Tempo antico 9
Note:
Finalmente riesco ad aggiornare! In questi mesi ho stravolto la trama,
fatto la maturità, iniziato un qualcosa di nuovo e diversi altri
progetti che potete trovare sul profilo. Spero mi perdonerete per il
ritardo, difficilmente abbandonerei una Fiction a cui sono tanto
legata. In cambio, lasciatemi un commentino- è essenziale per me
sapere cosa sto combinando, capire se ciò che scrivo può
dare qualcosa a qualcuno e se vale la pena continuare.
Passando al capitolo: abbiamo due comparse già preannunciate nelle note precedenti, Arinne (Antica Britannia) e Isabél (Iberia).
Le vedremo più spesso in seguito, e mi piacerebbe sapere che
pensate di personaggi come loro, oltre al ruolo che ricopriranno poi.
Vi ringrazio di cuore, buona lettura!
“Le carezze non son mai state tanto dure e soffocanti, amico mio.
Là –per Dio!- ho lasciato il mio cuore giovane, bestemmie,
lacrime! Avresti dovuto prender la tua parte, erano anche per
te.” –Lucio, ad un amico.
Giugno 1758, osteria delle quattro stagioni, ora ventunesima
L’osteria delle quattro
stagioni ospitava l’anima del farabutto, del brutto e della
polvere, della birra e del vento di qualsiasi contrada e altra
cittadina; s’incastrava a Torino per puro caso, e non v’era
uno solo degli avventori che si sentisse fra la morsa dei Savoia se
sedeva sui tavoli beccati e unti- di birra e di alcool, delle curve
delle belle donne giunte dai quattro angoli della terra, a ricordare
che di bello v’era tutto o ovunque si cercasse.
Il locale portava un paio
d’occhi ciechi, le finestre dai vetri colorati di oro e porpora e
verde che lasciavano solo le ombre a passare pretenziose da fuori;
giusto s’intravedevano i corsetti stretti di chi serviva piaceri,
lo slancio dello stanco avventuriero che posava mano sul proprio
boccale. Era l’udito ad ingannare il luogo, l’olfatto a
renderlo quasi appetibile a chiunque avesse abbastanza fame da ignorare
i latrati e le canzonacce che solevano cantarsi solo in compagnia. Chi
avrebbe teso l’orecchio sarebbe andato incontro al sussurro
d’un paio di amici, al gemito degli amanti e le porte delle
camere che andavano chiudendosi frettolose, timbri di voce mai normali
e atoni, un gorgogliare che non conosceva accento udibile altrove.
Lucio s’incamminò
all’entrata tenendosi la casacca da caserma, scintillante e
armata e bellissima; gli pareva sentire il profumo delle vesti Persiane
che Morad si portava appresso e il suo cantare di imprese mirabolanti-
il romano ghignò perché furioso, felice e adrenalinico di
trasformare le proprie mani in un paio di pugni che non erano tanto
concordi con la giustizia. Connell seguì il viso di
Isabél, che diceva di essere catalana e aveva la pelle bruna, ed
era semplice tanto quanto bastava per dimenticare che Ariovisto con lui
non ci voleva stare- il giovane fauno era stato rapito per la prima
volta in vita sua, e il cuore adolescente tamburellava sconvolto da
simili voglie. Avrebbe conosciuto il suo desiderio come Arinne, e non
avrebbe più staccato gli occhi dalle lunghe trecce rosse che si
sarebbe prodigata a sciogliere solo per vedere il volto pallido fiorire
in una maschera di spavento e meraviglia. Il giovane guerriero biondo
ignorava sé e i ciottoli irregolari- l’osservava tenendo
il fiato in una saccoccia, estraneo allo sguardo curioso di Lucio, che
era un lupo ed era furbo, e aveva capito più di quello che
avrebbe dovuto.
Iago non smise di cantare. Fu un bene, poiché ai tre stupidi
omini che si lasciavano prendere dalle emozioni e dalla vita tutto
parve di norma e regola- e fino a che l’accento francese
dell’amico avrebbe scandito il pulsare di mani, cuore e
pantaloni, tutto andava bene. Attorcigliava le erre
e univa gli accenti di parole diverse, andando a creare una sinfonia
che non era invero di nessuna lingua, ed era comunque perfetta: Iago
andava là per dar voce al meraviglioso dono del canto che Dio
aveva voluto che usasse in più modi, per aver sue donne, soldi o
il semplice ed elementare cardine filosofico di quattro disgraziati
senza alcuna percezione del mondo reale.
