
concedimelo. Mi serviva una vacanza…»
«Okay, ma non ti mollo.
È bene
che tu lo sappia.»
«Santo cielo: non ne
bastava
uno di cane da guardia?»
«Poche chiacchiere, bella.
Riporta qui il tuo culo il più in fretta possibile,
chiaro?»
«Va bene… Stai
iniziando a
somigliare alla tua metà. E non è un
complimento.»
Beppe era tornato a ridere di
gusto chiudendo la conversazione, visibilmente soddisfatto di se stesso.
Tornò a prestare
attenzione
alle tende allineate davanti a lei.
«Che ne dite di queste
verdi
con le righe bianche?», chiese ai due che guardarono le
tende, scettici.
«Oh, fate un po’
come vi
pare!», rise lei.
Qualche minuto dopo uscirono
dal negozio con due paia di tende: uno bianco, l’altro
tempestato di maiali
rosa.
*****
«Luly, questa dove lo metto?»
La piccola la stava aiutando a
fare la valigia, tutta contenta di poter essere d’aiuto.
Si era aspettata pianti e
lacrime ma inaspettatamente stava reagendo bene alla sua partenza.
Stava crescendo e anche se la
cosa la faceva sentire triste, in un certo senso la liberava dai sensi
di colpa
nel lasciarla.
«Dove vuoi, tesoro.
C’è tanto
spazio, mettila dove ti piace!»
«Okay!»
Sarebbe tornata a Roma prima
che Beppe andasse di persona a prenderla come aveva minacciato
più volte.
Ormai era passato un mese dal
suo arrivo e la bambina si era ambientata più che bene, lei
poteva tornare in
Italia senza sentirsi in colpa. Mancavano solo due settimane al Natale:
Karl ed
Evangeline avrebbero passato le vacanze con loro, come ogni anno.
Controllò nuovamente la
prenotazione del volo per l’indomani mattina: non si sentiva
rilassata fino a
che non si sedeva sulla poltroncina. Era sempre così: temeva
che qualcosa
all’ultimo minuto andasse storto.
Una volta assicurata che era
tutto sistemato, scorse velocemente le altre mail.
Cestinò gli spam e
pubblicità
e notò una mail che le era sfuggita datata quasi due
settimane prima.
Con sorpresa vide che era una
mail di Matleena.
«Oh!»
«Che
c’è?», chiese Karl
entrando in camera proprio un quel momento.
«Una mail dal mio ex capo,
quand’ero a Helsinki…»
«E cosa vuole?»
«Non ne ho idea: la sto
aprendo ora e vedo cosa…», si bloccò,
senza fiato.
«Lou… che
succede? Tutto okay?»,
chiese l’uomo vedendola sbiancare, con gli occhi lucidi.
Si avvicinò apprensivo e
lei
gli mostrò il contenuto della mail.
Lui lesse attentamente e alla
fine le posò le mani sulle spalle, stringendogliele forte.
«Questa volta non puoi
ignorare: devi andare. Lo sai anche tu.»
«Non…
posso…»
«Devi. Devi tornare a
Helsinki, Lou.»
*****
Le luci dell’aeroporto di
Vantaa si avvicinavano sempre di più e lei sentiva il cuore
rullare come stava
facendo il motore del velivolo. Per quasi quattro ore era rimasta
immobile sul
sedile, stordita a chiedersi continuamente che cosa stava facendo.
Karl l’aveva messa sul
primo
volo per Helsinki senza tante chiacchiere e lei si era lasciata guidare.
L’aereo si fermò
e i
passeggeri si apprestarono a prepararsi a scendere.
Lei li seguì intontita. Le
faceva uno strano effetto essere lì.
Scese l’ultimo gradino
della
scala passeggeri e respirò a fondo.
“Ecco, sono di
nuovo sul suolo finlandese.”
Nonostante tutto, sotto una
montagna di dubbi e paure era felice di essere tornata, emozionata e
sulla soglia
delle lacrime.
“Stupida donna
emotiva!”
Alzò gli occhi al cielo
carico
di neve e sorrise.
Era buio pesto ed erano solo
le tre del pomeriggio. E lei si sentiva a casa come non mai.
Ad ogni passo che faceva verso
l’uscita si sentiva meglio.
