Ok, scusatemi per il ritardo immenso.
Ma fra esami, inizio lezioni, orari dei treni e altre beghe
varie (fra cui l’ispirazione completamente scomparsa) questo capitolo arriva in
ritardassimo.
Passerei dunque subito alle risposte, che purtroppo dovrò fare in modo abbastanza sbrigativo perché è giusto un
po’ tardi e domani mattina ho la sveglia presto ^^’’’
Rosa_elefante:
Grazie mille, sempre felice che i capitoli piacciano! XD Guarda, per le domande
che mi hai fatto, la risposta ancora non è tempo che la dia.
Nel prossimo capitolo ti si chiariranno un po’ le idee sul come abbia fatto
Shikamaru a capire che la morte di Kiba serviva a mandarlo indietro. Grazie per
la recensione e i complimenti!
CloudRibbon:
*fix con occhi sbrilluccicosi il papiro* ahem. Senti donna, St. Michael
sarà anche St. Michael, ma anche il Pozzo è pur
sempre il Pozzo! Mi sento in colpa se ti stravolgi la trama solo perché abbiamo
usato la stessa teoria per le fic! ç____ç
Grazie per le considerazione sulla resistenza della
mia pazienza nel scrivere senza staccare nemmeno una volta, giuro che non me ne
sono nemmeno accorta… cioè, solo quando ho riletto, il che per me è anche
troppo XD e trattieni le lacrime, il momento buono non è ancora giunto…
Benvenuta nel clan OSUTIA, ovvero “Odiamo Sasuke Uchiha
Tutti Insieme Appassionatamente”. A me non ha fatto pena,
ci ho goduto nel tarturarlo. Oh yeah.
I tuoi rompicapi su Kiba sono più che comprensibili, ma non
posso darvi risposta, per ora. Ma credo che questo
capitolo ti schiarirà un po’ le idee sul dilemma. Il prossimo, se questo non
aiuta, sarà decisamente illuminante. Posso dire lo
stesso delle conseguenti domande, anch’esse troveranno risposta nel capitolo a
seguire. Tranne la seconda. Per sapere se sono vivi
dovrai aspettare il prossimo capitolo XP.
Ti ringrazio ancora tanto per i complimenti. Quando l’ispirazione va via, rileggere le recensioni stile
papiro che mi lasci mi fa tornare la voglia, se non di scrivere, almeno di
impegnarmi a farlo. Grazie di cuore.
Slice:
Grazie a chi, a me? XD Ma grazie e a te per la recensione! Scusa se il mattone
è peso, tenterò di alleggerirlo, giuro *sisi*.
ProudStray:
emh… il tuo “aggiorna veloce” era relativo, vero?
^^’’’’ No, comunque grazie, e scusa se ti ho fatto
aspettare così tanto. Stavo quasi per dire “la prossima volta ci metterò di
meno” ma non metto le mani avanti, dato il periodaccio
di lezioni che mi aspetta… *si angolizza e fa cerchietti*. In ogni caso grazie mille
per la recensione, sempre felice che il mio lavoro piaccia!
Hiko_chan:
Le tue domande sono tutte pertinenti e tutte con risposte che non possa darti per motivi di spoiler XD tranne per una: il “non
mollarmi” era inteso nel senso di “non morire”, dato che era un tantino mezzo
morto (sì, sono una carogna). Ottimo collegamento quello che unisce la morte
con il passaggio da una dimensione all’altra, brava, tienitelo
a mente XD.
Grazie mille per i complimenti e per la recensione! (p.s. io alla maturità ho avuto la
brillante idea di fare il problema che il resto della classe aveva scartato…
niente suggerimenti per me XD)
Soarez:
…la tua sequela di tentativi di sucidio mi lascia
perplessa. Ma, col tempo, ho imparato a non fare
domande.
In ogni caso: sì. Shikamaru è figo. Devo ammettere che lo
sto valutando anche troppo XD mi sta sfuggendo! Orociok
non posso dire se si ritira a vita privata o smonta anche le fondamenta della
terra. It’s
spoiler XP ma si saprà presto, nel prossimo capitolo. Ottima arringa, avvocato,
ottima arringa. La Corte si ritira per deliberare.
Grazie mille per complimenti, recensione, e soprattutto per
la descrizione fantastica dei tuoi tentativi di suicidio e delle ipotesi X°DDD
mi hanno fatto morire!
