NEVERVILLE
-6-
Volo
le scale di casa senza sentire altro che il cuore impazzito frusciare
nelle orecchie, la gola riarsa, gli occhi offuscati dalle lacrime.
Spalanco il portone singhiozzando, attraverso la strada, e poi via, per
il bosco, il terrore che mi spezza le vene, le ginocchia molli, la voce
di mia madre che mi rimbomba nella testa, senza sosta.
Corro senza voltarmi indietro, la ghiaia sdrucciolevole sotto alle
suole, il mondo che balla scomposto davanti ai miei occhi a ogni passo.
E dietro di me, il nulla.
Finalmente arrivo alla grotta, e allora mi blocco, per non
scivolare sul fango. Tremo, mi stringo contro il giaccone, mi faccio
animo, mamma mi raggiungerà a breve... me lo ha promesso...
Un senso di angoscia improvviso mi mozza il fiato, e allora raggiungo
la vasca, più in fretta che posso. Le mani sul bordo, mi
volto,
lentamente.
Mi pare che... che ci sia qualcosa, fuori dalla grotta. Non saprei dire
cosa... mi sembra di sentire un brusìo, o forse è
solo il
frastuono che ancora fa il sangue pulsando scomposto nelle
tempie... e d'improvviso... vedo
dei bagliori... delle piccole lame di luce che appaiono e scompaiono,
in un guizzo.
L'acqua, un posto sicuro (1) ... Coraggio, un ultimo passo e
sarò salva!
Guardo l'acqua, smossa dal rocchio che esce dalla roccia. La tocco con
un dito, è gelida.
E' un attimo, e scavalco l'orlo di pietra con uno stivale. L'acqua
penetra sotto le calze, imbeve i pantaloni, una gamba e
poi l'altra.
Quelle strane scie fluorescenti continuano a danzare all'ingresso della
grotta.
Trattengo il fiato, le spalle contro la parete di sasso, mi
lascio
scivolare, l'acqua che risale attraverso il giaccone, la maglia che si
appiccica alla pancia. Brividi.
Stringo le ginocchia al petto, ho così freddo che i denti
battono da soli tra le labbra dischiuse.
Ma qui non mi cercheranno. Qui non potranno farmi del male.
Mammina, fai veloce, che ho tanta paura.
Ciò che mi scorre nelle vene mi rende un
essere anomalo.
Non nell'aspetto esteriore. Forse sono leggermente più
pallida degli altri, i miei occhi hanno una rara trasparenza, sebbene
screziata di verde, che non ho mai riscontrato in altre persone. E da
un paio di settimane a questa parte ho un udito da
pipistrello. Ma
per il resto, se posso dir così, sono una ragazza come le
altre.
Eppure incuto diffidenza. Un malcelato timore. Ne sono consapevole, e
non biasimo coloro che mi evitano.
Ma forse se sapessero che anche io provo emozioni, formulo
pensieri e ipotesi, al pari loro...
C'è
stato un tempo in cui guardavo ogni cosa con occhi pieni di speranza.
Poi la mia vita ha deviato il suo
corso... e adesso, per la prima volta... mi accorgo che non
è tanto il corpo, che reclama
la sua felicità, quanto l'anima, che ci passa attraverso.
Mi fermo davanti alla porta dell'infermeria. Una leggera pressione del
palmo per farmi aprire, annuncio il mio nome.
La porta scorre, disvelandomi. La dottoressa ruota il busto dallo
sgabello su cui è seduta, mi sorride.
Gli esami sono una routine per me. Mi ci sottopongo ogni
giorno.
Il mio corpo è ricco di un complesso vitale che
potremmo chiamare per semplicità acqua, e lo
è molto più del normale. Molto
più di un qualsiasi altro essere umano, modificato o no.
Ci sono voluti decenni di ricerche perché gli scienziati
trovassero la "misura" giusta, creando un liquido equivalente che
permettesse al corpo umano di vivere e di funzionare alla perfezione.