Si abbassava l’occhio del
sole sulle guglie della Torino magica e oscura, gotica e puntuta e
ancor più potente se buia- piena degli anfratti ove chinavano il
capo i fantasmi e le streghe. Giocava a ridere illuminata dal sole
rabbioso, baciando con imbarazzo il cielo ancora roseo, pallido e viola
dopo un sospiro che fece da corona all’orizzonte caldo
dell’estate. V’erano le lucciole a cantare del sole,
fluttuavano fuori dagli schemi di qualsiasi casa o strada. Ronzavano
pigre sperando –un poco, quel che basta- di somigliare alle
sorelle stelle.
Vi fu un sussulto conciso di
un’atmosfera già ubriaca, e parve più il salto
della dama in una giga- la musica non si smorzò, e persino
l’ometto tremulo che cerca Gin scadente e nulla più ha
visto le rose dell'Accademia appuntate alle divise dei soldatini, lo
spadino di guardia e la rocchetta al fianco; uno di loro ha la
baionetta, ed è rosso ed enorme, chiama pericolo e le terre
della bassa Irlanda, dove si dormiva più in una birreria che con
la moglie.
V’erano foglie d’alloro
secche appese alle travi –zuppe di freddo e nebbia e di alcool-,
e Iago le scelse per cantare ed intonare una vecchia canzone dal
parlato tanto verde da sembrare un epilogo e un commiato adatto alle
piantine secche che l’osservavano tanto curiose.
S’iniziò strimpellando una pianola sfatta e fumata quanto
gli avventori, placida e abbastanza fortunata da incontrare ogni tanto
qualcuno che coraggiosamente inforcava i tasti -ancora bianchi!-,
e iniziava a dare l’accompagnamento ai ventri contorsi in risa,
al parlare sguaiato e sputato fra i denti che dava sostegno al luogo-
forse più dell’oro e dell’argento. “Oh yew tell me Sean O’Farrell, tell me why you hurry so!”, un ibrido di suoni e cantilene aggrappate con forza sovrumana alla langue d’Oil
delle sue terre; ma nessuno fece caso, poiché la voce del
giovane francese dai capelli di paglia avrebbe fatto piangere Angeli e
Santi.
Un paio d’operai andarono
incontro al suo fare, e con loro un ragazzo tinto dei più focosi
colori dell’Asia. Portava la porpora violenta ed il ciano ancor
più denso a decorare il petto, l’oro sibillino ad
incrociare i polsi fini e le spalle, la fronte colorata dal catrame
soffocante dei capelli e la mano tesa a mezz’aria, quasi si
aspettasse d’essere ancora baciata. Non chinava la testa, Morad,
né per guardarsi il petto o i piedi, e così lasciava che
altri facessero per lui- quale Lucio, che osservava munito da un
ghignare spaventoso la scimitarra, che odorava di vecchio e
dell’antico, e forse aveva qualcosa da insegnare pure alla
vecchia via del Decumano Sud.
- Speravo d’incontrare il tuo harem,
Morad!- il lupo si muoveva sugli stessi assi dell’asiatico, che
erano sconnessi e fitti di genti che amavano guardar in alto, ed era
elegante e spartano in più modi, portava in gola il dono
dell’orazione pungente ed era afflitto da una determinazione
votata al successo e al dio Saturno, tanto era pesante. Raccolse i
ricci fra le dita tozze, lasciando lo sguardo a sibilare sul volto
sbarbato di quel ragazzetto che voleva farsi vedere e conoscere come i
vecchi sultani d’oriente. Era nero e curvo, e Lucio subiva il
puzzo del narghilè.
-Voglio vederti cadere, Lucio.-
“Serpente, vipera!”, e andò disegnandosi una calma esagitata sul volto bruno, il riso forte sotto la barba scura, schiuso a mezzaluna, -Voglio la tua testa sul banco del tribunale dell’Accademia.-
Il corvo alzò il mento e le
labbra morbide, stirando le proprie ali nere e lo sguardo vivo
d’un demone- e questa era l’opinione di Lucio, che mai
aveva avuto modo di vedere con obiettività il proprio mondo,
tanto da disegnarsi i propri problemi da sé. Suonarono parole
aspre e di malaugurio, e vennero percepite come accartocciate e
nauseabonde dall’orecchio di chiunque e dell’altrui, che
curioso si posava sui vestiti di giovanotti tanto inconsueti e
spavaldi. Un vecchio manovale, un avvoltoio piegato sul proprio ventre,
pensò fossero pure tanto stupidi oltre che belli, e senza
saperlo concordò con una dozzina d’operai che avevano mani
così sporche da non poterle più lavare.
