Sinner’s Night [Mistake of a Life]
Titolo: Sinner's
night [Mistake of a life]
Autore: My
Pride
Fandom: FullMetal
Alchemist
Tipologia: One-shot
[ 8817 parole ]
Personaggi: Van
Hohenheim, Edward Elric, Trisha Elric, Alphonse Elric
Genere: Dark,
Malinconico, Sovrannaturale
Rating: Arancione
Avvertimenti: AU,
Non per stomaci delicati
The angst time: 11.
Inganno
FULLMETAL ALCHEMIST © 2002Hiromu Arakawa/SQUARE ENIX. All
Rights Reserved.
The
blood on our hands is the wine , we
offer as sacrifice
Come
on, and show them
your love
Rip
out the wings of a butterfly
For
your soul, my love,
Rip
out the wings of a butterfly
For
your soul [1]
Un
tempo
non ero affatto ciò che sono oggi.
Non
ero solo il portatore di morte che ammaliava le sue
vittime prima di porre fine alla loro vita, che rubava il sangue dai
loro corpi
addormentati nelle case, o da chi si era perso fra le strade e riusciva
a
scorgere il fugace lampo dei miei occhi prima di smettere di respirare.
Non
ero il mostro che nei primi anni della sua vita era
costretto a rifugiarsi in cripte buie e ammuffite fino al calar del
sole, e che
vagava poi come uno spettro dorato nei vicoli oscuri. Non
ero nemmeno la creatura che recitava ancora la parte
dell’uomo di prestigio che era diventato nel corso dei
secoli, e che nella quasi
piovosa Edimburgo o nella nebbiosa Londra aveva portato il caos per
oltre
cinquant’anni.
Immune
alla debole luce del sole di quelle città dopo secoli
passati nell’ombra, potevo passare inosservato agli occhi
degli umani che non
riuscivano a percepire il mio immenso potere a causa della loro
ignoranza, i quali
non si
rendevano conto di chi io fossi finché le mie zanne non
affondavano nella loro
carne in cui scorreva ancora, come un mare fra le mie mani, il loro
sangue,
l’essenza del loro essere.
Lasciate, però, che io vi
racconti come successe. Erano
gli anni in cui la rivolta contro gli inglesi si era
appena conclusa, e il nostro re, Guglielmo il Leone, era stato
costretto a
giurare fedeltà ad Enrico II. In
molti furono obbligati ad accettare tale condizione, e
io, umile figlio d’un contadino - facente parte nei suoi
primi
anni di uno dei
tanti clan prima che il possesso basato sulle terre venisse abolito da
Davide I -,
vivevo degli aridi frutti della terra che noi stessi coltivavamo.
Ero
appena nella mia ventinovesima estate quando accadde. Mio
padre era morto dopo aver contratto un morbo che solo i nobili
sarebbero riusciti a superare, nei loro lustri
castelli e nelle loro morbide
camicie da notte, con a loro disposizione i miglior curatori che le
nostre
tasse versate ai loro feudi potevano pagare. Già
nove anni prima mia madre era stata portata via dalla
stessa malattia, e mio padre e miei tre fratelli si erano occupati dei
pochi
terreni che possedevamo per poter permettere a me e alla mia unica
sorella di
avere almeno pane e rape per mangiare, ma
non avevo mai accettato che gli altri facessero qualcosa
per me. Così,
seppur giovane, li aiutai a guadagnare un
po’ di soldi
lavorando in nero come garzone nella bottega d’un
commerciante, rincasando solo
a notte fonda. Poi
era scoppiata la rivolta.
Durante
le continue sommosse, due dei miei fratelli vennero
coinvolti, e le braccia utili per arare la terra si ridussero solo a
quelle di
mio padre e del fratello che si era salvato. Non
passò molto tempo prima che la morte portasse via
anche lui e mia
sorella, lasciando solo noi due. Io
e mio padre ci arrangiammo come potemmo, spesso lavorando
il doppio da noi concesso. Avevamo
trovato lavoro presso la piccola proprietà
d’un alto
borghese a cui serviva forza bracciante per i suoi possedimenti, e
anche se il
salario non era dei migliori e condividevamo un piccolo casolare con
gli altri
lavoratori, potevamo godere d’un tetto sopra la testa e di un
modesto pasto
caldo tutti i giorni. Brodo
e pane, ma era sufficiente, almeno finché
anche mio padre non s’ammalò a
causa del troppo
lavoro.
Vegliavo
su di lui la notte invece di riposarmi nonostante
lui stesso mi dicesse di farlo, e alle prime luci dell’alba
cominciavo il
lavoro nei campi, chiedendo alla sguattera che ci preparava da mangiare
il
favore di controllare che non peggiorasse. In quello stato
riuscì
a resistere per oltre un anno, ma
le sue condizioni si aggravarono nell’autunno del 1177,
quando il freddo divenne così pungente che anche in quella
misera capanna, con
un bivacco acceso nel centro e tutti raggruppati intorno ad esso, non
riuscivamo a riscaldarci a dovere.
Quella
notte la pioggia era insistente, il terreno fangoso
sembrava avvolgere il casolare e il vento che infuriava faceva tremare
il tetto
dalle travi rancide, rischiando di farlo crollare; i
brividi che avevano scosso il corpo di mio padre
aumentavano d’intensità ogni volta che apriva la
bocca per tossire, e io non
potevo far nulla se non ripulirgli il sangue che spesso gli macchiava
le labbra
quando succedeva. Ero
impotente e potevo solo guardarlo morire. L’avevo
assistito come concesso dalle mie misere forze
mortali, detergendogli il sudore dalla fronte o dal mento,
bagnandogli
il volto con una pezza quasi lurida che avevo trovato accanto al catino
che
usavamo in tanti.
Smise
di respirare poco prima che la notte raggiungesse i
colori del mattino, e
quello stesso giorno lo vidi sepolto sotto metri di terra,
in una tomba senza nome e senza le onoranze del suo antico clan. Non
ero propriamente di religione celtica e nemmeno
cattolica, ma ricordo distintamente che quel giorno, mentre osservavo
quel
terreno smosso dove erano coricati i resti mortali dell’uomo
che era stato mio padre,
mormorai qualche parola incomprensibile e sconnessa, forse animato dai
sentimenti che un figlio può provare verso il proprio
genitore. Aveva
continuato a piovere, vero, però,
anche con tutta la forza di volontà che possedevo, non
ero riuscito a muovermi. Non
avevo versato nemmeno una lacrima, ma l’affetto che
nutrivo per lui aveva lasciato che immagini del tempo che avevamo
trascorso
insieme si accavallassero senza un ordine preciso, sostituendo il
pianto al
quale non avevo dato vita. Il
padrone mi aveva concesso quel giorno di lutto e io
l’avevo sfruttato a vegliare sulla tomba muta, rientrando nel
casolare solo quando l’umidità era divenuta
insostenibile.
Trascorsero
altri tre anni prima che decidessi di lasciare
quelle terre. Vagai
per i sobborghi di una cittadina vicino al Loch,
infreddolito e sporco come un mendicante; racimolavo quei pochi
denari che
riuscivo a guadagnare in uno dei bordelli dove avevo trovato un misero
lavoro
di sguattero, pulivo
i pavimenti di legno incrostati di sudiciume, i
tavoli sbilenchi e il piccolo bancone altrettanto sporco dove veniva
servito da
bere ai clienti, per lo più mendicanti o malavitosi che si
intrattenevano con
le sgualdrine del luogo.
