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NEVERVILLE
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Mamma mi mette a letto
prima del solito... Non protesto, sono stanca, ho giocato fino a
sfinirmi.
Ho anche raccolto foglie e ghiande, enormi, lungo la strada del bosco,
e poi
a casa le ho colorate con le tempere...
Si avvicina
Natale, e io ho quasi 8 anni. Ho i capelli lunghi e lisci, fino alla
fine
della schiena, e mamma me li pettina, come sempre, prima di andare a
dormire. Mi guardo allo specchio, mentre lo fa. Le somiglio
così
tanto.
Tutta la mia infanzia l'ho vissuta a Neverville, e a quel tempo pensavo
ancora che ci avrei trascorso la vita intera.
Mi sveglio agitata, forse ho fatto qualche brutto sogno.
Ho sete, e mi alzo con l'intenzione di andare in cucina a chiedere, per
l'appunto, un po' d'acqua.
Mi fermo sull'uscio, esistante. Sento delle voci che provengono dal
salottino...
E' appena un brusio, in realtà.
La fronte appoggiata allo stipite della porta, un rettangolo di luce
soffusa e poco più.
Vedo la sagoma di mia
madre che attraversa il mio spicchio di visuale ... scorgo il suo
sorriso, sembra che parli con qualcuno... con qualcuno seduto sul
divano... deve essere un uomo, perché sono mani da uomo
quelle
che d'un tratto la trattengono per un braccio ... mia mamma
ride contro le nocche della mano, si abbassa verso di lui... e chiudo
la porta,
per non vedere oltre.
Sogno una strana immagine... un disegno. Qualcosa di rosso racchiuso in
qualcosa di scuro.
Un tatuaggio, sì, deve essere una specie di tatuaggio.
Appena
intravisto, eppure impresso, indelebile, nella mia mente fanciulla.
L'unica traccia che mi rimane dell'uomo che, quella sera, amò mia
madre.
La sua mano si insinua tra i capelli, mi sfiora la gota e
scivola sulla nuca, appena un istante prima che le sue labbra sfiorino
le mie.
E assaporo questo contatto morbido, quasi trattenuto,
mentre la tensione scorre sulle sue dita, a tracciare piccoli
cerchi sulla pelle sensibile del collo.
Mi sento precipitare, una vertigine le sensazioni che lui risveglia
senza osare oltre, se non tornare su di me, a labbra audaci e curiose,
cercandomi ancora, invitandomi a fargli spazio.
-E' sbagliato-, mormoro contro la sua bocca, il cuore che ha preso un
ritmo tutto suo.
-No-, risponde, scuotendo la testa, trattenendomi un poco, quasi
temesse che possa fuggire via, come prima, nella sala azzurra.
Non lo respingo, non ce la faccio, e chiudo gli occhi, e
così un poco gli sfuggo davvero, mentre raduno i pensieri,
tacitando quello che il mio corpo, a modo suo, sta tentando invece di
gridare.
-Tu non sai cosa significa perdere chi si ama-, insisto, inesorabile.
Allora è lui che si stacca, ma è solo un attimo
il senso di vuoto che mi assale, prima di ritrovarmi ravvolta nel suo
abbraccio, premuta contro il suo petto.
Pete sa che ho ragione.
Io ho perso tutto quello che avevo, a 8 anni.
Pete è nato su una Colonia. Sua madre incinta
lasciò la Terra, con suo padre, non abile per essere
arruolato, al tempo delle prime Migrazioni. E ha vissuto
lassù, con loro, su un pianeta gemello del mio,
artificiosamente reso ospitale e abitabile, fino a che in
età da soldato non è entrato all'Accademia, come
tutti gli altri, qui, del resto.
Così mi ha raccontato, una delle tante volte che ci siamo
ritrovati a parlare, un poco discosti dagli altri, le parole misurate e
poi in caduta libera, come quando ti senti al sicuro.