Ma io sono l'unica che ha sforato ogni limite.
Il mio materiale organico mi rende l'arma più potente al
momento conosciuta contro gli Invasori.
La verità è che ero già predisposta
a essere modificata. Sono l'unica sulla faccia della Terra a possedere
questa caratteristica genetica. Non replicabile. Non
trasmissibile
(il mio sangue è incompatibile con quello degli altri
umani).
E nessuno sa ancora il perché.
Fu chiaro quasi subito, al tempo del Primo Attacco, come stavano le
cose.
Almeno per quello che ho studiato, e per come me l'hanno raccontata,
ché io non ero ancora nata.
Arrivarono sulla Terra, e dopo un primo contatto fortuito e rovinoso
con le acque dell'oceano, non si avvicinarono più all'acqua.
Le loro
astronavi, intendo. Nessuno ha mai visto come fossero fatti i piloti.
Nessuno ha mai visto uno di Loro. Che io sappia, ma è solo
quello che so, ripeto, non ne è mai stato catturato neppure
un
esemplare.
Che cosa cercassero sul nostro pianeta, non è mai stato
stabilito con certezza.
Forse alcune sostanze presenti all'interno del suolo terrestre. Forse
alcuni tipi
di elementi. Forse non sapevano quanto il nostro pianeta potesse
rivelarsi venefico.
Non hanno mai rapito esseri umani. Non hanno mai cercato un "contatto".
Non hanno mai comunicato, sotto nessuna forma.
L'acqua fu usata come un'arma per tenerli a distanza, ma non era
sufficiente. Li danneggiava, ma solo temporaneamente.
La vera svolta fu scoprire che un pilota kamikaze aveva arrecato
più danno di un'intera controffensiva aerospaziale.
Era il nostro organismo
l'arma più efficace.
Gli invasori se ne andarono
all'improvviso così come erano arrivati.
Al tempo del Secondo Attacco, invece, io ero nata, e vivevo a
Neverville.
Chi aveva potuto farlo, volontariamente o meno, era stato spedito nelle
Colonie spaziali. Gli altri erano stati trasferiti nelle metropoli
infraoceaniche, specie di città costruite sotto il livello
del
mare, al sicuro quindi. Pochi erano restati sulla terraferma. Un nucleo
di idealisti, che credevano che
fosse possibile trovare il modo di convivere con gli Invasori, una
manciata di vecchi (i più difficili da sradicare -o forse i
più inutili da salvare), e pochi altri.
E quando Loro tornarono, e spazzarono via quel che era rimasto della
superficie del pianeta, non furono molti i sopravvissuti tratti in
salvo.
Le modifiche genetiche nel frattempo erano state perfezionate, era
stata trovata la misura, che non indeboliva ma fortificava.
Eravamo
pronti per la nostra prima offensiva.
E poi trovarono me.
La dottoressa ha origini asiatiche. Non che la razza abbia una qualche
rilevanza, qui nello spazio.
La osservo, rapita dalla sua cortese efficienza, ogni volta.
Quando gli uomini hanno lasciato la superficie del pianeta il
concetto di etnia o razza ha perso di significato. C'era un luogo da
ripopolare, e questo era quanto. Ma non posso non notare i suoi capelli
lisci e neri, le sue mani piccole, e i suoi piccoli piedi. Si muove
veloce, eppure ossequiosa, gentile, gli occhi amorevoli raccolti
attorno alle rughe, sottili, così come le labbra.
Io credo di essere soprattutto un mistero. Per lei, e anche per gli
scienziati che mi hanno avuto in custodia per molti anni, che
mi hanno studiata e rivoltata come un calzino. Che mi hanno trattata
come un tesoro raro e prezioso, allenata e istruita come dovessi
diventare il migliore dei soldati. Formata e cresciuta
nell'idea che io avrei salvato la Terra e gli esseri umani dell'intero
universo. Che io ero destinata a una morte gloriosa per la salvezza
dell'umanità.