OnlyAShadow:
Non è esatto. Io AMO complicare le cose XD. E ti
ringrazio, davvero mia santa, per avermi detto che le scene di lotta si
capiscono! ç_______ç *commossa*. Anche
a te tanti grazie per il commento, per i complimenti e per il continuare a
leggere!
Ok, fine risposte *fissa l’orologio e sbianca*
E’ la prima volta che scrivo questo spazio dopo aver scritto il capitolo. Ma per
questo posso dirvi che, a mio parere, è venuto male… e che è un capitolo quasi
inutile, una specie di intermezzo.
Spero non sia peggiorata inesorabilmente
ç_____ç in tal caso mi scuso.
Ora fuggo.
A vuoi tutti, buona lettura!
Chapter
14 ~ Eleventh Echo
Giochi di Ruolo
Quando la donna si portò la mano
alla fronte, chiudendo gli occhi con fare disperato, Kiba intuì subito la
risposta che avrebbe ottenuto anche quella volta.
<< Mi dispiace, Inuzuka >> disse lei,
spostandosi con un gesto rapido della mano un ciuffo biondo sfuggito al ferreo
controllo imposto ai suoi capelli dal piccolo chignon: << non posso
ancora abilitarti al servizio >> disse in un sospiro.
Kiba sbuffò, chiudendo gli occhi per evitare di saltare
quella dannatissima scrivania e cominciare a prenderla a pugni.
<< Perché? >> chiese
invece, la voce fremente di rabbia che per l’ennesima volta si sforzava di
controllare.
<< Lo sai >> ribatté
lei, probabilmente avvertendo la tensione. Era una psicologa del cavolo,
dopotutto: se non lo psico-rincoglioniva lei che lo
faceva di mestiere, chi diamine doveva farlo?
<< Io non le sto mentendo! >> esclamò il
castano, aumentando involontariamente di qualche decibel il volume della
propria voce. E di grazia che aveva aumentato solamente quello e non, per esempio,
l’odio che sentiva corrergli nel corpo insieme a tutti quei medicinali con cui veniva imbottito da due settimane a quella parte.
La donna si appoggiò allo schienale della sedia, sistemando
in maniera quasi maniacale la matita che aveva in mano
all’interno dell’apposito astuccio in metallo. Lo guardò poi, dall’alto della
montatura dei suoi sottili e pseudo-professionali
occhiali da vista, compatendolo per l’ennesima, maledetta, disperata volta.
<< E’ difficile credere che tu non stia mentendo, Kiba >> disse, passando direttamente al nome. << Insomma…
cunicoli spazio-tempo, un’accademia in cui studiano angeli, esorcisti, esper e chi più ne ha più ne metta! >> esclamò lei,
incredula persino delle sue stesse parole.
<< Non è una menzogna, l’ho
vissuto davvero! >> ribatté Kiba, sporgendosi verso la donna con fare
minaccioso.
<< Quando? Nei pochi minuti
in cui hai perso conoscenza dopo l’attacco? >> rispose prontamente la
dottoressa, sfidandolo con lo sguardo ad obiettare una tale verità.
Cosa che Kiba non poté fare, anche
se avrebbe tanto voluto ringhiare dalla frustrazione.
La donna lo osservò, sospirando per scaricare a sua volta la
tensione. << Senti… sei in cura con me da quasi due settimane, praticamente da quando ti sei svegliato. Vieni qui tre volte a settimana, il che fanno un totale di sei
sedute, e sei volte su sei ti ho sentito raccontare ancora e ancora la stessa
storia. All’inizio pensavo che fosse una specie di trauma mentale dovuto allo
shock, oppure un’allucinazione, ma dopo due settimane credo
che lo shock sia passato. Si può sapere cosa succede? Ti basterebbe dire la
verità e potresti riprendere il servizio. Potresti tornare ad essere un
normalissimo ninja! >> disse la donna, probabilmente presa da livelli di
stress pressoché sconosciuti persino a chi faceva il suo mestiere.
Oppure, semplicemente, incapace di
accettare una sconfitta… se di sconfitta si poteva parlare.
Sicuramente, per lei un paziente che non riusciva a lavorare
perché si ostinava a sostenere un castello in aria, era sicuramente una perdita
su tutta la linea.