Dopo pochi minuti che era
sulla navetta che portava a Helsinki aveva già la smaniosa
voglia di trovarsi
in città, rivedere i posti che amava, respirare di nuovo
l’aria di quel posto
che amava tanto.
L’ora passò
lentamente per
lei: si sentiva stupida ma osservava le strade, le insegne, i quartieri
che
erano quasi tutti gli stessi. C’erano pochi cambiamenti e lei
li notò tutti.
Non riuscì a rilassarsi,
continuando a girarsi a destra e manca come una bambina nel paese delle
meraviglie. I passeggeri dovevano pensare che era fuori di testa,
sicuramente.
Aveva tempo per andare a fare
una doccia nell’albergo prenotato in centro, posare il
bagaglio a mano e
correre da Matleena.
Ricordò
all’improvviso il
motivo per cui era di nuovo lì e le venne da piangere.
Ingoiò il groppo che le si
stava formando in gola e cercò di pensare ad altro,
inutilmente.
Scese dalla navetta e si
incamminò automaticamente verso l’hotel.
Aveva dimenticato quanto fosse
facile e tutto facilmente raggiungibile a piedi in quella
città.
L’hotel era quasi attaccato
alla stazione e a 500 metri c’era il Kiasma.
Amava ogni singola pietra di
Helsinki.
Il freddo le arrivò in
faccia
all’improvviso schiaffeggiandola e sorrise come
un’ebete, nonostante il vento
le facesse lacrimare gli occhi.
Questa volta non si sarebbe
preoccupata che natura avessero le sue lacrime.
Ogni sentimento che provava,
nostalgia, ritrovarsi, perdita, amore… erano tutte
concentrate in quelle
lacrime che non si preoccupava di nascondere o asciugare.
*****
La struttura del Kiasma in
vetro e acciaio la sovrastava, così imponente e allo stesso
modo fluida e
morbida con le sue pareti curvate.
Aveva passato in quel posto
tantissimo tempo e ora ne ritrovava gli odori, la
familiarità.
Le pareti bianche e irregolari,
le scalinate che si intersecavano tra loro.
Passeggiò con calma tra le
mura, ritrovando nella sua memoria i ricordi e il tempo in cui era
felice e
soddisfatta della sua vita.
Una hostess bionda e
dalle
gambe chilometriche le infilò tra le mani una brochure degli
espositori in mostra,
parlandole in finlandese.
Lou le sorrise e la
gratificò
con una simulazione di sorriso mormorando un “Kiitos”
a bassa voce.
Sfogliò il volantino con
interesse.
“Viaggio tra
sogno e realtà: ‘Una finestra aperta sul
cuore’ –
Retrospettiva di Aappo Korhonen”
Davanti alla sala che ospitava
le opere del Sig. Korhonen si fermò a prendere respiro.
Poi entrò.
C’erano tantissimi quadri,
ovunque guardasse intorno a lei c’era un’esplosione
di colori.
Su tutti predominava il blu,
declamato in ogni sua sfumatura: dalla più tenue e chiara al
blu più cupo.
Lou camminava fra la gente,
tantissima, stringendo nervosamente la brochure fra le mani.
Non aveva mai visto i quadri
del suo vicino di casa prima di allora.
Ammirò le figure umane
fluttuanti, spigolose e allungate che erano in quasi tutti i dipinti.
In un
primo momento poteva sembrare che l’artista si fosse ispirato
al suo vecchio
amico Chagall. Invece le figure del Sig. Korhonen erano molto meno
romantiche e
morbide rispetto a quelle del più famoso artista.
C’era un che di gotico e
dark
nelle opere del suo vecchio amico e vicino di casa, un lato che non si
sarebbe
mai aspettata. Il tenero Sig. Korhonen, l’uomo col sorriso
contagioso e gli
occhi ridenti celava in sé un’anima tormentata e
oscura.
E nonostante tutto, quei
quadri trasudavano amore, erotismo, magia.
Passeggiava lentamente, in
silenzio, godendosi ogni pennellata.
Col cuore in tumulto
ricordò
l’ultima volta che aveva visto il suo vicino, il giorno prima
che lei andasse
via da Helsinki.
*****
«Di cosa hai
paura?», le aveva
chiesto il suo amico andando dritto al punto.