Erano
pochi i momenti che potevo concedere alla mia persona. Passavo
notte e giorno a svolgere gli incarichi che il
padrone della locanda mi affidava, spesso portando da bere e da
mangiare ai
pochi uomini colti che vi entravano per consumare il whisky annacquato
che
servivamo e l’haggis preparato con il fegato delle pecore
poco nutrite. Mi
perdevo nei discorsi colti in cui si gettavano,
affascinato da quel mondo che avevo solo potuto sognare e mai
raggiungere. Spesso,
con la scusa di portare loro qualcos’altro, mi
intrattenevo più del dovuto per ascoltarli, per imparare
ciò che loro sapevano,
e le loro conoscenze imperversavano nel mio animo come un fiume in
piena che si
ingrossava ad ogni parola. Avevo
venticinque anni e avevo passato tutta la mia vita ad
arare campi o a pulire i pavimenti, ero analfabeta e le poche
cose
che
conoscevo erano solo quelle essenziali per vivere. Tutto
ciò
che sentivo quando
discutevano mi appariva nuovo, sconosciuto.
Fu
durante l’inverno del 1184 che un incidente pose
fine a quell’esistenza. Il
bordello in cui lavoravo venne chiuso dagli inglesi, e
finimmo tutti a vagabondare per strada nonostante le piogge e le
nevicate
che
imperversavano sul paese. Cominciammo
a vivere di stenti raggruppati in piccole
comunità, io e gli altri non volemmo lasciarci
poiché avevamo imparato, in
quegli anni, a convivere quasi come fossimo una famiglia. Eravamo
quattro uomini e due donne, e spesso rubavamo per
quest’ultime abiti caldi per permettere almeno a loro di non
patire quel freddo
pungente. Passammo
più di due settimane a vivere in quel modo.
Due o tre sere dopo l’ultimo
furto, un malore
improvviso mi colse durante il sonno, mentre dormivo avvolto in stracci
raggomitolato accanto ai miei compagni in una vecchia stalla dal lezzo
dei
cavalli malati che l’abitavano oltre a noi. Cominciai
a tossire così forte che svegliai anche gli altri. Mi
chiesero come stessi, come mi sentissi, ma non riuscivo a
parlare, solo a tossire. Tutto
ciò che riuscivo a pensare era che avrei fatto la
stessa fine dei miei genitori e dei miei fratelli, e non volevo essere
gettato
in una fossa per cadaveri senza essere ricordato da nessuno. Non
volevo morire senza conoscere nulla del mondo, senza comprenderne le
bellezze, senza
aver provato l’amore... ma
tossivo e tossivo, non riuscendo a respirare. I
polmoni erano ormai in fiamme, gli occhi mi bruciavano a
causa della febbre che sentivo invadere il mio corpo mentre i brividi
del
delirio serpeggiavano lungo la mia schiena e sotto la mia pelle. Ero
boccheggiante e scosso da spasmi.
«Non
supererà la notte se continua
così», solo questo
riuscii a sentire da una delle due donne che era con noi, Giselle,
prima che la
vista si riducesse solo ad un oscuro oblio. Tutto
era diventato una foschia dove le sagome dei miei
compagni erano indistinte, mentre li vedevo muoversi piano, lenti come
fantasmi, lasciando dietro di sé scie biancastre che non
avevano consistenza né
odore. Sembravano
fluttui di fumo che si disperdevano
nell’oscurità. L’odore
della paglia era diventato aspro e denso, e nel mio
stato ci misi qualche istante per capire che uno degli uomini ne aveva
raggruppata un po’ e l’aveva posta sul mio corpo,
nel tentativo di riscaldarmi
e di far scendere la febbre.
«Servirebbe
qualcosa di molto più
pesante», disse ancora Giselle.
«Questa paglia non basta».
Avevo
provato a muovere le labbra per ringraziarla, questo
lo ricordo, ma quando, dopo sforzi, riuscii ad aprirle, biascicai solo
qualche
parola incomprensibile che nessuno di loro riuscì a
comprendere, mentre con le
poche forze che mi rimanevano tentavo di scorgere i loro volti cupi.
Restai
in quello stato per un tempo che, se ci rifletto
adesso, non ho l’agio di ricordare. Nemmeno
i miei compagni, se fossero vivi, sarebbero in grado
di stabilirlo. Sembrò
che patissi mille atroci sofferenze, per quelle che
valsero per me un’eternità quando forse furono
soltanto poche ore o pochi
minuti, o forse mezzo dì.
Ardevo. Così
mi sentivo. Percepivo
sulla pelle la sensazione del fuoco che avvolgeva
il mio corpo, i muti demoni della febbre che strillavano nella mia
mente; rivedevo
la mia vita come se fosse quello che oggi credo
chiamino diapositiva, o una cosa del genere. Le
gioie e i tormenti, la fatica e la tristezza. Tutto
passava in un lampo indistinto e senza voce: scorgevo
il volto snello di mia madre, il sorriso che non le abbandonava mai le
labbra;
mio padre che, sotto il sole di mezza estate, lavorava nei campi,
detergendosi
il sudore dalla fronte con il braccio sinistro, e al suo fianco i miei
fratelli, che salutavano me e mia sorella allegri, come se si stessero
divertendo anziché lavorando. Poi,
un urlo indistinto proruppe in quelle fioche immagini,
squarciandole con i suoi artigli invisibili e riducendole sotto i miei
occhi in
brandelli di stoffa. Non
avevo compreso, in quel primo momento, che ero io stesso
a gridare.
«I
demoni lo stanno chiamando, non possiamo fare
più niente
per lui», un sussurro da uno degli altri, Alasdair.
Praticava,
un tempo, la stregoneria. E
se lui aveva detto che per me non c’era più
nulla da fare,
era così. Lo
sapevo io come lo sapevano tutti, lì dentro. Persino
i cavalli avevano cominciato a nitrire, come fossero
spaventati, ma
non volevo arrendermi, non volevo abbandonare quel misero
appiglio alla mia vita.
Provai
anche ad aggrapparmi ad uno dei loro stracci,
stringendolo convulsamente fra le mani per quanto le forze me lo
permettessero,
sentendo la mano di Giselle fresca come l’acqua
d’un ruscello sulla mia fronte
in fiamme. La
presa cominciò a scemare non più di qualche
attimo dopo. Troppo
debole, non riuscivo più nemmeno a tenere gli occhi
appena socchiusi.
Abbassai
del tutto le palpebre, lasciando che il braccio
cadesse con un tonfo sordo sulla montagna di paglia umida accumulata
sotto di
me. Il mio cuore aveva smesso di battere per meno
di due minuti, e quella sensazione di gelo che mi colpì dopo
fu
l’ultima
cosa che ricordo con esattezza. Non
sentivo più nulla. Solo
freddo, credo. Non
riuscirei a spiegarlo tutt’ora, quello che sentii. Forse fu
più simile ad un bagno nel Loch
durante l’inverno, quando le acque sono così
gelide che la pelle sembra andarti
a fuoco, quando ne vieni a contatto. Era
come se stessi fluttuando nel buio che mi aveva avvolto
dal momento in cui avevo chiuso gli occhi, come se le vesti che
indossavo
fossero fatte di un ghiacciato oblio, mentre non sentivo rombare
null’altro che
il silenzioso suono del nulla.
Le
voci dei miei compagni s’erano affievolite già
da un bel
po’, così come i nitriti dei cavalli. Aprii
gli occhi solo qualche tempo dopo, fuori,
nell’oscurità che avviluppava il paese. Avevo
provato a rimettermi in piedi affondando le mani in
quella fanghiglia melmosa in cui mi ero risvegliato, guardandomi
spaesato
intorno. La
stalla era sparita, ero solo tra tanti cadaveri - le
membra di alcuni venivano ancora scosse da spasmi involontari -
e malati, lontano
dalla città e al limitare del bosco. Mi
avevano abbandonato. Non
vedendomi respirare, avevano forse ben pensato di
lasciarmi lì a marcire, senza nemmeno concedermi il lusso di
una semplice e
modesta tomba.