Il ragazzo non rispose alla provocazione, preferendo di gran lunga alzarsi e andare a sfogare la sua agitazione
su un qualche innocuo “qualcosa” fuori di lì. Almeno sarebbe uscito e avrebbe
rimandato quella sfrontatissima farsa alla settimana
successiva.
Senza salutare si voltò, sistemandosi la felpa rossa in cui
si era infilato solamente per rispetto al pudore pubblico, arrivando
velocemente alla porta.
La dottoressa lo salutò con un “ci vediamo lunedì” mentre,
molto probabilmente, stampava sulla pergamena da consegnare all’Hokage un
purpureo “non idoneo” che sanciva la sua temporanea sospensione dal corpo dei
ninja di Konoha.
Perché sì. Lui, Kiba Inuzuka, era
ufficialmente in cura dalla psichiatra di turno dell’Ospedale della Foglia.
Motivo? Semplice: diceva la verità.
…Beh, ok. Doveva ammettere che per chi lo ascoltava da
fuori, poteva non essere così semplice.
Anzi, anche lui aveva impiegato il suo tempo per fare il
punto della situazione… e il risultato era una confusione da fare invidia ad un
dipinto di arte post-moderno-futurista
o di qualche altro periodo reale o fittizio.
A quel pensiero si fermò esattamente nel mezzo del
corridoio, poco prima delle scale.
Ecco, ci era cascato di nuovo.
Maledizione, maledizione, MALEDIZIONE.
L’arte futurista in quel mondo non c’era. Konoha aveva di
tutto tranne che un museo.
Ed eccolo lì, il suo problema.
Si ricordava due vite. Due esistenze
distinte, in due mondi altrettanto distinti con svolgimenti prettamente simili
ma del tutto differenti.
In uno lui era un ninja, un chunin per la precisione. Aveva
vissuto una vita incentrata sul desiderio di diventare il migliore del suo
clan, aveva frequentato l’accademia ninja, era stato ammesso nella squadra
della maestra Kurenai insieme a Shino e Hinata ed era, alla fine, diventato un
militare utile per il suo paese: Konoha.
Perché si era risvegliato in
ospedale? Semplice. Durante una missione di livello B erano
stati attaccati: lui guidava la fila, non si era accorto che un ninja nemico
gli veniva incontro ed era stato trafitto da una katana.
Ma no, non era così facile.
Perché nell’altro mondo lui era sempre Kiba Inuzuka, ma era
uno studente con pochissima voglia di studiare, addetto alle risse del
doposcuola e che viveva in simbiosi con il joystic della playstation. Era
entrato in un’accademia speciale dopo che la madre aveva deciso di pagare il
college alla sorella maggiore con i soldi della sua retta, aveva conosciuto
gente tutta schizzata e particolare, aveva rischiato la vita e, tramite una
specie di rituale a lui sconosciuto (che però comprendeva la sua morte) era
ritornato nel suo mondo trafitto con una spada di cristallo dal suo ragazzo.
Chiuse gli occhi, portandosi la mano destra a stringersi la
felpa in corrispondenza dello stomaco.
Quella era una delle cose che faceva
più male ricordare.
Shikamaru.
O meglio, i due Shikamaru.
Shikamaru Nara di Konoha e il suo Shikamaru Nara del St.
Michael.
Tra i due cambiava solamente l’aggettivo possessivo. Erano
uguali, similissimi e, nonostante non volesse
pensarci, non poteva evitarselo.
Lo Shikamaru di quel mondo non condivideva niente con lui se
non una vecchia amicizia ormai arrugginita dal tempo.
Non era il suo ragazzo, non gli voleva più bene di quanto
non ne volesse a Choji o Naruto e, soprattutto, non
era mai e poi mai stato infatuato di lui.
Era… svanito tutto.
Portò una mano sotto la felpa sfiorando la ferita sul suo
addome. Il taglio, che gli trapassava il costato e si riproponeva
speculare sulla schiena, al tatto era ruvido: dopo essere stato trattato con
delle tecniche magiche per svariate ore i medici avevano lasciato alle sue
piastrine l’onore di formare una spessa crosta scura, aiutate dai punti
metallici che, a seconda dei movimenti, gli tiravano dolorosamente la pelle.
Ormai, una volta fatto il callo a
cose strane, non reputava più spaventoso il fatto che il ninja di quel mondo, e
lo Shikamaru di quell’altro, avessero colpito nello stesso punto.