Erano seduti nel salotto di
casa Korhonen, intenti a sorseggiare un tè aromatico. Lei
aveva abbassato gli
occhi sulla sua tazza e non aveva risposto.
«Hai paura di lui? Che ti
possa deludere? Che possa tradirti?»
La voce dolce del suo amico la
incalzava.
«Un po’ di tutto
questo.»
Aveva risposto a mezza
voce, alzando le
spalle.
«Non hai mai pensato che
potresti anche essere tu a tradirlo per prima? Scappando via, non
affrontandolo, è come se lo tradissi. E lo stai
deludendo.»
Lei aveva alzato gli occhi e
guardato l’uomo che le stava di fronte.
«Lo so. Ma non riesco ad
impedirmelo. Non sto andando via per sempre… solo
che… Ho bisogno di pensare,
di tempo. Non voglio lasciarlo. Non posso e non voglio
deluderlo.», aveva
spiegato lei.
«Allora aspetta che lui
torni,
parlatene insieme. Non sempre le cose sono come appaiono, mia cara. Lui
non è
un uomo come tanti: essere famosi, in certo senso rende molto
più vulnerabili
di quanto uno ci si aspetti.
Io vedo nei tuoi occhi che lo
ami. E anche lui, anche se non ho mai avuto modo di parlarci, sono
certo che ti
ami. L’amore è la cosa più importante.
Più importante della paura, del dubbio,
dei sentimenti contrastanti, degli intoppi quotidiani, delle
intromissioni.»,
le aveva detto infervorato.
«Non sto
scappando…», aveva
mormorato nuovamente lei.
«Bene. Se così
fosse,
deluderesti anche me.», aveva aggiunto lui in tono severo.
Lei aveva tenuto gli occhi
bassi, sentendosi in colpa.
«Abbi il coraggio di vivere
la
tua realtà, mia cara bambina. A volte, è molto
meglio della favola che abbiamo
sempre sognato.»
*****
Si rese conto di aver quasi distrutto
la brochure a furia di stritolarla tra le mani sudaticce.
Aveva deluso tante persone in
quei quasi 5 anni, ma il suo vecchio amico e vicino di casa, il suo tenero Sig. Korhonen
era quello che le pesava di più sulla coscienza.
Che la faceva vergognare per
la sua codardia, il suo poco coraggio, la sua eterna paura di non
essere quello
che tutti si aspettano da lei. Lo aveva salutato credendo che si
sarebbero
rivisti a breve, che Ville in qualche modo potesse fare il miracolo di
infonderle la sicurezza e trasmetterle l’amore di cui lei
aveva bisogno.
E invece non si erano rivisti
e ora lui non c’era più.
C’erano solo i suoi quadri
a
raccontare la vita di un uomo, dell’artista e
dell’amore per la sua Maili.
Si trovò davanti al
ritratto
del donna che lui aveva amato.
“Keeper of my
soul”: Custode della
mia anima.
Era così che
l’aveva chiamata
una volta, parlandone con lei. Ed era il titolo del quadro che
raffigurava
Maili.
La figura sottile dalla pelle
viola su uno sfondo blu: toni cupi che invece contrastavano con
l’espressione dolcissima
della donna, le mani strette al petto a stringere un cuore umano, di un
rosso
vivo e vibrante.
Il cuore del Sig. Korhonen.
“Perché
batte il cuore?”
Rimase per un tempo indefinito
davanti al tributo di un amore che aveva superato il tempo e lo spazio.
“Mi
dispiace… mi dispiace non essere stata la persona che
pensava, Sig.
Korhonen… Mi dispiace…”, si ripeteva mentalmente, ingoiando il nodo in
gola
che non voleva saperne di scendere e smettere di soffocarla.
Si mosse a fatica, tornando a
guardare le opere che cambiavano forme e colori diventando sempre meno spigolose e cupi.
Arrivò davanti a quello
che le
tolse il respiro.
“Ikkunaprinsessa”.
La Principessa alla
Finestra.
C’era lei, Lou, in quel
ritratto. C’era lei in ogni suo respiro, in ogni cellula o
pensiero.
La sua anima, il suo cuore, le
sue speranze mai esposte, il suo amore e la sua fiducia in esso in ogni
piccola
e accurata pennellata di colore vivido.
C’era lei come il suo caro
Sig.
Korhonen la vedeva.
