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Autore: Amantea    23/11/2015    11 recensioni
"Un uomo legge il giornale seduto all'interno della sua automobile, ogni mattina.
Una donna anziana non mette mai il cappotto, nemmeno nelle mattine d'inverno più fredde.
Mia madre mi tiene per mano mentre camminiamo spedite, è presto, ma non poi così presto, me lo ripete, dolcemente, mentre mi tira un po', lungo la salita, che è faticosa per le mie gambette muscolose ma corte, rispetto alle sue. Mia madre ha lunghe gambe, dalla falcata decisa, e un poco nervosa.
Salutiamo i passanti, pochi in verità, perché qui, a Neverville, come le sento ripetere spesso, ci sono poche anime, e quasi tutte perdute."
Un'avventura negli spazi infiniti, una missione da compiere, narrata dalla voce della protagonista, che non è quello che sembra, ricordando la propria infanzia, temendo quello che sarà ...
La mia prima storia originale, prendendo a prestito la fantascienza per scavare nell'animo dei protagonisti.
Genere: Azione, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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-4-
NEVERVILLE


-4-



Mamma mi mette a letto prima del solito... Non protesto, sono stanca, ho giocato fino a sfinirmi.
Ho anche raccolto foglie e ghiande, enormi, lungo la strada del bosco, e poi a casa le ho colorate con le tempere...
Si avvicina Natale, e io ho quasi 8 anni. Ho i capelli lunghi e lisci, fino alla fine della schiena, e mamma me li pettina, come sempre, prima di andare a dormire. Mi guardo allo specchio, mentre lo fa. Le somiglio così tanto.
Tutta la mia infanzia l'ho vissuta a Neverville, e a quel tempo pensavo ancora che ci avrei trascorso la vita intera.

Mi sveglio agitata, forse ho fatto qualche brutto sogno. 
Ho sete, e mi alzo con l'intenzione di andare in cucina a chiedere, per l'appunto, un po' d'acqua.
Mi fermo sull'uscio, esistante. Sento delle voci che provengono dal salottino...
E' appena un brusio, in realtà.

La fronte appoggiata allo stipite della porta, un rettangolo di luce soffusa e poco più.
Vedo la sagoma di mia madre che attraversa il mio spicchio di visuale ... scorgo il suo sorriso, sembra che parli con qualcuno... con qualcuno seduto sul divano... deve essere un uomo, perché sono mani da uomo quelle che d'un tratto la trattengono per un braccio ... mia mamma ride contro le nocche della mano, si abbassa verso di lui... e chiudo la porta, per non vedere oltre.

Sogno una strana immagine... un disegno. Qualcosa di rosso racchiuso in qualcosa di scuro.
Un tatuaggio, sì, deve essere una specie di tatuaggio. Appena intravisto, eppure impresso, indelebile, nella mia mente fanciulla.
L'unica traccia che mi rimane dell'uomo che, quella sera, amò mia madre.



La sua mano si insinua tra i capelli, mi sfiora la gota e scivola sulla nuca, appena un istante prima che le sue labbra sfiorino le mie.
E assaporo questo contatto morbido, quasi trattenuto, mentre la tensione scorre sulle sue dita, a tracciare piccoli cerchi sulla pelle sensibile del collo.
Mi sento precipitare, una vertigine le sensazioni che lui risveglia senza osare oltre, se non tornare su di me, a labbra audaci e curiose, cercandomi ancora, invitandomi a fargli spazio.
-E' sbagliato-, mormoro contro la sua bocca, il cuore che ha preso un ritmo tutto suo.
-No-, risponde, scuotendo la testa, trattenendomi un poco, quasi temesse che possa fuggire via, come prima, nella sala azzurra.
Non lo respingo, non ce la faccio, e chiudo gli occhi, e così un poco gli sfuggo davvero, mentre raduno i pensieri, tacitando quello che il mio corpo, a modo suo, sta tentando invece di gridare.
-Tu non sai cosa significa perdere chi si ama-, insisto, inesorabile.
Allora è lui che si stacca, ma è solo un attimo il senso di vuoto che mi assale, prima di ritrovarmi ravvolta nel suo abbraccio, premuta contro il suo petto.

Pete sa che ho ragione.