Coincidenza? No, per nulla. E no,
non era strano.
Era la sua personalissima prova di non essere diventato
completamente pazzo. Come lo credevano tutti gli
altri, per esempio.
Shikamaru compreso.
E forse, nonostante potesse benissimo distinguere lo
Shikamaru Nara di Konoha dallo Shikamaru Nara del St. Michael, quella era la cosa che lo feriva più di tutte,
ancor più della sua impossibilità di tornare in servizio.
Interiormente, faceva male.
Anche se si vergognava ad
ammetterlo, gli spezzava letteralmente il cuore.
Ripetersi che quello che vedeva camminare per la vie del villaggio non
era lo stesso Shikamaru non funzionava in eterno.
Anzi, quella momentanea magia cominciava già ad
affievolirsi.
Sospirando pesantemente decise di
rimuovere quei pensieri dalla testa, cominciando velocemente a scendere le
scale per arrivare nell’atrio. Ormai non doveva più stare in pianta
stabile all’ospedale, dato che era stato dimesso; ci
andava per le visite dalla strizzacervelli e per le
ricette mediche, tutto lì.
A casa la situazione non cambiava di molto… ma almeno poteva
stare fra le cose che, in un modo o nell’altro, gli risultavano
famigliari.
Stava quasi per uscire quando, poco prima dell’atrio, una
voce lo chiamò da uno dei corridoi dell’ambulatorio al piano terra. Sakura, con
il camice bianco aperto sul suo solito abbigliamento dalle varie gradazioni di
rosa, gli veniva incontro con un sorrisetto accondiscendente stampato in viso.
Oh, già. Aveva ormai imparato a sondare quei sorrisi da
quando tutti quelli del villaggio, amici compresi, lo ritenevano un povero
sclerotico delirante.
Era il sorriso stile “ehi, hai poi smesso di vaneggiare?”
che gli rivolgevano tutti in ogni angolo del villaggio e dintorni.
Lo ammetteva: quasi quasi gli
mancavano le occhiate accusatorie di Sasuke “Non Respirare in mia Presenza che
Inquini l’Aria” Uchiha. Beh… l’angelo caduto distruttore di equilibri,
ovviamente. In quel mondo non c’era più, lì intorno, un Sasuke Uchiha.
<< Inuzuka! >> lo salutò Sakura, fermandosi con in mano una cartelletta in plastica con all’interno,
probabilmente, la storia clinica di un paziente a cui aveva appena applicato un
cerotto ad un dito.
<< Sak… Haruno >> la
salutò di rimando, incartandosi sul nome. E’ strano, chiamare una persona per
nome in una dimensione e per cognome nell’altra.
<< Allora, emh… in visita da
Okita-sensei? >> chiese, facendogli come al solito la domanda che interessava a tutti.
Le si leggeva in faccia. “Ti ha
riammesso ai tuoi doveri di ninja?” sembrava chiedere. O meglio: “hai finito di dire cazzate senza
senso?” o ancora: “potresti cortesemente dimostrare che non sei davvero
impazzito di sana pianta e senza motivo logico apparente?”.
<< Già >> si limitò a rispondere, senza
aggiungere altro. In quei giorni era talmente disgustato da quel discorso che
non si sentiva in vena di essere allegro. Proprio per
niente.
<< Com’è andata? >> chiese di nuovo la ragazza,
sperando ardentemente in una risposta positiva da
parte sua.
Risposta che non arrivò. O almeno, non con i risultati sperati: << sono ancora
in “ferie” >> rispose il castano, mimando con le mani le virgolette, che
evidenziò con la voce sull’ultima parola.
<< Ah… >> rispose lei.
Fra loro cadde un silenzio imbarazzante, com’era quasi
logico che succedesse, e Kiba non aveva la minima intenzione di romperlo. Non
si sentiva di certo in vena di parlare del tempo
soleggiato di fine luglio, e men che meno con la
Sakura di quella dimensione. Non erano amici così stretti, dopotutto… non lì.
<< Oh, a proposito! >> esclamò lei, togliendo
entrambi da quella situazione di stallo: << considerando l’ultima ricetta
che la maestra Tsunade ti ha firmato, teoricamente dovresti averle quasi
finite… >> cominciò, estraendo dal camice un
piccolo sacchettino abbastanza anonimo << così
ho pensato di… sintetizzarne delle altre… >> esordì poi esitante,
porgendogli l’involucro, chiuso da uno spago.
