Note:
Ebbene sì, stavolta le note le metto prima,
perché è una storia un po’ anomala,
rispetto alla mia media, e non so quanto potrà piacervi,
visto che non è una
oneshot romantica o tragica o che altro. È una oneshot un
po’ speciale, che ho
iniziato a scrivere dopo un’ispirazione improvvisa venutami
oggi, al lavoro. Mi
auguro che, nella sua semplicità, possa risultarvi
apprezzabile. Come ormai ben
sapete, un commento, anche piccino, è sempre il benvenuto. ^^
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La prima volta che lo incontrai, lui
era fermo di fronte ad
un semaforo rosso, a pochi passi da me, senza vedermi,
perché il suo sguardo
era fisso a terra, perso in pensieri insondabili.
Sapevo di essere insignificante ai
suoi occhi, come lo ero a
quelli di chiunque altro. Ormai ero abituata ad essere ignorata dalla
gente che
mi passava accanto: ero una creatura di strada, non meritavo
più considerazione
di quanta ne meritasse un mozzicone gettato sul marciapiede, o un
cestino dei
rifiuti. Non valevo niente, nemmeno un’occhiata sfuggente.
Lui, però, mi sembrava
diverso.
Aveva un corpo solido, robusto,
forte, coperto da un
giubbotto che aveva un aspetto caldo e confortevole. Ero piccola, ma
avevo
imparato a riconoscere le persone ricche e quelle povere, e lui era uno
di
quelli ricchi.
Ma non sembrava felice di esserlo.
Anzi, non sembrava
felice, e basta.
I suoi occhi erano grigi, o forse di
un verde cupo, come il
cielo di quel giorno, ed erano infinitamente tristi.
Provai una strana sensazione nel
guardarlo, una fiducia
istintiva che non sapevo spiegarmi. Per mia natura, diffidavo dalle
persone,
soprattutto dagli uomini, ma quel ragazzo dall’aria infelice
mi sembrava
stranamente innocuo, pur imponente come appariva, a me che ero
così piccola.
Mossa da non so che intenzioni, mi
avvicinai a lui con
timida cautela. Volevo osservarlo meglio, studiarlo meglio, e speravo
che lui
non si accorgesse di me, perché non volevo che vedesse
quanto ero magra e
sporca, non volevo che anche sul suo viso giovane apparisse quel
disgusto che
avevo visto in tutti gli altri. Non sapevo perché stessi
andando da lui, ma mi
sembrava una cosa logica, sensata, giusta. Non mi ero mai avvicinata
spontaneamente ad uno sconosciuto, prima di lui.
Era autunno e faceva freddo,
l’aria gelida della sera
iniziava a discendere nelle strade accompagnata dall’intenso
buio che mi aveva
sempre fatto paura, e tutto ciò che io desideravo in quel
momento era qualcosa
da mangiare, una carezza amica, una casa calda come quella che vedevo
sempre nei
miei sogni. Ero sola al mondo. Non avevo mai conosciuto mio padre, e
mia madre
era morta da poco, senza lasciarmi altro che un buco squallido in cui
dormire.
Ero disperata, e sentivo che anche il
ragazzo triste lo era.
Il vento gli soffiava i capelli sul
viso pallido, ma lui non
se ne curava. Teneva le mani in tasca e fissava il nulla, chiuso in se
stesso, nella
sua solitudine.
Non dovevo farmi illusioni su di lui:
era troppo bello ed
elegante per me, e percepivo tanta amarezza in lui. Non gli
serviva
altra disperazione, non gli serviva una seccatura come me tra i piedi.
Non mi
avrebbe nemmeno considerata, probabilmente.
Fu questo a farmi spingere
più vicina a lui, sempre di più,
fino a che non gli fui quasi accanto.
Credevo che l’ultima cosa
di cui avesse bisogno uno come lui
fosse una come me, abbandonata ed evitata da tutti, una reietta
destinata a
morire di freddo e di fame nell’angolo di un vicolo buio.
Eppure, quando si voltò e
mi vide, il ragazzo dagli occhi
tristi mi sorrise.
“Ciao,
piccolina,” mi disse. Aveva una voce tiepida e
profonda, da adulto, che mi suonò piacevolmente
rassicurante. “Cosa ci fai qui
tutta sola? Dov’è la tua mamma?”
Capivo la sua lingua, la avevo
imparata ascoltando la gente
per le strade, giorno dopo giorno, ma il suo tono dolce mi era nuovo.
Nel mio
vagabondare, non avevo mai sentito nessuno parlare così.
Aprii la bocca per rispondergli, ma
non ne uscì che un suono
roco ed indefinito. Avevo perso la voce dopo aver pianto e chiesto
aiuto per
giorni, senza essere ascoltata. A nessuno importava di
un’orfana senza nome.
Provai di nuovo a rispondere al
ragazzo triste, ma ero
completamente muta, e forse lui avrebbe pensato che io avessi qualche
malattia, che
era poco consigliabile toccarmi. Nonostante questo, però, si
chinò ed allungò
piano una mano verso di me, ma io mi ritrassi, spaventata. Non ero
abituata ad
avere a che fare con le persone.