Conficcai
le unghie nel fango, il volto contratto
in una smorfia e i capelli, ricoperti di melma anch’essi e
intrisi di sudore e
pioggia sporca, incollati al volto, come biondi fili che incorniciavano
i miei
lineamenti. Non
seppi, in principio, cos’era la sensazione che mi aveva
travolto d’improvviso l’animo. Risentimento,
abbandono. Quelle
due emozioni accrescevano in me un qualcosa che
poteva solo esser definito come una rabbia smisurata, nutrendo la belva
dell’irragionevolezza. I
sussurri del sottobosco e della notte si confondevano con
i lamenti di quegli esseri sventurati che come me erano stati lasciati
al loro
destino, all’addiaccio fra le spoglie di chi non era riuscito
a resistere al
freddo pungente che si infiltrava fra gli stracci che in molti, io
compreso,
indossavano.
Riacquistai
a poco a poco il controllo dei miei arti. Ad
ogni passo che facevo, vedevo uomini feriti e malati che
mi fissavano, gli occhi sbarrati e i volti sbiancati nel candore della
morte,
che tentavano di riscaldarsi stringendosi nei loro sudici stracci o a
rialzarsi
in piedi a loro volta per lasciare quel posto maledetto. La
fossa dei cadaveri, ecco dove mi ero svegliato. Un
luogo in cui nessuno avrebbe mai voluto ritrovarsi.
Superai,
se ben ricordo, più d’una ventina di
morti, tutti
accatastati l’uno sopra l’altro, con il sangue
delle loro ferite coagulato sul terreno viscido e fangoso. Ormai
abbandonato a me stesso, mi inoltrai in mezzo a quella
montagna di cadaveri, riuscendo a sentire, man mano che mi discostavo,
il
brusio sconnesso dei gemiti dei sopravvissuti che diveniva sempre
più flebile. Non
mi ero allontanato più di trenta piedi che la voce bassa
e malinconica di qualcuno mi richiamò, sussurrata come lo
sciabordio d’un
piccolo ruscello nella foresta. Cercai
con lo sguardo la creatura dalla quale proveniva tale
voce, senza trovarla.
Non
ho detto essere umano o uomo per un buon motivo. Nessun
mortale avrebbe mai saputo dare quel timbro alla
propria voce. Era
simile al canto del vento fra le brughiere che si
confondeva con il richiamo della pernice bianca; melodiosa come
l’inudibile
fioritura degl’iris selvatici; pura e densa come la fragranza
degli abeti, dei
pini e dei larici; palpabile come il muschio bagnato dalla rugiada
mattutina. Era
tutto questo ma al contempo non era nulla, emblematica
come il fuoco, misteriosa e solitaria come la notte che ci avvolgeva
nel suo
silente abbraccio.
Fui
incantato, da quella voce. Volevo
a tutti i costi trovare quella creatura a cui
apparteneva. La
cercai a lungo, seppur ancora scosso da qualche accesso
di tosse. Essa continuava a chiamarmi a sé, come se
mi cercasse disperatamente anch’essa. Mi
imbattei in quella creatura poco dopo. Giaceva,
pallida in volto e con i chiarissimi capelli biondi
che glielo incorniciavano, su una macchia di felci, una mano
abbandonata sul
seno quasi del tutto scoperto e l’altra ad accarezzare
delicata il capo d’una
cerbiatta, mentre con un sorriso ammaliante mi osservava con i suoi
occhi
color ghiaccio, così sbiaditi da sembrar bianchi.
«Sento
su di te l’odore della morte»,
mi disse in un
sussurro lei, con quel suo tono inumano e gorgogliante, sfiorandosi una
spalla
nuda con due dita. «Vieni a me, lascia che ti
guardi».
Come
se le gambe non fossero state le mie mi mossi,
praticamente rapito da quegli occhi e da quelle labbra che continuavano
a
muoversi silenziose, senza proferir parola. Mi
inginocchiai accanto a lei, guardando la sua pelle
candida appena rosata, gli occhi neri della cerbiatta riflessi
stranamente nei
suoi. Si
rialzò a sedere a sua volta lasciando che il leggero velo
che fungeva da veste scivolasse di poco sulla pelle
d’alabastro, mentre
l’animale che pocanzi stava accarezzando le si
avvicinò, poggiandole la testa
in grembo come a volerla nascondere.
Una
sua mano, fredda come la morte che avevo di poco veduto,
si posò su una mia guancia, sfiorandola fuggevolmente prima
che chinasse il
volto verso di me. «Sei
così giovane», mormorò
languidamente, disegnando la
curva delle mie labbra, passando poi agli zigomi, alle palpebre che
avevo
appena abbassato, «e io sono così
stanca».
Quiete,
solo questo avevo provato mentre quella donna mi
aveva stretto a sé con le sue esili ma forti braccia, mentre
le sue labbra
avevano preso in rassegna il mio volto. Sentivo
il calore sprigionato dal corpo della cerbiatta, ma
non quello del suo. Era
fredda come il ghiaccio, ma
la sua bellezza non era eguale a quella di nessuna donna
avessi mai visto. Sembrava
una di quelle creature che gli antichi greci
avrebbero chiamato Dea. Ignuda,
vestita solo della pelliccia vivente dell’animale
che la teneva al caldo e che le faceva da unica compagna, era splendida
anche
con i capelli scompigliati intorno al viso. E
i suoi occhi... quegli
occhi, erano stati l’attrazione fatale che mi aveva
fatto cadere nella sua tela. Una
tela che prometteva lussuria e passione.
«Sii
la mia forza, e la morte non ti renderà sua
schiava»,
un altro suo quieto sussurro, la melodia della sua voce crebbe appena,
divenendo ovattata. «Sento il tuo tormento, sento i tuoi
desideri più torbidi e
nascosti... abbandonati a me e vedrai ciò che la vita ti ha
negato, le tue
antiche sofferenze saranno solo un ricordo sbiadito e
lontano».
La
guardai, e mi parve di non vedere null’altro che i suoi
occhi color ghiaccio. E
specchiandomi in quelle pozze d’acqua gelida, vidi il
sorriso trasognato che increspava le mie labbra, la mia testa che
accennava ad
un sì muto. Fu
più semplice di quel che credetti, il dopo. Nemmeno
mi accorsi che la cerbiatta era fuggita lanciando un
lamento che vibrò nell’aria. Quelle
labbra e quegli occhi che avevo così tanto rimirato
in quella donna divennero due oscuri oblii mentre si chinava sempre di
più
verso di me, leccandomi il collo con la sua piccola lingua rosea e
quasi
ruvida, come quella d’un gatto.
Non
so cosa mi aspettassi, data la sensazione che aveva
invaso il mio corpo. Di
sicuro non era ciò che avevo pensato io al principio. Me
ne resi conto solo quando lei mi morse il collo, la carne
al di sopra dell’arteria, facendomi inarcare la schiena e
spalancare la bocca
in un grido senza voce. Il
risucchio umido del sangue mi giungeva nitido alle
orecchie, ma non provavo stranamente a sottrarmi da
quell’ammaliante creatura
che s’era dimostrata una vampira. Avevo
solo pensato “Beh,
meglio morire fra le
braccia
d’una donna che in un campo infestato dal lezzo del
letame”. Non
feci nulla per impedirle di dissanguarmi, e lei nemmeno lo
fece. Non
mi uccise.