Io ho perso tutto quello che avevo, a 8 anni.
Pete è nato su una Colonia. Sua madre incinta lasciò la Terra, con suo padre, non abile per essere arruolato, al tempo delle prime Migrazioni. E ha vissuto lassù, con loro, su un pianeta gemello del mio, artificiosamente reso ospitale e abitabile, fino a che in età da soldato non è entrato all'Accademia, come tutti gli altri, qui, del resto.
Così mi ha raccontato, una delle tante volte che ci siamo ritrovati a parlare, un poco discosti dagli altri, le parole misurate e poi in caduta libera, come quando ti senti al sicuro.

Io sarei nata qualche anno dopo di lui, invece, sulla Terra... e il resto, quasi tutto, lo sa.

-Mi stanno cercando-, annuncio, sollevando il mento dalla sua spalla, dove la sua stretta mi ha portato ad adagiarmi, vincendo con dolcezza la mia titubanza.
-Cosa... ?-, chiede, un poco confuso, perché non ha sentito nulla, o forse perché sta sentendo troppo, qui con me, per accorgersi del resto.
Non può udire la voce che sento io, mi arriva ovattata come quando si tiene la testa sott'acqua, ma è così che io percepisco le voci, quando sono ancora inudibili per gli altri.
Di solito le ignoro, e restano un rumore di sottofondo, un borbottìo confuso, cui non presto ascolto. Ma stavolta non posso far finta di niente.
Mi guarda in attesa di una spiegazione, gli occhi che indagano i miei, la sua mano ancora ad accarezzarmi il viso.
-E' Jody, mi sta chiamando, e sta per arrivare qui-.

Quando la porta della Sala bianca si apre mi sto risollevando dalla mia chaise.
-Ahhh, sapevo di trovarvi qui-, dice, baldanzoso.
Getta uno sguardo rapido a Pete, e uno a me.
-Neverville, ti vuole il Capitano-, riferisce.
Alza le spalle, anticipando la mia domanda. Già, non può certo sapere il perché di questa convocazione.
Annuisco, semplicemente, ed esco dalla stanza, lasciandoli soli.
Un passo, e già mi manca.
Un passo, e già sento le loro voci.
Sono molto amici, è logico che parleranno di me... che Jody insinuerà qualcosa -niente che non abbia immaginato già-, e Pete gli chiederà consiglio, lui che mi conosce così bene... o forse niente di tutto questo.
Non lo voglio sapere.
Ho il cuore in subbuglio, il suo calore stampato sulla pelle, il suo sapore sulla lingua, stravolto da un ultimo bacio.
Accelero l'andatura, e svuoto la mente.
Questa giornata, sulla Motherhead, sembra avere in serbo ancora delle sorprese, per me.

Arrivo nella Sala comandi, il Capitano è in piedi contro i monitor che brillano nella penombra della stanza.
Tiene le mani dietro la schiena, la posa fiera, mentre controlla che tutto proceda per il verso giusto.
-Capitano... -.
Si volta, mi guarda con condiscendenza, gli occhi aguzzi.
-Domattina, verso le 8, tempo terrestre, faremo scalo per i rifornimenti-.
Mi dà di nuovo la schiena, per sfiorare uno schermo e far apparire una mappa, un accrocchio di puntini e numeri e traiettorie.
-Qui-, indica con il dito, un puntino identico a tanti altri, il cui nome non aggiungerebbe nulla all'essenza delle sue parole.
Mugolo, non so dove vuole andare a parare.
Conosco la nostra meta, e conosco le mappe per quel tanto che compete al mio ruolo, e non invidio i suoi sottoposti che invece devono conoscere a occhi chiusi ogni pixel di quella schermata, e delle innumerevoli altre possibili.
-E' previsto anche lo sbarco per l'equipaggio, e scenderai anche tu-, chiosa.
Si volta di nuovo, immaginando forse la mia espressione sorpresa, e non gliela lesino affatto.
-Ma io ho ricevuto raccomandazioni precise di non abbandonare l'astronave... per la mia sicurezza-, ribatto.
Sorride, e rivedo quello sguardo intenso che sembra quasi coccolarmi, ogni volta che mi investe.
-Mina, è un mio ordine e non si discute-.



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Grazie a chi passa da questa mia storia, grazie di cuore a chi lascia un commento.
Tornerò nel fine settimana, per dedicarmi il 26 a un contest indetto sul fandom di Lady Oscar (che è la mia prima casa).
Un abbraccio e a presto!
Amantea










   
 
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