Lo prese dalle sue mani, osservandolo assorto prima di
riporlo in tasca. Sapeva benissimo cosa c’era dentro: un triturato di erbe calmanti compresse in piccole pastiglie verdastre
dal sapore orribile, che ultimamente lui ingoiava come caramelle.
L’equivalente omeopatico degli antidepressivi.
<< Grazie >> disse, piatto, indicando poi con un
finto gesto distratto la porta: << scusa se ti faccio fretta, ma io
dovrei tornare a casa entro una certa ora… >> esordì, finto e meschino.
Non aveva nessun coprifuoco. Semplicemente, voleva andare
via da lì il prima possibile e affondare nella sua ipocrisia generale nuova di
zecca.
<< Ah, certo >> rispose lei,
sforzandosi di fargli un sorriso rassicurante… che non le venne bene.
<< Vai pure e… beh, rimettiti! >> esclamò infine, incamminandosi
ancor prima di lui in direzione di un altro corridoio asettico e saturo di odore di disinfettante.
Kiba non rispose nemmeno (non ne ebbe
il tempo) così si limitò ad infilarsi le mani in tasca e a riprendere il suo
tragitto d’uscita. Quell’odore, forte già per gli esseri
umani qualunque, per lui che aveva il senso dell’olfatto di molto più
sviluppato rispetto all’ordinario era un vero tormento.
Una volta fuori dalla porta a
vetri, una boccata d’aria fresca decretò il decisivo alleviamento della
sofferenza che stava provando il suo povero naso. Certo,
nell’aria di Konoha c’era sempre una discreta sinfonia di odori, ma era
decisamente meglio di un ambiente chiuso.
Una volta raggiunto il cancello che
delimitava il cortile, una massa bianca con un paio di orecchie rossicce gli
venne incontro scodinzolando.
Un sorriso gli sorse spontaneo, mentre portava la mano
destra ad accarezzare la testa di Akamaru senza dover
nemmeno chinarsi. Era cresciuto veramente tanto, e lui come uno scemo non se ne era nemmeno reso conto.
<< Andiamo a casa? >> chiese allegro, ghignando
in direzione del cane che, in risposta, gli leccò la
mano.
<< Ah! Che schifo! >>
esclamò Kiba scherzoso, pulendosi la bava sui pantaloni neri. Nella mossa, notò
praticamente subito il naso del cane posarsi
leggermente sul rigonfiamento che traspariva dal tascone
della felpa. Lo annusò e, come se fosse contrariato, storse il naso e guaì
piano.
<< Lo so, hanno un odore orrendo >> sospirò
abbattuto, lasciando scivolare via il piccolo briciolo di allegria
che gli si era depositato addosso. << E il
sapore è anche peggio. Fortuna che non le prendi anche tu, amico mio >>
ironizzò appena, estraendo l’involucro dalla tasca e fissandolo scocciato.
Tutta quella roba non serviva assolutamente a niente. Lui
non era depresso o chissà cos’altro e, se veramente lo sembrava, non era di certo colpa o merito di quella stupidissima missione.
Era semplicemente il fatto che si ricordava due vite, ma
questo non poteva di certo dirlo a miss “mi sto stufando di averti in cura” Okita-sensei, no? Insomma, già si sputtanava
allegramente dicendole che aveva vissuto per quasi tre settimane all’interno di
un’accademia in un altro mondo, se poi andava a dire che confondeva le due
vite… il biglietto di sola andata per la clinica psichiatrica si sprecava.
Con un sospiro seccato ripose il sacchetto al suo posto,
così come le mani raggiunsero le tasche dei suoi pantaloni, e con un broncio
lungo mezzo metro ricominciò la sua camminata verso casa. << Andiamo, và >> commentò verso Akamaru, che lo seguì a passo
d’uomo e senza emettere il minimo suono.
Da qualche settimana aveva imparato che se prendeva vie
secondarie e inutilizzate, nel tragitto casa - ospedale, incontrava meno gente.
Da lì era tutta una reazione a catena che, però, aveva la sua utilità nel non
farlo sentire sempre più atterrito.