Ricordo
che sentii l’odore
del suo sangue mescolato con il mio, la sua pelle candida premuta
contro le mie labbra aride. Poi,
un risucchio. Ero
io che mi nutrivo del suo sangue. Fu
indescrivibile ciò che provai nel sentirne il sapore
dolciastro sulla lingua, nel sentirlo scendere denso e caldo nel
palato. Era
linfa vitale, un continuo orgasmo, il sussulto letale del corpo che
moriva e viveva, viveva e moriva per poi rinascere, ancora e ancora,
nel tormento, nell'oscurità, nel sangue. La
vidi dinnanzi a me, pochi minuti dopo, mentre
si passava lentamente il mignolo della sinistra sulla curva piena del
labbro
inferiore, ripulendolo dal sangue. Mi
stava osservando, ormai in piedi, completamente nuda. Anche
il suo leggero velo era caduto ai suoi piedi, creando
un piccolo lago. Una
risatina si levò dal suo petto, come se fosse
divertita.
«Allontanati
più che puoi da questo posto
dimenticato da
Dio, prima che ti trovino», mi disse, con quel suo dolce
sorriso che non
stonava affatto sul suo bel viso, nonostante le labbra ancora macchiate
del mio
sangue. «Slàn
leat, mo brèaga
aingeal [2]».
Restai
immobile con una mano premuta sul collo pulsante e
gonfio, ad osservare il punto in cui lei era svanita lasciando solo una
leggera
nebbiolina che si confondeva con la vegetazione circostante, un flebile
odore
di brughiera e di fiori selvatici. Lo
ispirai a fondo, socchiudendo gli occhi. Sentivo,
frattanto, il dolore imperversare dentro di me,
senza che ne facessi realmente caso. La
situazione non mi era ancora chiara, e mi vergogno a
dirlo, oggi. Io,
il flagello degli uomini in quest’epoca, non mi ero reso
conto d’essere stato infettato.
Fu
molto difficile seguire il consiglio di quella maestosa
vampira, per me. Ero
riuscito a rimettermi in piedi solo dopo svariati
tentativi, e ad incamminarmi come uno spettro per il fitto e scuro
bosco,
trovando rifugio nelle tana stretta e soffocante d’un branco
di lupi. Non
mi avevano attaccato, forse fiutando ciò che ero da poco
diventato, ma
quando avevo provato a metter fuori il muso con loro, ero
stato accecato dalla lucentezza del sole, che mi aveva costretto a
rannicchiarmi sul fondo della tana insieme ai cuccioli.
Solo
quando era calata la notte ero riuscito a sbirciare
fuori. Mi
era sembrato di trovarmi in un mondo nuovo, in un mondo
che non avevo mai veduto, e
cominciai molto presto ad imparare qual era il mio posto. In
principio mi cibavo degli animali che popolavano il
bosco, per lo più caprioli e lepri, o di tanto in tanto
qualche gatto selvatico
quando riuscivo ad avvistarne uno. Avevo
anche scoperto che, più il tempo passava,
più la luce
del sole mi bruciava sempre meno gli occhi, che erano divenuti meno
sensibili
al suo calore. Persino
la pelle sembrava resistere poco, ma
non mi arrischiavo mai a cacciare di giorno. Attendevo
il favore delle tenebre, ormai divenute mie sole compagne.
Passai
pochi mesi vivendo in quel modo, spostandomi, con la
forza del mio nuovo corpo che avevo imparato a conoscere e
padroneggiare
egregiamente, in una cittadina affollata e confortevole, dove il gelo
stava
pian piano scemando. Credo
che oggi il suo nome sia Glasgow, che noi chiamiamo Glaschu,
se non vado errato. Fatto
sta che riuscii ad accumulare tutto il nutrimento
necessario per svariati anni, senza che gli esseri umani che la
popolavano
fossero mai al corrente di ciò che accadeva. Uomini
e donne morivano nei loro letti, nessuno riusciva a
capire cosa succedesse. E
io continuavo a vagare indisturbato, quasi divertito da
quel mondo in cui, d’improvviso e per un caso fortuito, mi
ero ritrovato.
Raggruppavo
ricchezze, avevo un prestigio. Ogni
vittima che mietevo era d’alto rango, portatrice di
averi e tesori. Me
ne impadronivo come fossero mie, creandomi la vita che
non avevo mai vissuto. Se
avessi voluto, avrei potuto ridare al mio antico clan il
rispetto che meritava, le terre strappate ingiustamente agli antichi
padri
riconsegnandole nelle mani dei figli. E
l’avrei fatto, se non fossimo stati un paese corroso da
guerre e feudatari. Mi
limitai solo a liberarmi del mio vecchio nome di
sguattero trovandomene uno più consono alla mia persona,
vivendo
tranquillamente fra gli umani quando mi aggradava, partecipando alle
serate
mondane dei nobili inglesi spacciandomi con loro per quello che noi,
nella
nostra lingua, chiamiamo Laird. E
loro mi credevano, credevano all’illusione di terre brulle
che gli mostravo, all’utopia dei miei possedimenti nelle
Highland, come se
pendessero dalle mie labbra e travasassero ogni parola traboccasse da
me.
Non ero il solo, però, ad
avere quegli
straordinari poteri. Spesso,
molto spesso, incrociavo sulla mia strada persone
comuni, che apparivano ad occhi altrui e certe volte persino ai miei
mendicanti
o nobili borghesi, ma,
nelle ore della mia caccia, scorgevo di rado le loro
agili e flessuose figure che, con salti aggraziati e piroette, rubavano
sotto
il mio naso le mie vittime, rivolgendomi pacati sorrisi prima di
dissolversi
nell’oscurità che c’inghiottiva.
Percepivo
da loro un potere immenso, un qualcosa che non
poteva assolutamente essere paragonato alla forza e alla misteriosa
lucentezza
che io stesso irradiavo, qualcosa che andava oltre la mera
comprensione,
mortale o immortale che fosse. Non
riuscivo mai ad intrattenere un dialogo, con quelle
creature così simili a me. Sentivo
i loro pensieri, la bizzarra sorta d’avvertimento
che il loro odore di terra tombale emanava, come se cercassero di
mettermi in
guardia da un lascivo pericolo che incombeva su tutti noi.
Quelle
creature sparirono solo un paio di mesi dopo,
portando il sentore della morte lontano dalla città e dalle
sue strade,
braccate da ciò che loro, nelle loro menti, avevano chiamato
“cacciatore”. Lo
sterminio delle streghe, forse? Volevano
forse intendere quello, con le loro mute parole? Comprendere
tali allusioni m’era difficile come se non
capissi il mondo ormai immortale in cui mi trovavo, persino quando
avvertivo io
stesso l’odore di corpi che bruciavano non riuscivo a
rendermene pienamente
conto. Stavano
cacciando noi, me.
Una
delle tante creature che loro consideravano un’eresia. Un
abominio nei confronti del loro Dio. Ma
non mi lasciai prendere dal panico: continuai a vivere
tranquillamente nel lusso e nell’agio che i miei tesori
mortali potevano permettermi,
partecipando a qualsiasi serata mondana che il brillante mondo della
nobiltà
intratteneva quasi ogni notte, annegando nell’oblio del
piacere.
Ero
nato per questo. Ero
nato per rendere partecipi gli uomini di quanto la loro
vita, in confronto alla mia, potesse essere fragile e delicata come il
petalo
d’un fiore, come al minimo tocco insistente delle dita
potesse sgualcirsi o
appassire, come avrebbero dovuto godersela prima della tragica fine.
Ero
nato per ammaliarli e condurli alla perdizione, per
sedurli e far loro assaporare i piaceri della carne, la lussuria
profonda
e la
passione che io, in quanto
emblema del desiderio, potevo trasmetter loro
sfruttando la sola cadenza della mia voce o il luccichio indistinto dei
miei
occhi, occhi
che con il loro solo potere riuscivano ad incantare lo
spettatore con lo sguardo, occhi che sembravano fatti d’oro
fuso, non del
colore quasi grigio d’un cielo plumbeo d’autunno
come quando ero mortale.