Non ho mai dubitato. Non c'è mai stato un momento, uno solo,
in
cui io abbia avuto paura, o abbia provato qualcosa di simile a un
pentimento o un ripensamento. Non ho mai vacillato. Ho un compito. E'
per questo che sono qui. Non sarei nata diversa altrimenti.
La dottoressa è attenta, quasi delicata. Mi fa entrare
all'interno di una colonna trasparente, che darà in poco
tempo
una schermata di numeri e intervalli di valori, la lista dei parametri
da valutare. Pochi istanti, e posso già sdraiarmi su un
lettino.
- Come ti senti, Mina? Hai qualcosa da riferire? -, mi chiede, come
ogni volta.
- Sto bene, ma c'è una novità -, annuncio subito.
La dottoressa solleva lo sguardo dagli schermi che stava controllando:
-Una novità? -, ripete.
- Sì. Il mio udito è diventato molto sensibile -.
- Molto sensibile quanto? -.
- Riesco a cogliere gli scambi di battute di una conversazione, anche
se non sono presente. Da un paio di settimane a questa parte -.
La dottoressa tace, sembra raccogliere i pensieri.
- Fino a che distanza riesci ad udire distintamente le parole? -,
chiede infine.
A che distanza? Non saprei, davvero.
- All'interno della
Motherhead, sicuramente. Non... non arrivo a cogliere
conversazioni su altre astronavi -, spiego.
Che sia chiaro, non è una capacità psichica, non
leggo i
pensieri, sento le voci... il che mi rende discretamente folle, ma
tant'è.
- Ma se ti chiedo di concentrarti, di prestare attenzione... il luogo
più lontano che percepisci? La sala macchine... il
deposito...
cosa... -.
L'astronave è grande, decisamente. E' strutturata su
più
livelli. Tre, compreso quello in cui ci troviamo adesso. Dove si apre
anche la Sala azzurra, la stanza del capitano, gli alloggi dei piloti e
dell'equipaggio, la Sala bianca... Se mi concentro? Vediamo...
Chiudo gli occhi, lascio fluire i suoni, respiro. Ondate di voci e
parole mi saettano nel cervello, sembrano confusi, si sovrappongono. Mi
concentro, respiro ancora. Voci diverse che si rincorrono. Posso
seguirle, ci riesco, sì, contemporaneamente.
- Mmm... voci che non riconosco, devono essere degli addetti alla
revisione dei veicoli spaziali, perché stanno parlando di
livelli di energia e di manutenzione. Quindi... livello 1... il
più distante da qui. Direi che posso udire una qualunque
conversazione tenuta in un posto qualunque dell'astronave -.
Devo gioirne?
La dottoressa prende atto delle mie parole, annuendo.
- I tuoi livelli vitali sono leggermente alterati, ma non credo che
possano essere all'origine o conseguenza di questo tuo
inaspettato... dono-, riferisce.
- Eseguiamo il prelievo, adesso, così avrò un
quadro completo. Porgimi il braccio, Mina -, continua.
Mi denudo il braccio fino a sopra il gomito. E' bastato pensarlo. Con
queste tute biosensitive è fin troppo facile, dato che
rispondono agli impulsi cerebrali. Si espandono e si modellano sul
corpo, creando una barriera termica, sottile eppure indistruttibile,
almeno dalle armi conosciute.
Riapro gli occhi a fatica.
Devo aver perso conoscenza.
- Il tuo corpo è diventato più sensibile, Mina -,
sentenzia la dottoressa.
Mi accorgo di avere le mascelle contratte, e di sentirmi
inaspettatamente debole.
- Faremo ulteriori indagini, ma non preoccuparti -.
- Okay -, rispondo, a fatica. Ho la gola secca e la voce
tremolante.
- Direi che è il caso che tu vada subito nella vasca. Ma non
credo che sarai in grado di arrivarci con le tue gambe -.