“Non avere
paura,” mi rassicurò con un altro sorriso.
“Voglio aiutarti.”
Da vicino, il suo viso mi sembrava
ancora più bello, i suoi
occhi ancora più malinconici.
Tentennante, tornai verso di lui e mi
lasciai prendere in
braccio. Come avevo immaginato, le sue mani erano calde e forti, ma
delicate.
Mi tenne tra le sue braccia, accarezzandomi la testa. Aveva un tocco
gentile,
un profumo gentile.
Era buono, ormai ne ero sicura.
“Hai fame, vero?”
mi chiese, guardandomi negli occhi. Anche
se non avevo voce, la mia magrezza rispose per me.
Mi resi conto di stare tremando solo
quando lui si aprì il
giubbotto per avvolgermi al suo interno. Si stava bene, lì
al caldo, il caldo
di un abbraccio. Era una sensazione che avevo dimenticato.
“Sta’
tranquilla,” mi sussurrò. “Non ti devi
preoccupare più
di niente,” mi promise. “Ora andrà tutto
meglio.”
Potevo sentire il suo cuore battere
sotto di me, la testa
appoggiata al suo petto vigoroso che si alzava ed abbassava ad ogni suo
respiro.
“Vedrai,”
aggiunse, attraversando la strada per raggiungere
un’auto nera che aprì, per poi entrarvi.
“Sarai felice, con me.”
Felice…
Era una parola che non conoscevo. Non
la avevo mai sentita,
prima, non avevo idea di che cosa fosse, cosa significasse.
Come
sarà essere
felice?, mi domandai, mentre il ragazzo triste mi adagiava
delicatamente
sul sedile accanto a sé e si toglieva il giubbotto per
coprirmi, e poi, dopo
aver fatto partire l’auto con un rumore che trovai
insopportabile, lui mi disse
qualcosa che mi fece capire che, qualunque cosa significasse, felice doveva essere una bella cosa:
“Andiamo a casa.”
***
Sonnecchio tranquilla sulla
poltroncina, dopo aver fatto
merenda con un po’ di yogurt alla vaniglia, il mio preferito.
Me lo ha dato
lui, perché sa che mi piace. Lui sa sempre cosa mi piace e
da quel giorno,
quando mi ha raccolta per strada e mi ha adottata, non mi ha mai fatto
mancare
nulla.
Dice sempre che mi vuole bene, mi
chiama Piccola ed ora è il
mio papà. È più di un anno che vivo
con lui e i suoi amici, e tutti mi
coccolano e mi permettono di fare ciò che voglio, anche se
qualche volta ho
combinato qualche guaio, ma loro dicono sempre che non riescono ad
arrabbiarsi
con me.
Adesso so cosa vuole dire felice, e niente mi è mai
piaciuto così tanto.
Il bus oscilla tranquillo mentre
sfreccia sull’autostrada e
fuori il sole primaverile sta cominciando a calare. Attorno a me, i
ragazzi
stanno giocando rumorosamente con uno dei loro videogiochi e ridono
come se
fosse la cosa più divertente del mondo. Lui non
c’è. È salito poco fa al piano
di sopra dopo che il suo telefono ha squillato e non è
ancora tornato, ma lo
farà presto. Non ama stare a lungo al cellulare.
Disturbata dagli schiamazzi dei
ragazzi, mi stiracchio un
po’ e mi alzo, mettendomi a sedere ancora assonnata, mentre
alle mie spalle
sento che lui sta arrivando.
“Guarda guarda chi si
è svegliato dal suo pisolino…” mi
dice, prendendomi in braccio, e mi dà un bacio su una
guancia. “Razza di
dormigliona!”
Fa più fatica, ora, a
sollevarmi, perché sono cresciuta e
non sono più magra come una volta. Mi dice sempre che sono
diventata proprio
una bella signorina.
“Georg, piantala con le
moine, o verrà su capricciosa e
viziata come lo zio Bill!” lo ammonisce Tom, dalla sua
poltrona.
“Ormai è
rovinata, vero Piccola?” mi dice Gustav, con una
carezza affettuosa. “Sei già una diva in tutto e
per tutto, servita e riverita
come sei.”
“Ha preso da me,”
si vanta Bill, guardandomi dritta negli
occhi. “È vero che hai preso da me?” Io
gli rivolgo uno sguardo contento.
“Certo che hai preso da me!”
Accoccolata beatamente tra le braccia
di Georg, guardo
all’insù e lo vedo che mi sorride, e i suoi occhi
non sono più grigi e tristi
come quel giorno. Ora sono di un verde brillante e, quel che
più conta, sono
sereni. Anche lui, adesso, è diventato felice.
“Sei l’amore di
papà, vero?” mi dice, facendomi il solletico
sulla pancia. “Dimmi quanto mi vuoi bene.”
E io, crogiolandomi nelle sue coccole
e nella sua voce
dolce, non posso far altro che stringermi forte a lui e fargli tutte le
fusa di
cui sono capace, facendolo ridere.
‘Grazie di
tutto’, gli miagolo ogni volta, e anche se lui
non capisce la mia lingua come io capisco la sua, so che sa cosa gli
sto dicendo.
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