Ero
il chiaro disinganno, il peccaminoso diletto, il
periglio d’una notte di luna nuova, persino l’ombra
della cupidigia che si
rafforzava e non svaniva, divenendo un’indissolubile
realtà. Ero
tutto questo senza che loro potessero far nulla per
fermarmi, senza che potessero resistere alle mie tentazioni, ai
richiami muti
della mia voce. Li
attiravo a me, li facevo miei. Suonavo
con queste mie mani immortali le melodie dell’illusione,
strofe di canzoni che solo le mie vittime riuscivano ad ascoltare, come
fossero semplici brani divenuti arte dei
loro musicisti mortali, le cui dita scorrevano sui tasti dei loro
strumenti. Contemplavo,
con il passar degli anni, l’avvizzire dei loro
volti, la pelle che s’inaridiva divenendo quasi
incartapecorita, come se
bruciasse lievemente senza l’aiuto del fuoco.
Guardavo
tutto questo mentre il tempo sfuggiva rapido dalle
mie mani. Loro vivevano e morivano, mentre
io, risanato dai difetti mortali, non dovevo più
temere nessuna malattia, non avevo più nessun impedimento.
Avevo
un corpo immortale e perfetto, non avevo nemmeno più
bisogno di lavorare e spezzarmi la schiena come avevo sempre fatto. Mi
sentivo... invincibile.
Fu
con
una
sorta di gioia selvaggia che mi crogiolai nei
secoli che passarono, nell’assistere ai continui cambiamenti
che il mondo che
mi circondava stava subendo, nell’accumulare sempre
più terre e ricchezze,
nell’osservare da punti remoti le battaglie che scuotevano
come un terremoto il
mio paese, nel vedere come da una morte nasceva una nuova vita. Avevo
persino avuto la malsana idea di partecipare alla
rivolta del 1295, assistendo al suo svolgimento fino al 1305.
Nell’oscurità della
notte, nascosto fra la
penombra dei
possedimenti dei nobili, assistevo in silenzio alle loro discussioni,
ai loro
piani di battaglia. E ridevo, non potevo far altro che ridere.
Parlavano d’un alleanza con la Francia, in lotta con la
nostra antica nemica: l’Inghilterra. Ed ogni sera, mentre
scoppiavano rivolte fra la popolazione,
io restavo occultato nelle tenebre, ad osservare quanto la
stupidità degli
uomini non fosse affatto cambiata.
Un’altra guerra comportava
solo altre vittime.
La maggior parte della mia famiglia era stata portata via da
lei, e adesso altri avrebbero inutilmente perso la propria vita per una
battaglia di rivendicazioni politiche. Ma quello, già da un
bel
paio d’anni, non era
più stato un
mio problema. Lasciavo che gli uomini annegassero nella cupidigia dei
loro
averi, nella stoltezza delle loro azioni, nelle rappresaglie che
amavano così
tanto creare.
Quando le guerre cessarono e le rivolte
furono soffocate,
decisi di lasciare quel paesino ormai quasi distrutto e recarmi nella
più bella
città che in quel tempo fosse mai esistita: Dùn
Èideann,
o,
come
direste
voi, Edimburgo. Credo fosse il 1329. Aye, quando la nostra nazione,
anziché di guerre cruente
contro
l’Inghilterra, era teatro di continue lotte fra i nostri
stessi nobili. Non nego che vi avevo partecipato anch’io, al
principio. Ma avevo sempre desiderato, maggiormente, la quiete. La
quiete che non avevo più trovato da quando quella
bellissima vampira mi aveva morso. E la trovai proprio lì,
in
quella cittadina. Nessuno potrebbe mai immaginare il piacere impervio
che
provai nell’incontrare tutti quei letterati e quei filosofi
che vi si erano
radunati, nel crogiolarmi nel loro sapere, di apprendere
ciò di cui
erano a conoscenza solo standoli a sentire da lontano. Con i poteri che
avevo acquisito, ero persino in grado di
eguagliarli.
Sapevo leggere e scrivere, io che non
avevo mai potuto
farlo, e spesso mi accostavo a loro intromettendomi nei discorsi,
intrattenendo
discussioni filosofiche che non avrei mai potuto fare, se fossi stato
ancora il
ragazzo umano d’un tempo. Lo stupore era talmente tanto che
quasi non me ne capacitai
immediatamente, vagando fra le strade quando il giorno si tingeva dei
colori del
sangue che io stesso versavo, distratto dalla grandezza e dallo
splendore che
quella città, alla luce del sole o a quella della luna,
aveva da offrirmi.
Acquistai un casolare non molto lontano
dalla città,
un’antica magione che nei tempi d’oggi non vedo da
molto, ma dove passai
parecchi dei miei giorni immerso nella grande biblioteca di cui era
fornita,
andando a caccia di notte e rituffandomi nella lettura di quei testi
che un
tempo non avrei nemmeno potuto toccare per quanto era alto il loro
valore. Era una sorta di piacere che andava oltre al suo senso
intimo, quello che provavo e vivevo. Amavo l’odore del
sangue, amavo ripulirlo dalle mie labbra
quando
minacciava di sporcare le belle vesti che mi compravo, o lasciando
persino che
colasse senza remore, macchiandomi le mani e il volto come fosse
l’elisir
dell’eterna giovinezza che molti stolti andavano ricercando.
Ero io l’emblema
dell’eternità. E passai dei secoli stupendi, nel
torpore di quell’essenza.
Il nutrimento non mancava mai,
soprattutto durante gli anni
dei dissidi che continuavano, e continuano tutt’ora,
indistintamente fra noi e
l’Inghilterra nonostante il nostro sovrano avesse in sposa
una donna di quella dinastia. Potevo uccidere tranquillamente quando
più mi aggradava,
senza dovermi preoccupare se la vigilanza, in quegli anni molto
forzata,
scorgeva me o le vittime che abbandonavo per la strada. Scoprii
persino di poterne creare altri, come me. Miei servitori fedeli che
mandai poi per il mondo, a conoscere le gioie
e i tormenti, a carpirne i più reconditi segreti.
Il culmine di quella che per me era
ormai divenuta
un’indescrivibile lussuria lo raggiunsi durante gli anni
della Riforma. Provavo una bizzarra sorta di divertimento, quando
assistevo
a quelle lotte, non solo politiche, ma persino religiose. Fingevo
d’esser dalla parte di uno e dell’altro
indistintamente, aspettando solo il momento propizio per attuare i miei
assalti, cibandomi di loro e godendo del terrore dipinto sui loro
scialbi e
lisci volti prima della fine. Ne vidi molte, in quei secoli. Abolizioni
religiose, guerre civili, protestanti e cattolici si battevano per
motivi a cui io non
prestavo nemmeno attenzione.
La pace non si raggiunse molto presto,
ci volle l’ascesa
in
trono di non ricordo quanti sovrani, prima che questo avvenisse, ma fu
in qugli anni che la conobbi. Anche se ero diventato la preda
d’un cacciatore, che
chissà
come mi aveva trovato e sapeva
cos’ero,
quante vittime avevo mietuto, riuscii
a conoscerla. Trisha. Così si chiamava. Uscivo tutti i
pomeriggi
solo per incontrarla, vedendola
sempre lì, seduta alla vetrina dell’erborista.
Era splendida, non avevo visto nulla di
così bello da quando
la vampira d’argento m’aveva
trasformato. Aveva i capelli lunghi, d’un castano dorato
quando la luce
li colpiva, e li lasciava spesso sciolti, o li legava in una piccola
crocchia
quando lavorava. Di rado i suoi grandi occhi color nocciola
incrociavano i
miei, ma, quando lo facevano, vedevo una sorta di luminosità
in
essi. Desideravo quella donna. La volevo. E non tardai a parlarle,
presentandomi a lei per quel che
ero. O quasi. Non le dissi che ero un vampiro, ma un Laird. Ne rimase
colpita, ma non fu per quello che mi amò, dopo.