La guardo, incredula. Che diavolo sta dicendo? Provo ad alzarmi dal
lettino, la testa mi gira. Una mano mi blocca, costringendomi
a restare giù.
- Ti ci faccio accompagnare. Devi assolutamente rigenerarti.
Chiederò al Capitano di mandare qualcuno a prenderti -.
- No -, mi affretto a rispondere. Non voglio tirare in mezzo ancora il
Capitano, oggi. - Fate chiamare Jody, nel caso -.
Sì, verrà di sicuro. Mi ha sempre
aiutato, lo farà anche questa volta.
- E' in stanza, ma non è solo, in questo momento -, aggiungo
titubante. - Ma se gli spiegate che ho bisogno di lui, verrà
-.
La dottoressa fa un cenno di assenso con la testa. La vedo
allontanarsi, mentre resto sdraiata, ancorata a quel lettino, incapace
di muovermi.
Il mio corpo sta cambiando, mio malgrado.
Il mio corpo si sta forse ribellando? Tutti fanno affidamento su di me.
Non posso cedere. Proprio non posso (2).
Jody non tarda ad arrivare. Si gratta la testa, e so che è
imbarazzato quando fa così. Nutre una viscerale antipatia
per la dottoressa.
Abbozza un saluto, tossicchia, e mi sorride di sotto in su, senza farsi
vedere.
- Avete finito, con lei? - chiede rivolto alla donna. Lo fa con un tono
aspro, e l'espressione placida della dottoressa lo innervosisce ancora
di più.
- Vieni, piccola -, mi sussurra. Un braccio sotto alle ginocchia, uno
dietro le spalle, e sono tra le sue braccia.
Aspetta di essere nel corridoio per parlarmi di nuovo.
- Che ti hanno fatto, stavolta? -, esordisce, la voce preoccupata.
Tengo la testa sul suo torace, il ritmo calmante del suo cuore contro
il mio orecchio.
- Il solito -, mormoro.
- Beh, non l'hanno capito ancora come sei fatta, che altro devono
analizzare?! -.
E' ancora arrabbiato. Mi sfugge un sorriso. Mi ha sempre difeso, per
quanto ha potuto, sin da ragazzini.
A 12 anni si entra in Accademia per diventare soldati... lì
ci siamo conosciuti, e non ci siamo più lasciati. Dieci anni
di amicizia...
- E' il protocollo -, puntualizzo.
Sbuffa un poco, mentre il corridoio si incunea verso sinistra, e lui
continua a camminare a passo non troppo spedito.
- Non devi raccontarmi niente... di Pete? -, mi chiede a bruciapelo.
- Niente che tu non sappia già -, rispondo. Non mi va di
confessargli che li ho uditi, prima, nella Sala bianca.
Si ferma davanti ad una porta. Allungo una mano, perché si
schiuda, e Jody varca l'ingresso, stando attento a non farmi battere i
piedi contro la cornice dell'apertura.
- Eccoci qua -, commenta.
- Mi metti tu, nella vasca? -, gli chiedo. Ormai, che mi aiuti fino
all'ultimo.
Mugola qualcosa, poi raggiunge il bordo e si inginocchia. Lo fa con
estrema attenzione, contraendo ogni muscolo, per posarmi dentro l'acqua
senza perdere l'equilibrio.
Rotolo giù dalle sue braccia, e mi immergo.
Sono a casa.
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(1) Dai ricordi di Mina, cap. 2.
(2) Va beh, alle Oscariane che mi seguono questa frase
risulterà molto molto familiare <3
Grazie di cuore a tutti voi che leggete, seguite e commentate.
Stavolta capitoletto un po' più lungo, mi piaceva farvi
vedere un po' meglio Jody :)
Credo che adesso il quadro sia un po' più chiaro ... se
riuscirete a pazientare ci sarà anche un po' di azione (no,
non intendo tra Pete e Mina, hahaha) ...
A presto!
Amantea