- Voglio
il nome della tua casa fuori da Torino.- sistemandosi la giubba
insolita e coperta di veli, iniziò a somigliare in maniera
raccapricciante ai volti presi nei Giardini Pensili, al caldo afoso
d’una terra ricca che portava ancora sul palato, insaporita dal
miele più di altre. S’accese tardi l’occhio
scurissimo e furbo, perché il furore e lo scoppiettare che vide
in Lucio provocò in lui un singulto; tanto era vivo come
multiforme, dalla potenza vigorosa dei titani di cui si narrava a
partire dalle fredde terre di Sif.
Furono sguainate le fauci bianche del lupo, torte in
un’espressività poco ingannevole: s’avvicinò
sino a potergli mangiare il volto, i capelli, accartocciare con una
zampata le ali nere e unte di qualsivoglia vizio.
- Sei un cane, Morad.- “Un cane!, un vile che volta la schiena alla mia spada!”,
lo pensò con la spontaneità di chi si crede nel giusto,
gonfiandosi del tremore furibondo del fuoco e dell’anima ululante
della tempesta.
-Fanciullina,
piantala di strisciare il culo a questa maniera.- Connell parlava col
suono che faceva la macina schiacciando il grano, irrobustiva la voce
con termini tanto schietti da far bruciare le orecchie; non era suo
compito dar vanto d’eleganza, e spesso s’impegnava nel
cantare come avrebbe fatto una lamiera scossa e percossa dagli spadoni,
borbottando un’invidiabile varietà di parlato grezzo e
occasionale. Muggiva e barriva al posto di parlare come si conveniva, e
andava giustificandosi delle attenzioni mancate di Ariovisto “per chi, poi? Una prostituta da capelli rossi?”.
Teneva il muso animale accartocciato sotto le sopracciglia spesse, la
barba smozzicata veniva turbata dalle mani scure e gentili di
Isabél- buona e cara e bella, dal viso dolce e i palmi grezzi,
abbracciata dai gesti bruschi di un soldatino irlandese. Veniva
dall’anziana Toledo, e non v’era nessuno che aveva occhi
tanto misericordiosi e lucidi come i suoi, ed i sospiri tanto profondi
e sporchi di farina. Ascoltava con un orecchio Connell, che conosceva
da tempo in tutti i modi più intimi possibili, e con l’altro il cantare allegro di Iago che era giunto sulle note basse latrando la parola moon più volte, prendendosi gli applausi gravosamente secchi di pochi intenditori già alticci.
- Arinne è molto bella.- ballava e teneva con rigore il fisico minuto, era una fiamma piroettante.
- Io ho lo stesso colore dei suoi
capelli…- la mano della volpe andò a salutare le curve
morbide di lei, tastò Isabél con irriverenza ed una sana
frustrazione –come andava pensando-, facendo balbettare le dita
sui nastri del corsetto, che non voleva saperne di allentarsi quel poco
che avrebbe voluto lui. –… Eppure non mi guarda così!-
batté poi un palmo sulle cosce, pizzicandosi come il visino
selvatico di Arinne pizzicava le gote tirate di Ariovisto, che era
impettito e seduto davanti al compagno ma che sentiva e vedeva solo
quello che il cuore d’un ragazzetto comanda. Aveva il fiato e
polmoni gravidi d’un interesse genuinamente appena fiorito, pieno
delle labbra di una piccola folletta rossa che non si schiudevano mai,
del saltellare rapido attorno ai tavoli- era sfuggente, fatta di vento!
Anche il guerriero boccheggia se
preso alla sprovvista, ed è costretto ad abbandonare
l’arma ed il cuore alla cintola, subendo ciò che
c’è di bello e brutto al mondo; la giovane gli
passò attorno, osservò il volto contratto schiantato sul
tavolo dell’omino biondo, che seppur bello era più simile
a quello di martire messo in croce. Non le piacque, quell’uomo
non la guardava.
- Cara, fermati, fermati un attimo!-
Isabél lasciava i desideri
di Connell realzzarsi sulla vita, sul petto, sull’imminente
scelta di una camera, e teneva per sé un piccolo riguardo
capriccioso ma docile- prese lo sguardo di Arinne e indicò
Ariovisto, il broncio scolpito agli angoli delle labbra fini, fra le
sopracciglia corrotte dalla preoccupazione e prese in giro dal riso
faticoso dell’amico, divertito dall’improbabilità
del caso e da un nastrino d’un busto che oramai aveva ceduto. "Fermati a dar compagnia!”, e Ariovisto non la sentì bene, perché Iago aveva rinforzato la gola e
la fata rossa aveva gli occhi d’una cerva e le lentiggini sul
musetto fine, era una triste ribelle che meritava il capo altrui
rispettosamente chino. Così fece il tedesco, prima del secondo giro di valzer.