Al di là della maschera
inutile che si era costruita negli anni.
I capelli rossi e lunghi che
diventavano un tutt’uno con il cielo stellato.
L’espressione del suo viso,
mentre guardava la neve cadere attraverso la finestra, sognante,
sorridente.
Lei fiduciosa e serena. Col
vestito blu di Nur e la collana con il ciondolo che un tempo era stata
di
Maili.
Lui aveva mantenuto la sua
promessa: le aveva fatto un ritratto, attingendo a ricordi lontani.
L’aveva ritratta anche
senza
di lei presente in carne e ossa. Meglio di quanto potesse immaginare.
Cogliendo
la sua vera essenza.
Sentì il viso infiammarsi.
Avrebbe voluto contenersi ed essere controllata come le riusciva
così bene in
quegli ultimi anni. Invece le lacrime tracimarono e incurante di chi,
guardandola
imbarazzato, si allontanava impercettibilmente da lei in una strana
sorta di
rispetto, tirava su col naso guardando se stessa come avrebbe dovuto
essere.
Con quel quadro il Sig.
Korhonen era come se le stesse di nuovo sorridendo, rimproverandola di
pensare
troppo, di smetterla di parlare e lasciarsi andare ai propri sogni che,
come aveva
detto, a volte potevano rivelarsi migliori di ogni favola mai
immaginata.
Su una targhetta posta in
basso c’era scritto “Private Collection”.
«Sapevo che ti avrei
trovata
qui davanti, prima o poi.»
Sobbalzò al suono della
voce
vicinissima al suo orecchio.
Si girò lentamente.
«Ciao
Matleena…»
«Ehi, che hai combinato ai
capelli?»
La sua ex direttrice la
guardava sorridendo.
«Ci ho dato un
taglio.»,
rispose lei asciugandosi gli occhi.
«Allora: che ne
pensi?»,
chiese facendo un gesto ad abbracciare la stanza.
Matleena non fece nulla per
stringerla in un abbraccio o sperticarsi in inutili convenevoli,
parlandole
come se si fossero viste soltanto il giorno precedente e non fossero
passati
più di quattro anni.
«È
bellissima… Non immaginavo…
Non so che dire.»
«È il suo ultimo
lavoro, sai?»,
disse ancora indicando il quadro davanti a loro.
Lou annuì, tornando a
deglutire.
«Mi spiace non aver letto
la
mail prima…», mormorò debolmente.
«Non avrebbe fatto molta
differenza: non era cosciente da mesi ormai.»
«Sono terribilmente
desolata…»
Matleena in uno slancio
affettuoso le batté la mano su una spalla.
«Lo so.»
La prese sottobraccio
guidandola per il resto della mostra, senza dire una parola.
Stranamente le dava conforto
passeggiare appoggiata a qualcuno che sembrava capirla senza bisogno di
molte
spiegazioni, come se le leggesse dentro le emozioni che si affollavano
l’uno
sull’altra, confusionarie e travolgenti, dandole il tempo di
abituarsi.
«Quanto resti?»,
le chiese
diretta come sempre, dopo un bel po’.
«Pochi giorni. Ho un aereo
giovedì.»
«Capisco. Tre giorni per
rivedere i vecchi amici, visitare di nuovo la città mi
sembrano pochi.»
«Non contavo di rimanere
più
di tanto…», disse Lou a disagio.
Matleena si girò a
guardarla
in tralice.
«Lo sospettavo. Beh, nel
caso
tu cambiassi idea per qualsiasi motivo e decidessi di tornare fra noi e
rimanere, qui hai sempre un posto che ti aspetta.», disse la
donna.
Era più di quanto ci si
potesse aspettare da lei: il massimo della dimostrazione di affetto.
«Lo so, Matleena.
Grazie.»
La sua voce dovette risultare
più fredda di quanto volesse perché la donna non
nascose un pizzico di
delusione.
Di nuovo. Sembrava non facesse
altro che deludere le persone a lei care, ultimamente.
Si fermarono davanti a una
foto in bianco e nero.
C’era il suo caro Sig.
Korhonen intento a dipingere il suo ritratto ancora abbozzato.
Chi lo aveva fotografato lo
aveva colto quasi di sorpresa o tale era l’intento. Come
qualcuno che in
silenzio osservava l’artista al lavoro e avesse voluto
coglierne un istante.