Passammo molto tempo insieme, fu capace
di farmi ritrovare
il calore che non sentivo da molti secoli, un qualcosa di profondo che
non
aveva voce. Divenne mia sposa qualche anno dopo. La portai nel lusso e
nell’agio dei miei averi, e lei mi
accolse nel suo letto come fossi un normale uomo, amandomi come mai
nessuna
avrebbe mai saputo fare. Nemmeno fece domande sulla freddezza del mio
corpo.
Mi donò, con mia grande
sorpresa, due figli. Non avrei
mai pensato, fino a quel momento, che un vampiro
fosse fertile. Persino lei era sempre stata cagionevole di salute, non
credevo avrebbe potuto sopportare due gravidanze. E alla vista di
quelle creature minute, fragili ma forti,
non so dire cosa provai. Avrei dovuto essere orgoglioso, come tutti i
padri, ma non sono sicuro che l’emozione che
serpeggiò
nel mio
corpo fosse orgoglio. Stavo comunque per dimenticarmi la cosa
più importante,
ciò
che la rendeva, per me, speciale. Era cattolica. Era cattolica ed era
sposa d’un vampiro. Era cattolica e aveva donato ad un mostro
due
figli. Ah, che ironia!
Che sottile sarcasmo!
Seppe della mia natura soltanto un paio
d’anni dopo,
quando
tornai a casa ad ora tarda con gli abiti sporchi di sangue, del sangue
di uno
della congrega che voleva sterminarmi. Era rimasta a vegliare su uno
dei nostri due figli, Edward. Non essendo immune alle normali malattie
degli esseri umani,
a undici anni aveva contratto una febbre così forte che
quasi temetti lo
perdemmo, come persi i miei genitori e come rischiai di morire
anch’io, se non
fossi ciò che sono. E quella notte, in cui la sua salute era
quasi migliorata,
la mia Trisha non aveva lasciato che fossero i servi o la governante ad
occuparsi di lui, ma aveva provveduto lei stessa.
L’espressione sconvolta del
suo volto
quando mi vide fu terrificante. Non riesco tutt’ora a
dimenticarla. Portava una catenina con una croce d’argento,
sulla
camicia
da notte. Aveva preso l’abitudine d’indossarla
quando
andava
a
controllare la febbre ad Edward e ad augurare la buona notte al nostro
secondo
figlio, Alphonse, spesso recitando in latino qualche preghiera
affidando i loro
sogni al suo Dio. Alla vista del sangue che mi macchiava il viso, il
colletto
e persino i polsini in trina,
i suoi occhi si erano spalancati e ingigantiti,
mentre si avvicinava piano, con cautela. Sfiorò tutto,
terrorizzata.
«Ti hanno
aggredito?» una sua domanda flebile e
accorata,
la mano che passava in rassegna del mio corpo alla muta ricerca di
possibili
ferite. Non era raro, a quel tempo, che briganti o malfattori
attaccassero uomini di prestigio come me. E nel velo
d’ignoranza in cui viveva, nemmeno lei avrebbe
potuto pensare che fossi io, l’assassino.
Le avevo poggiato delicato una mano su
una guancia,
sfiorandogliela appena prima di scansare le sue mani e cingerle i
fianchi con
un braccio per portarla nel piccolo salotto. Quando si fu accomodata la
guardai intensamente, senza avere
realmente il coraggio di farlo. Sentivo la tristezza gravarmi in volto,
sapevo che in quel
modo avrei rovinato tutto ciò che in quegli anni avevamo
creato fra noi, la
felicità e l’intimità che, sebbene le
differenze culturali e sociali, ci aveva
legati, persino la diversa appartenenza. Suo padre difatti, un nobile
inglese, aveva permesso le
nostre nozze solo per la posizione che mi ero conquistato in quei
secoli, e, a
dire la verità, anche per mia intercessione. Avevo usato un
pizzico del mio potere, per convincerlo. E una volta riuscito, nella
dote aveva persino aggiunto un
possedimento nei pressi di un piccolo paesino inglese, dove mi trovo
tutt’ora. Ma non è su questo che dovrei dilungarmi.
Ricordo che mi persi nei suoi grandi
occhi, nelle onde che i
suoi capelli sciolti creavano ricadendo sulle spalle, contrastando con
il
candido colore della sua pelle. Non riuscii a dire nulla, solo a
guardarla. Era qualcosa che non si sarebbe mai potuto spiegare a
parole. Così mi sedetti al suo fianco, poggiando il mento
sulla
sua
spalla e inspirando a fondo il suo odore, concentrandomi sul pulsare
ritmico
del battito del suo cuore, del calore del suo corpo contro il gelo che
investiva il mio. L’avevo desiderata come un uomo
può
desiderare una
donna, ma
l’avevo anche desiderata come uno della mia specie
avrebbe potuto
desiderare del sangue. Era anche il suo sangue a tentarmi, non solo il
suo corpo. Mi ero sempre controllato a lungo, soprattutto nel non dirle
la verità, ma quella notte non so cosa mi spinse a farlo.
Mi allontanai da lei per rimettermi in
piedi,
traendo un lungo sospiro e voltando la testa, incapace di resistere
ancora al
suo sguardo attento.
«Ti senti bene,
caro?» ancora una domanda, alla
quale
esigeva risposta. Qualsiasi cosa avessi detto, per me sarebbe
sempre sembrata ironica. Un vampiro non può stare bene,
indipendentemente da quanto
si è nutrito. E mi si strinse il cuore, mentre la guardavo.
«Sono anni, ormai, che non sto
bene, mo
mnà [3]»,
mormorai, chinandomi verso di lei. Ancora una volta respirai il suo
profumo, un misto di rose
selvatiche e lavanda che portava sempre, anche quando passava le sue
giornate
nel nostro giardino. E non so cosa mi spinse a farlo, fatto sta che
schiusi molto
lentamente le labbra, snudando le zanne senza pronunciar parola.
Parlavano da soli, quei canini perlacei che possedevo. E non mi
sfuggì affatto l’espressione che
aveva assunto il
suo volto.
Gli occhi dilatati, la bocca serrata
come per non gridare e
non svegliare i piccoli o i domestici, il suo corpo che si alzava per
allontanarsi da me. «Vampiro...» solo quella
parola, mentre la vedevo
stringere
fra le mani la sua piccola croce argentata, mentre la vedevo
indietreggiare sempre
di più.
Quando provai ad avvicinarmi mi
scacciò, scuotendo con
impeto la testa e correndo via, attraversando tutta la casa per uscire
fuori
nella gelida e piovosa notte. Seguii la sua figura dalle grandi
finestre, incapace di
muovermi. Tutto si era ormai infranto, caduto a pezzi come uno
specchio e lasciando che le sue schegge si conficcassero nel mio cuore,
che da
quel momento non provò più nulla.
La ritrovammo due giorni dopo, isolata
dal mondo a dormire
nel suo giardino. Era molto fredda, e la sua salute cagionevole si era
aggravata. Ci lasciò qualche mese dopo. I miei figli non si
ripresero molto presto, proprio come accadde a me. Il lutto fu
più eterno dei secoli che avevo passato in
solitudine. Per dimenticare, cominciai a viaggiare, portando con me
Edward e
Alphonse per far vedere loro il mondo, nonostante la giovane
età, o
lasciandoli per pochi giorni con la governante per raggiungere i
possedimenti
che avevo ormai ereditato in Inghilterra, per controllare la loro
validità. Non restammo a lungo ad Edimburgo, soprattutto per
distanziarmi dal
cacciatore ormai divenuto la mia ombra.