Furono le undici, e l’osteria
prese fiato di nuovo, in una sera presa dal balbettare allegro
d’un vulcano: dopo un tonfo arrivò il ringhiare di Lucio,
che parlava di madri, figli, Dei e porci tutti assieme, in un’ouverture di rabbia che fece scappare un mezzo applauso a Connell, forzato a staccar le mani dall’ispanica.
Si spaventò Iago,
riattaccando a suonare come meglio poteva; lo fece Arinne dopo aver
visto per bene il biondo fattosi freccia e balzare in piedi scostandosi
dal tavolo, arraffando con decisione i rantoli che facevano a loro modo
la musica del luogo- ed erano un poco italiani, latini e volgari,
animali quanto bastava.
Arrivò alle scale, senza
accorgersi che le lunghe trecce d’una donna lo seguivano curiose
e feline. Queste lasciarono i baci caldi di Isabél, le risa che
facevano da risacca, il modulare molle di un francese che ancora si
chiedeva che poteva farci una tastierina simile alle quattro stagioni-
ella aveva visto e viaggiato molto più di lui, conoscendo il
mare tempestoso e saggiando le spezie d’oriente!, ma questo Iago
non poteva certo saperlo.
Il piano superiore era modesto,
perché non doveva certo soddisfare i piaceri d’un esteta.
Curava con sguardo silenzioso sei letti e qualche finestra di meno, i
piedini frettolosi delle prostitute e i compagni che le sceglievano.
Contava poca fedele mobilia, metà della quale era riversa nel
corridoio, morente e beccata e spaccata in più punti, trafitta
dal fare volgare di due sciocche bestie.
- Lucio?!- la voce di Ariovisto non
tradiva la sua gioventù in alcun modo, era ancora limpida e
aveva tempo per corrompersi di ogni cosa, e tintinnò grave sugli
ansiti di un palese scontrarsi. Moderò la camminata, si fece la
lince che con stupore veniva seguita al campo, poco prima che venisse
nominata cecchino d’insaziabile bravura.
-Perché non mi guardi?- un
cinguettare deciso e sporco gli gonfiò le orecchie rosse,
andando ad infrangersi sulle membra ora rigide e colte dallo spavento;
Arinne più che guardarlo annusava il suo profumo, ed era
scattante e nervosamente selvaggia nel suo fare veloce, distante
dall’odore di campo di Liina e lo sguardo placido che gli volgeva.
- Non ho tempo.-
- Perché non mi guardi?-
tirò la divisa, il naso orgogliosamente portato
all’insù le carezzava il broncio, di certo non nato per
una rissa, quanto dall’incomprensione testarda e offesa che si
trascinava a dietro: Arinne era rossa, rossa la sua anima furiosa
piegata dalla disgrazia. Aveva tenuto la testa china fra le gambe di
più d’un uomo accogliendo spinte accompagnate solo da un
paio di povere lacrime, eppure restava fiera e feroce e indomita.
- Sei bella.- lo sguardo smaliziato
di Ariovisto le fece piacere, poiché da tempo aveva smesso di
definirsi donna, tanto che le trecce vaporose e lunghe avevano iniziato
ad irritarla, -ma non ti voglio così. Non sei il mio premio.-
Se la bella fata d’Albione si
tendeva commossa, Ariovisto accennò al suo cuore di morire un
paio di volte, rinfrancato da una limpidezza che avrebbe potuto gestire
solo a quella maniera- che de facto,
aveva logica tutta sua. Non trovò male in un agire tanto franco,
nemmeno quando la ragazza lo prese vicino scacciando il pensiero del
compagno, suggerendogli che no, “nemmeno tu sei mio cliente”,
baciandolo e spingendolo verso una camera, le manine forti a premere
sul petto gonfio di sorpresa. Lo ebbe fra le braccia preso da un panico
languido- le fece tenerezza, e l’avrebbe lasciato respirare per
conto suo se non fosse stato bello come quegli dei di cui aveva sentito
da piccina, e ancora dubitava fossero veri o meno.