Se incontrava meno gente, doveva
fingere meno di non notare le occhiate che gli lanciavano quando lo vedevano.
Se doveva fingere di meno, il suo sistema nervoso lo
avrebbe ringraziato. Se il suo sistema nervoso lo ringraziava,
di notte sarebbe riuscito a chiudere occhio leggermente più sereno e,
soprattutto, avrebbe potuto evitarsi una delle cinque pastiglie che mandava giù
ogni sera, ovvero il sonnifero.
Si rendeva conto che una cosa simile non era da lui.
Insomma, in teoria a lui non fregava niente di quello che il
villaggio pensava sul suo conto. Sapeva cosa aveva vissuto, sapeva di aver
visto il giusto e, anche se valeva solo per se stesso, aveva una prova
stiracchiata impressa per sempre sul suo costato.
Però, a volte… solo ogni tanto…
quella dottoressa riusciva quasi a convincerlo.
Riusciva a fargli nascere il dubbio, più che altro.
Era stato tutto un sogno? Una conseguenza dell’attacco preso
in pieno? Uno di quei cosi chiamati “trauma post-traumatico”?
No. Non ci credeva, che fosse tutto falso.
…Ma se lo fosse stato, invece?
Sì, lo ammetteva, aveva vagliato anche quell’ipotesi. Giusto
per essere pronto a tutto.
Se fosse stata tutta un’illusione,
lui era il più grande cretino della storia dell’universo. Perché
aveva fatto amicizia con delle persone che non esistevano, aveva voluto
proteggere dei falsi ricordi e, soprattutto… si era innamorato di un pugno di
fumo.
Per questo continuava a dirsi che lui aveva ragione. Per
questo cercava di convincersi.
Ma era difficile senza prove…
difficilissimo. Sia convincere se stesso, sia
raccontarla e farla bere ad Okita-sensei, compresi
tutti quelli che lo guardavano come un povero psicopatico.
Compresi i suoi così detti “amici”, come i suoi compagni di
squadra.
Soprapensiero, si portò una mano al collo.
Poteva quasi sentire ancora il metallo del crocifisso sulla pelle, freddo contro caldo, oro contro
cute. Ogni volta, in quel riflesso condizionato che faceva per puro caso, era
convinto di poterlo toccare ancora quando invece, appeso al suo collo, non
c’era niente.
Non aveva altro che i suoi ricordi per convalidare la sua
tesi, ma alla fin fine non contava nulla.
Nulla, se tali ricordi non si possono
vedere e toccare, se non possono essere classificati come prove dalla prima psico-rimbambita di turno, se non si possono sbattere in
faccia all’Hokage con un bel “e adesso chi è il traumatizzato, eh?”.
Sospirò affranto. Riflettere su cose simili non lo avrebbe
aiutato.
Si fermò, alla fine di quelle considerazioni vuote, davanti
alla vetrina di un negozietto d’antiquariato disperso da Dio. Si guardò nel
riflesso del vetro, osservandosi con sguardo critico ma disinteressato.
Era da un pezzo che non portava i soliti segni del clan
Inuzuka, sulle guance. Aveva smesso di farseli quando gli avevano detto che,
per il momento, poteva smettere di considerarsi un ninja.
Certo, gli Anziani avevano usato termini più gentili, ma il
succo del discorso era quello.
Non lo volevano fra i piedi. Un ninja con crisi di identità era scomodo.
Tsk, come se di crisi d’identità si potesse parlare! Non è
che fosse indeciso se essere Kiba Inuzuka o il Kazekage, per amor della Volontà Ardente!
Lui era solo… solo…
<< Impazzito… >> sussurrò con un filo di voce, a
cui corrispose un basso guaito di Akamaru.
Voltò il capo, osservandolo sorpreso. Il cane, guaendo
nuovamente, gli appoggiò il muso sulla mano e spinse forte, come se volesse
farsi accarezzare… o come se volesse distrarre il suo padrone.
Il castano sorrise, posando la sua mano
sulla testa liscia e grattandogli le orecchie. << Lo so che non ti piace
sentire quella parola, non piace neanche a me. Scusami, non la dico più, ok?
>> scese a compromessi, chinandosi sulle gambe per arrivare più o meno
alla stessa altezza del bestione che una volta si portava nella giacca.
Akamaru ne approfittò per laccargli
la faccia, facendolo ridacchiare. << Smettila, non sei più un cucciolo!