Lou guardò le mani nodose
dell’anziano che stringevano caparbie il pennello e
l’espressione del viso
concentrata. Chiunque avesse scattato quell’istantanea aveva
la sua invidia:
lei avrebbe tanto voluto essere al suo posto.
“Photo by
V.V.”
Solo due lettere. Le sue iniziali.
Inspirò a fondo.
«Sì,
è stato lui a scattare la
foto. Era spesso con Aappo negli ultimi tempi. Passavano molto tempo
insieme.»,
disse Matleena tornando a leggerle nella mente.
«Sono contenta che alla
fine
si siano conosciuti.», disse con voce strozzata.
«Erano molto più
simili di quanto
loro stessi non credessero.», disse Matleena guardando
intensamente la foto.
«L’ho sempre
pensato anche io:
era per quello che mi trovavo a mio agio con entrambi.»
Matleena le strinse nuovamente
il braccio a mo’ di conforto.
«Finisci di guardare la
mostra. Fai con calma, prenditi tutto il tempo che vuoi. Ma prima di
andare via
passa nel mio ufficio. Non osare sparire senza prima
salutarmi.», aggiunse
seccamente.
«Te lo prometto.»
La guardò sollevando un
sopracciglio.
«Le mie promesse fanno
acqua
da tutte le parti, lo so bene: ma tu mi metti una paura fottuta e non
voglio
farti mica incazzare!», disse lei ironica.
La donna rise brevemente.
«Sarà meglio per
te,
ragazzina.», disse girando sui tacchi tornando al suo lavoro.
Lou sorrise a sua volta. Tutto
cambia e nulla cambia.
Guardò la foto.
Lentamente fece amicizia col
pensiero di Ville e il suo tenero Sig. Korhonen insieme.
Li immaginava senza sforzo a
parlare di arte e musica, a bere tranquillamente il tè nei
pomeriggi bui nel
salottino elegante, tra quadri e foto e ricordi.
Si chiese come Ville avesse
visto e vissuto tutta la faccenda del quadro.
Se il suo amico artista
l’aveva dipinta, allora in qualche modo Ville si ricordava
ancora di lei.
Non l’aveva dimenticata
subito
come Amy le aveva detto al telefono.
Trovò un posto libero su
uno
dei tanti posti a sedere, rettangoli bianchi di plastica e acciaio che
fungevano da sedie.
Spianò la brochure
rovinata,
lisciandone gli angoli e iniziò a leggere la biografia
dedicata al suo amico,
alzando di tanto in tanto gli occhi sull’opera citata, per
poi tornare sempre
alla foto in bianco e nero.
Era confortante sapere che
quei due uomini che avevano significato così tanto per lei,
erano stati vicini.
Sapere che Ville era stato
accanto al Sig. Korhonen fino alla fine le riempiva il cuore.
Era una cosa bella. Non era da
solo.
Per qualche istante
dimenticò
anche i suoi sensi di colpa verso entrambi.
Ora che l’emozione di
essere
lì ed essere parte integrante dell’opera ultima
del suo amico stava
diventandole familiare, si prese il tempo di godere della mostra con la
sua
parte professionale.
Le ore passarono in fretta
mentre lei studiava i quadri.
Si rese conto che era ora di
chiudere quando una delle hostess le passò accanto,
schiarendosi la voce,
guardandola in attesa che lei si levasse di torno.
Si alzò in fretta, notando
anche di essere l’unica visitatrice rimasta, e avviandosi
all’ufficio di
Matleena diede un ultimo sguardo alla foto.
Bussò con discrezione alla
porta e la voce della donna la invitò ad entrare.
La trovò a piedi nudi, con
le
lunghe gambe magre appoggiate sulla scrivania.
«Anni e anni di tacchi alti
e
io non mi abituo ancora alla loro scomodità.», le
disse.
«Mai fatto amicizia con
loro.»,
rispose lei, sedendosi di fronte alla donna.
Matleena la studiò
brevemente,
passando in rassegna ogni dettaglio del viso di Lou.
«Allora. Che cosa combini
in
Italia? L’ultima tua mail risale a più di un anno
fa.», la rimproverò gelida.
«Niente di
esaltante.»,
rispose Lou. Non era in vena di conversazioni sulla propria vita.