Spesso ci ritiravamo in quel piccolo
maniero, li portavo
lì
con la scusa delle vacanze estive, ma era solo per non pensare
all’orrore a cui io stesso avevo
dato vita e a cui avevo dato forma, al terribile errore che avevo fatto
raccontandole la verità. Nulla però, purtroppo,
poteva
farmi dimenticare. Vedevo lei quando guardavo il volto di Edward.
Vedevo lei quando mi perdevo negli occhi più scuri di
Alphonse. E anche il ritratto che spesso rimiravo non faceva altro che
ricordarmela. L’unico ritratto che avevo di noi due e i
nostri
figli,
l’unica cosa che avrebbe mai lasciato intendere la bellezza
che lei possedeva a
chi non avrebbe mai potuto vederla. Perdevo ore, durante la notte, dopo
la caccia, a fissare
intensamente quel ritratto. Nella mia solitudine era ciò che
potevo fare.
Un episodio mi è rimasto
impresso, un qualcosa che non
credevo possibile a quel tempo. Ero appena tornato da un giro di ronda
per la città, dopo
essermi nutrito ed essermi dissolto facendo perdere le mie tracce a
quella che
era ormai divenuta la mia ombra. Avevo trovato Edward e Alphonse
davanti al ritratto, ad
osservarlo e a spostare il loro sguardo sulle poche candele che, nei
candelabri, illuminavano la stanza. Non riuscii subito a capire cosa
stessero facendo, o almeno
finché non sentii Alphonse mormorare qualche parola nella
nostra lingua, parole
che mi ricordarono una delle preghiere di Trisha. E la piccola risatina
che si era lasciato sfuggire Edward,
limpida e cristallina, mi colpì come uno schiaffo in pieno
viso. Rassomigliava a quella dolce e delicata della maestosa
vampira che mi aveva donato quella vita, era ammaliante e piena
d’innocenza al
tempo stesso che ne rimasi turbato.
Ero nascosto fra le ombre e li
osservavo, stando attento ad
ogni minimo particolare. Alphonse, che se ben ricordo aveva
undici anni, parlava adesso
tranquillo e sciolto in inglese, ormai utilizzato da tutti,
accarezzando la
cornice del ritratto, gettando giusto qualche occhiata verso Edward,
più grande
di lui di due anni. Lui stava invece guardando quasi stupito le
candele, e scuoteva
di tanto in tanto la testa mentre borbottava tra se e se qualche
parola, in
latino.
«Se papà viene a
sapere che sai questa lingua ti
punirà», lo
ammonì Alphonse, con la semplicità con cui un
bambino può dire qualcosa.
Vidi Edward rivolgergli un sorriso
indulgente, un sorriso
che lo fece sembrare più grande. «Se tu non glielo
dici, non lo saprà»,
replicò, allargando
il sorriso e lasciandosi sfuggire un’altra piccola risata.
«L’ho imparata dalla
mamma, non voglio dimenticarla».
«Ma la mamma non te
l’ha mai insegnata, come hai
fatto?»
«Mi è bastata
sentirla quando la parlava per
capirla».
Forse quello che sentii dietro la
schiena fu un brivido
gelido, quando pronunciò quelle parole, non so dirlo con
esattezza, adesso. Avevo il timore che quella sua frase, nella sua
innocenza,
riservasse misteri oscuri. Sperai che fosse solo un caso, che fosse un
ragazzino come
tanti che aveva una maggiore capacità
d’apprendimento rispetto ai suoi
coetanei, ma dovetti ricredermi quando compì quattordici
anni e lo
affidai ad un maestro privato per insegnargli tutto ciò di
cui aveva bisogno.
Un giorno il maestro mi prese in
disparte, giusto prima che
uscissi. Eravamo in salotto, e le sue parole mi stupirono.
«Conosce tutti i testi a
memoria, li legge in meno di mezza
giornata, mio Signore.» questo mi disse, e gli leggevo il
terrore negli occhi. «E
quando provo a fargli una domanda, mi anticipa chiedendomi a modo suo
cosa
significa. Sembra mi legga nel pensiero.»
Era sicuramente il terrore, a dare quel
colore a quello
sguardo dilatato che aveva. Aveva paura di mio figlio. Dovetti
sbarazzarmi di lui quello stesso giorno. Voleva lasciare il suo
servizio e andare altrove, portando
con sé il segreto della mia famiglia, e non potevo
permettere
che altri venissero a conoscenza di
quel che sarebbero potuti diventare i miei figli, del reale terrore che
avrebbero potuto scatenare.
Mi nutrii di lui, sbarazzandomi del
corpo prima che altri lo
trovassero e facendo in modo che risultasse esser partito lontano.
Dovetti inoltre verificare le sue parole, capire fino a che
punto fosse in avanzamento il “virus” che io avevo
trasmesso ad entrambi. E quando mi specchiai negli occhi di Edward, che
quand’era
bambino tendevano ad un color nocciola come quelli di Trisha, capii che
il
momento non avrebbe tardato ad arrivare. Erano divenuti quasi color
oro, profondi e dolci come due
pozze di miele.
«Dovete dirmi qualcosa,
padre?» mi aveva chiesto,
sbattendo
aggraziato le palpebre. Si stava preparando per coricarsi accanto al
fratello, con
il quale divideva ancora la camera.
Mi invase il terrore nel ricordare
ciò che era successo
con
Trisha, così scossi la testa, baciando le guance
d’entrambi. «Buona notte, figli miei»,
dissi solo,
dando vita
ad un
piccolo sorriso. «Dormite sonni tranquilli, sarà
la luna a vegliare su di voi». Li lasciai poi per andare a
caccia, correndo in libertà
sotto il manto di stelle che ricopriva il cielo oscuro, sentendo la
consistenza
delle tenebre sulla pelle, come una carezza, il fruscio
dell’uomo che mi
seguiva come una presenza inconsistente e misteriosa. Voleva vedermi
morto, com’era suo lavoro, ma non mi attaccava mai. Si
limitava
solo a seguirmi silenzioso.
Passai poi gli anni seguenti stando
attento a lui e ad ogni
cambiamento da parte dei miei figli, osservando sconcertato il
portamento con
cui camminavano, la grazia e l’eleganza che dimostravano
quando voltavano
appena la testa o intrattenevano conversazioni con altre persone. Ed
ero più che sicuro che tutti li ascoltassero ammaliati,
nonostante fossero appena dei ragazzini sedicenni entrati da poco a far
parte
del regno dorato della nobiltà.
L’ora giunse nella loro
diciottesima estate. Era il sesto mese della nostra permanenza nel
maniero dei
miei possedimenti a Sheerness, e da poco ero rientrato
dall’incontro che avevo
avuto con uno dei ricchi borghesi che lavoravano a Londra, trovando
l’alloggio
che dividevo con il maggiore dei miei figli completamente vuoto.
L’ombra che ci aveva tenuti d’occhio si era
dissipata, forse
lasciandomi in pace sebbene non lo credessi, e avevo pensato che Edward
stesse
dormendo, per questo ero entrato piano, ma non l’avevo
trovato.
Rientrò solo un’ora
prima dell’alba, con
un odore che non
era il suo sul corpo. Credetti per un attimo che fosse sangue, quello
che sentivo,
che la transizione si fosse impossessata del suo corpo imponendogli di
nutrirsi. Solo dopo mi accorsi che la sua innocenza era
sparita. «Dove sei stato?» gli avevo chiesto,
stanco per
l’ora del
mio riposo, che si avvicinava.
Mi aveva rivolto uno sguardo spaesato,
forse sconvolto,
mentre si scioglieva i capelli per passarvi le dita in mezzo,
affrettandosi a
voltare la testa. Era l’atteggiamento di chi ha fatto
qualcosa di cui si
vergogna. «Ho fatto una passeggiata, padre», fu la
sua
risposta,
mentre si coricava con ancora indosso la sua camicia. «Sono
stato fuori solo
mezz’ora».