Io sarei nata qualche anno dopo di lui, invece, sulla Terra... e il
resto, quasi tutto, lo sa.
-Mi stanno cercando-, annuncio, sollevando il mento dalla sua spalla,
dove la sua stretta mi ha portato ad adagiarmi, vincendo con dolcezza
la mia titubanza.
-Cosa... ?-, chiede, un poco confuso, perché non ha
sentito nulla, o forse perché sta sentendo troppo, qui con me,
per accorgersi del resto.
Non può udire la voce che sento io, mi arriva ovattata come
quando si tiene la testa sott'acqua, ma è così
che io percepisco le voci, quando sono ancora inudibili per gli altri.
Di solito le ignoro, e restano un rumore di sottofondo, un
borbottìo confuso, cui non presto ascolto. Ma stavolta non
posso far finta di niente.
Mi guarda in attesa di una spiegazione, gli occhi che indagano i miei,
la sua mano ancora ad accarezzarmi il viso.
-E' Jody, mi sta chiamando, e sta per arrivare qui-.
Quando la porta della Sala bianca si apre mi sto risollevando dalla mia
chaise.
-Ahhh, sapevo di trovarvi qui-, dice, baldanzoso.
Getta uno sguardo rapido a Pete, e uno a me.
-Neverville, ti vuole il Capitano-, riferisce.
Alza le spalle, anticipando la mia domanda. Già, non
può certo sapere il perché di questa convocazione.
Annuisco, semplicemente, ed esco dalla stanza, lasciandoli soli.
Un passo, e già mi manca.
Un passo, e già sento le loro voci.
Sono molto amici, è logico che parleranno di me... che Jody
insinuerà qualcosa -niente che non abbia immaginato
già-, e Pete gli chiederà consiglio, lui che mi
conosce così bene... o forse niente di tutto questo.
Non lo voglio sapere.
Ho il cuore in subbuglio, il suo calore stampato sulla pelle, il suo
sapore sulla lingua, stravolto da un ultimo bacio.
Accelero l'andatura, e svuoto la mente.
Questa giornata, sulla Motherhead,
sembra avere in serbo ancora delle sorprese, per me.
Arrivo nella Sala comandi, il Capitano è in piedi contro i
monitor che brillano nella penombra della stanza.
Tiene le mani dietro la schiena, la posa fiera, mentre controlla che
tutto proceda per il verso giusto.
-Capitano... -.
Si volta, mi guarda con condiscendenza, gli occhi aguzzi.
-Domattina, verso le 8, tempo terrestre, faremo scalo per i
rifornimenti-.
Mi dà di nuovo la schiena, per sfiorare uno schermo e far
apparire una mappa, un accrocchio di puntini e numeri e traiettorie.
-Qui-, indica con il dito, un puntino identico a tanti altri, il cui
nome non aggiungerebbe nulla all'essenza delle sue parole.
Mugolo, non so dove vuole andare a parare.
Conosco la nostra meta, e conosco le mappe per quel tanto che compete
al mio ruolo, e non invidio i suoi sottoposti che invece devono
conoscere a occhi chiusi ogni pixel di quella schermata, e delle
innumerevoli altre possibili.
-E' previsto anche lo sbarco per l'equipaggio, e scenderai anche tu-,
chiosa.
Si volta di nuovo, immaginando forse la mia espressione sorpresa, e non
gliela lesino affatto.
-Ma io ho ricevuto raccomandazioni precise di non abbandonare
l'astronave... per la mia sicurezza-, ribatto.
Sorride, e rivedo quello sguardo intenso che sembra quasi coccolarmi,
ogni volta che mi investe.
-Mina, è un mio ordine e non si discute-.
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Grazie a chi passa da questa mia storia, grazie di cuore a chi lascia
un commento.
Tornerò nel fine settimana, per dedicarmi il 26 a un contest
indetto sul fandom di Lady Oscar (che è la mia prima casa).
Un abbraccio e a presto!
Amantea
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