La donna annuì,
rassegnata:
sapeva che non era il caso di insistere con Lou.
«Ho una cosa per
te.», disse
alzandosi all’improvviso e si diresse verso il quadro che
nascondeva la
cassetta di sicurezza dove conservava i documenti più
importanti.
«È per questo
che ho preteso
che tu fossi qui: ho promesso ad Aappo che ti avrei consegnato questa
cosa
soltanto di persona.»
Tornò alla scrivania e le
porse un pacco piatto, incartato con carta vellutata rosso scuro.
Lou lo prese, perplessa. Era
piuttosto pesante.
«È per me? Sai
cosa c’è
dentro?», chiese a Matleena.
«Ovviamente no. Non ho
chiesto.
Ho soltanto promesso che te lo avrei dato personalmente.»
«Allora
grazie…», disse Lou
non sapendo cos’altro aggiungere.
«Non lo apri?»
«Vorrei farlo quando sono
da
sola, spero non ti spiaccia.»
Matleena alzò le
sopracciglia
ben curate.
«È una tua
scelta, anche se
sono molto curiosa.», ammise ridacchiando.
Lou rispose al sorriso ma con
la mente già altrove: non vedeva l’ora di essere
sola nella sua stanza
d’albergo per poter aprire il pacco.
Lo infilò nella sua borsa
nera: era una fortuna che amasse le borse enormi e capienti.
«È una
retrospettiva
bellissima, Matleena.», disse per spezzare il silenzio.
«Sì, abbiamo
fatto un bel
lavoro di squadra. Tu avresti fatto di meglio, ma non posso
lamentarmi.»
«Sei esagerata, non hai
bisogno
di me per tutto questo!», fece un gesto ampio.
«Uhm. Sono abitudinaria e
non
mi piacciono i cambiamenti, lo sai.», le sorrise.
«Mi piacerebbe prendere un
caffè con te domani, o quando sarai libera. Mi racconterai
le novità e i tuoi
progetti che oggi non hai voluto condividere con me.»,
aggiunse severa.
«Ma certo.»,
ridacchiò Lou
sotto i baffi. Matleena la stava gentilmente congedando,
così si alzò di nuovo.
«Allora a domani. E di
nuovo
complimenti per tutto… posso tornare di nuovo a vederla,
prima di ripartire,
vero?»
«Ma che domande: ovvio che
sì!», sbottò la donna, alzandosi a sua
volta, avvicinandosi a lei.
Lou la strinse in un
abbraccio: Matleena rimase rigida per un secondo, poi
ricambiò la stretta.
«Mi era mancato il tipico
calore italiano!», ridacchiò.
«E
a me il freddo distacco
finlandese!», ribatté Lou, ridendo.
"Angolo
dell'autrice:
Ciao a
tutti! Il tempo passa e infine siamo giunti quasi alla fine. Non mi
sembra vero: ho iniziato questa storia per gioco, non ci credevo
neanche io e soprattutto non credevo che sarebbe mai potuta interessare
a qualcuno.
Nel frattempo sono successe innumerevoli cose e tutte grazie agli HIM.
So che molte pensavano che Lou sarebbe andata al concerto... ma che
autrice sadica sarei se avessi fatto ciò che tutte si
aspettavano? :D
Devo mantenere alta la nomea di bastarda sadica!
Spero che in ogni caso il finale, (che è nel prossimo
capitolo eh!), non deluda nessuno!
Nel caso vi lascio il mio indirizzo di casa: potete venire a
picchiarmi! :D
Voglio
ringraziare le gentili donzelle che come sempre hanno recensito
l'ultimo capitolo:
Dadda_HIM,
Lady Angel
2002, cla_mika, katvil, DarkViolet92, apinacuriosaEchelon,
LilyValo, saraligorio1993, Izmargad, renyoldcrazy.
*Per il titolo al capitolo mi sono ispirata a Stratovarius - Winter Skies
E
niente...ci si rivedere perl'ultimo!
Abbraccio
forte a tutte!
Vi
aspetto nel Gruppo
Facebook
dedicato alle
discussioni e tutto ciò che ci passa per la testa, inclusi
insulti e minacce varie, intervallati a momenti d'ammmore per Lou e
Ville!
Siete
le benvenute.
Alla
prossima!
Baci
baci,
*H_T*
testo.
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