«Bugiardo»,
replicai, ricevendo
un’occhiata ambrata.
«Non potete sapere se mento,
non
c’eravate».
«Sono rientrato tre ore fa.
Motivo per cui non ti credo,
Edward».
Gli occhi dorati si dilatarono, alle mie
parole. Mi parve che si
mordesse il labbro inferiore quasi a sangue,
e se l’avesse fatto, ancora affamato com’ero, sarei
stato inebriato dall’odore. E anche quando si
scostò di
poco i capelli dal collo, sentii
l’odore della sua pelle, ma a quell’odore che avevo
imparato con gli anni a
conoscere, s’era mescolato un altro, un altro che mi parve
familiare. Era l’odore d’un altro uomo,
l’odore del
figlio di colui che
usavo come alibi per le mie vittime. Ecco dov’era stato,
quella
notte. Disobbedendomi, era stato insieme a quel ragazzo. Ma non era
stato propriamente quello, il motivo del loro
cambiamento. Forse il fatto che stavo morendo.
Fu quello il punto di rottura,
probabilmente.
Poiché quando ritornammo a Sheerness, qualche tempo dopo,
anche il cacciatore che mi dava la caccia ci seguì,
ingaggiai con lui una
furiosa lotta, uscendone vivo per miracolo. Con una lama
d’argento mi aveva squarciato il fianco, e se
non fossi riuscito ad azzannarlo alla gola come un lupo mannaro, mi
avrebbe
conficcato un paletto nel cuore.
A casa, terrorizzato dalla morte e dalla
prospettiva
che i
miei figli si sarebbero trasformati senza comprenderne il
perché, presi una
drastica decisione. Accelerai i tempi, pensandoci io stesso. Tolsi
prima di mezzo i domestici, poi passai a loro. La paura sui loro volti,
i loro occhi che mi fissavano. Gli stessi occhi con cui mi aveva
guardato Trisha, lo stesso
timore. Le urla, i battiti che acceleravano e il sangue che colava.
Furono giorni d’Inferno quelli che passarono per compiere
la
transizione, e ancor più quando fui costretto a togliere di
mezzo l’unico
ostacolo che frenava la sete di sangue di Edward. Quel ragazzo dovetti
ucciderlo e maledirlo. Lo condannai ad una vita che non era vita,
lasciando che
fosse il tempo a decidere la sua sorte. Credo si chiamasse Hamish, o
forse Roy. Aye, il secondo nome. Si
chiamava Roy.
Non posso dimenticare lo sguardo
inferocito di Edward, quei
suoi occhi dorati e tendenti al nero che esprimevano rabbia, i canini
appena
spuntati palpitanti fra le sue labbra. E tuttora non me lo perdona. A
distanza di trecento anni dall’accaduto, ancora ripensa a
quella storia. Già, siamo nel 1915, e quella tragedia
accadde
nel 1612.
Non so quante volte provò a
morire, in quegli
anni. Si rifiutava di vivere quella vita come se fosse qualcosa
d’indescrivibile, la vedeva come una maledizione che non gli
lasciava scampo. Provò persino ad attaccare me, a fuggire
nuovamente nella
terra in cui era nato. Alphonse, invece, se n’era fatto una
ragione molto
più
velocemente di lui. Veniva con me a caccia, godeva
dell’inebriante odore che il
sangue lasciava fluttuare nell’aria e della paura che vibrava
nei corpi delle
vittime prima che le massacrasse. Spargeva troppo sangue, ma imparava
in fretta.
Ci volle poco prima che anche Edward
lasciasse perdere i
buoni propositi. Ricordo che, poco meno di cinquant’anni fa,
si
imbatté
in un gruppo di cacciatori. Quella volta era stata la prima in cui ero
stato realmente
orgoglioso di lui, in cui l’avevo davvero visto perdere il
controllo. Troppo assetato, non aveva capito più nulla. Ero
rimasto a rimirare la sua forza e la sua agilità come un
normale genitore può ammirare gli sforzi del figlio sul
lavoro o sullo studio. Il modo fluido con cui feriva quegli
uomini che tentavano di
colpirlo, il momento in cui aveva sfregiato uno di loro sfigurando il
suo volto
a vita. Tutto il sangue che scorreva a fiumi era strepitoso, e
contrastava divinamente sulla sua pelle candida e sui suoi biondi
capelli. Dopo trecento anni non ci si fanno più molti
scrupoli
sull’uccidere, dopo tutto. O lo fai, o sei tu a morire. E ci
aveva messo poco, a capirlo.
Ora gli lascio fare quello che vuole,
attendendo il momento
propizio per il sacrificio. Abbiamo ritrovato i discendenti del
cacciatore che mi ha
quasi ucciso, e non voglio sprecare nessuna occasione ottima per
eliminare la
loro dinastia una volta per tutte. Anche se si sta dedicando molto di
più a pedinare quel
prete, dovrà presto obbedirmi. So che gli ricorda il suo
antico amante, e so che forse è
proprio lui, ma dirglielo adesso, sarebbe come condannarmi a morte da
solo. Senza di lui non potrei veder compiuta la mia vendetta. E presto,
molto presto, si scriverà la parola fine, su
questo lago di sangue che stiamo creando. Le lapidi grideranno, le
campane suoneranno il canto della
morte per porre il loro omaggio a noi spettri immortali. Persino le
tenebre diverranno un tutt’uno con noi, donandoci
la protezione di cui abbiamo bisogno per consacrare la nostra causa e
lavare
via il disonore e l’umiliazione dal nostro nome.
La vendetta è un piatto che
va servito freddo, ma nelle
mie mani diverrà l’Inferno. Un Inferno dal quale
nessuno
si potrà salvare, forse nemmeno noi. Vivere o morire, dopo
quasi
mille anni, non fa poi tanta
differenza. Questo, però, sarà il tempo a
deciderlo, o
persino mio figlio Edward. Io non devo far altro che attendere.
_Note inconcludenti dell'autrice
Mi
ha fatto molto piacere scrivere questa storia. Nonostante fosse molto
introspettiva e non sapessi esattamente come
svolgerla, alla fin fine le mani sulla tastiera filavano da sole e sono
riuscita ad arrivare alla conclusione, dando vita al passato di Van e
facendo così capire bene che cosa lo abbia spinto a
comportarsi
nel modo in cui si comporta adesso. Non ha difatti avuto un gran bel
passato e dopo mille anni ha una visione ben diversa del mondo, cosa
che comunque non lo giustifica ma riesce a farlo comprendere meglio.
Ultime note. La canzone d'apertura è degli HIM
[His Infernal Majesty] e si intitola
Wings
of a Butterfly.
Un pizzico di pubblicità prima di
sparire, che non fa mai
male! In corso c'è ancora “Il
figlio delle Tenebre”
e
spero che qualcuno, dopo aver letto questa doppia shot,
si appassioni ai vampiri e magari vada a darci una
sbirciatina...
Adesso, con un bell'effetto a dissolvenza, dopo l'ennesima
notte passata insonne, mi dileguo!
[1] Il
sangue sulle
nostre mani è il vino che offriamo in
sacrificio
Vieni, e
mostriamo loro il tuo amore
strappiamo le
ali di una farfalla
per la tua
anima, amore mio
strappiamo le
ali di una farfalla
[2]
Arrivederci
(A
te) mio bellissimo angelo
[Gaelico
scozzese]
[3]Moglie
mia
[Gaelico
scozzese]
Dona l'8% del
tuo tempo alla causa pro-recensioni.
Farai
felice milioni di
scrittori.
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