Si sentì stringere i
capelli, e il biondo cedette alla pressione sulle sue labbra, che erano
gentili e timide non solo per l’intuibile inesperienza. Il
disegno dei due andò complicandosi, e le mani non ebbero
più pudore di andare dove preferivano, lo sguardo offuscato
dall’intrecciarsi stentato di un abbraccio infinitamente
semplice, posato sui fianchi e stretto ai seni di lei- che non ignorava
nulla di Venere e dell’amore, e colse il sospiro del giovane quando gli slacciò i pantaloni bianchi della divisa, “non esiste altrimenti!”.
Li abbassò con uno strattone che pareva esser stato chiesto, e
si prese tutti i gemiti dovuti- accolse i morsi, le domande soffocate e
spezzate, un tremolio dolce e sincero.
Ariovisto non si accorse che Arinne
rimase vestita, e null’altro poteva far a riguardo: teneva la
testa forzata verso l’alto, le labbra morbide bisbigliavano sul
suo ventre e solo gli occhi della giovane fata incontravano di tanto in
tanto le stelle curiose, impegnata com’era a lasciare che
Ariovisto facesse uscire dalle proprie labbra quello che a lei rimaneva
bloccato in gola.
Il secondo piano ospitava le
carezze date con una sciabola e botte che si schiudevano in un bacio-
poté giurare, suo malgrado, che i sospiri e ansiti, i bisbigli
che udì impicciandosi, avevan tutti la stessa tremenda natura.
Accadde poi un fatto curioso, di
cui si san vicende e fini solo a metà, come è lecito in
questi casi- lo dicevano le sei stanze della seconda pianta, che
avevano assistito ad un movimento interessante, una musica piacevole ed
un epilogo che sapeva di fumo e carbone.
Videro Lucio, che aveva il volto
pesto e riusciva ad essere comunque bello perché vincente e
arrabbiato, lasciava le botte a macinare e il sangue bagnare le labbra
livide; chiamava Ariovisto, canticchiava e borbottava per sé,
quando una piccola dama rossa uscì picchiettando prima una
porta, poi saltellando com’era suo solito fare. La seguì
l’occhio, sorridendo come un gattone placido.
-Ariovisto!-
Stava sullo stipite, e pareva fosse
reduce dalla medesima lotta- lo dicevano i capelli scompigliati, il
volto che pareva voler scoppiare e prendere aria, la divisa maltrattata
e le braghe ancora da tirar a posto come dovuto. Divenne una statua
scossa e percossa, e a Lucio piacque.
- Mi abbandoni per una donna?-
ridente gli fu vicino, e lo trovò bello. Non aspettò
risposta, poiché era inutile farlo: l’amico pareva aver
visto la morte, la vita e tutti i suoi miracoli assieme, stravolto dal
cuore e dalla passione per la prima volta in vita sua. Il romano ebbe paura
quando si sporse a baciarlo, e non tentò di eludersi poi,
credendo di non aver desiderato un gesto tanto pacato e sfuggevole- un
reagire tanto inconsueto avrebbe voluto tenerlo per qualche sua
fantasticheria, eppure le labbra ancora dolenti forzavano quelle
dell’altro in un bacio, le mani trattennero i capelli biondi per
poco.
Non guardò più i suoi occhi verdi e malinconici. Anche la sua abile voce da oratore si fece secca.
- Mettiti a posto e vieni giù.-
Il conquistatore prende ciò
che piace, e non si rammarica del proprio sdegno- non è avvezzo
alla limpidezza, e chiama umiliazione la propria paura. Avrebbero
concordato a favore degli spettatori critici e precisi, non sapendo poi
a chi dare l’onore di un forte applauso alla stupidità,
magari lasciando spazio per un giubilo sincero al sentimento che
portavano nel petto i giovani, alla rabbia e all’amore- allo
spavento, al dubbio e al sospiro che una mente fresca poteva dare- e
alla musica di Iago!, che, per Dio, è tutto fuorché male.
Glossario:
Lucio Tullio Cincinnato (20 anni): Impero Romano
Ariovisto Beilschmidt (17 anni): Magna Germania
Morad Jahandar dei Farrokhi (21 anni): Persia
Olympia (24 anni): Magna Grecia
Iago (21 anni): Gallia
Connell (20 anni): Configurato come padre dei Celti, personaggio creato da Kochei che mi ha gentilmente dato il permesso di poterlo utilizzare nella mia fic.
Liina (16 anni): Aestii
Diederik (23 anni): Scandinavia
Arinne (17 anni): Antica Britannia
Isabél (22 anni): Iberia
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