>>
<< Anche tu non sei più un
bambino >> fu l’inaspettata risposta che ricevette da una voce un poco
profonda ma giovanile, qualche metro più avanti.
Non ci fu bisogno di sorprendersi, purtroppo. La riconobbe
all’istante. << E con questo? >> chiese il
castano in risposta, rimanendo chinato ma voltandosi
in direzione della persona che aveva commentato.
Nonostante indossasse vestiti scuri
e il gilet dei ninja di Konoha, l’espressione annoiata e quella particolare
pettinatura anti-gravità erano il suo segno di riconoscimento principale.
E, fra tutti i maledettissimi ninja
che bighellonavano per Konoha… maledizione, proprio Shikamaru?!
Questa era sfiga, decisamente, e se
non lo era ci mancava poco perché lo fosse.
L’altro lo squadrò, abbassando appena lo sguardo. Faceva
sempre così, aveva ormai notato Kiba, quando stava riflettendo su una persona. Anche il suo
Shikamaru lo faceva, a volte.
Si alzò di scatto, quasi ringhiando contro se stesso. Non
era trovando punti in comune fra i due che si sarebbe dimenticato di quella assurda storia!
Nara non rispose alla provocazione del
castano e, senza togliergli gli occhi di dosso, lo osservò affiancarlo e
poi oltrepassarlo.
<< Ohi >> chiamò poi, senza voltarsi: <<
dove stai andando? >> chiese, osservandolo di sbieco.
Kiba si fermò, evitando accuratamente di girarsi e
guardarlo. Che cavolo voleva, dannazione? Non poteva
semplicemente lasciarlo in pace come faceva il resto del mondo da un paio di
settimane a quella parte?
<< A casa >> ribatté aspro: << fino a
prova contraria, abito ancora alla fine di questa strada >> aggiunse con
lo stesso tono.
Il moro non rispose, ma Kiba lo sentì chiaramente voltarsi,
in un fruscio lieve di abiti.
<< Mi stai evitando, ultimamente >> esordì poi,
la voce pacata: << c’è qualcosa che non va?
>>
In diciassette anni di vita mai, ma proprio mai, Kiba aveva
sentito così forte l’impulso di tirare un diretto sui denti a Shikamaru.
Qualcosa che non va? QUALCOSA CHE NON VA? Cos’era, cieco, visto che con il cervello che si trovava non poteva di certo
essere scemo. Qualcosa che non va… cazzo, che acume! E
pensare che lui si stava tanto sforzando di trovare anche solo una minima cosa
che andasse, invece!
Si sarebbe veramente girato a
urlargli contro, se solo non avesse avuto paura di non riuscire più a spiccicare
parola. Gli avrebbe riversato addosso tutto l’odio,
tutto il rancore che aveva collezionato in quel periodo, liberandosi tramite la
voce di un fardello che gli schiacciava lo stomaco peggio di un masso.
Ma si trattenne. Ingoiò tutto,
faticosamente, sospirando profondamente prima di riuscire a riprendere parola: <<
Non particolarmente >> mentì e sì, fortuna volle che non avesse ceduto
all’istinto di girarsi.
Avrebbe potuto vedere l’espressione di Shikamaru assumere un
alone di malinconia.
Allora no che non sarebbe stato utile
dirsi “non sono la stessa persona”.
<< C’è qualcos’altro? >> chiese il castano, il
tono duro.
<< No >> rispose semplicemente il moro. <<
Buona giornata >> aggiunse, prima di riprendere ad incamminarsi verso il
centro.
<< Non direi proprio… >>
sussurrò invece Kiba, facendo però in modo di non farsi sentire, per poi
riavviarsi verso casa.
Non più, ormai.
Nonostante la situazione con il lavoro, e nonostante la sua
scombussolata attività mentale, il fatto di essere praticamente
prigioniero in casa sua si era rivelato indice di una portentosa solitudine.
E, a seguire, di una noia
incommensurabile.
Akamaru era talmente cresciuto che ormai non passava nemmeno
per le scale, figurarsi entrare in camera sua. Da qualche tempo stava in
giardino, insieme agli altri cani del clan, e nonostante la cuccia fosse
esattamente sotto la sua finestra, guardarlo dall’alto mentre sonnecchiava non
riempiva il suo tempo.
Era così che aveva trovato la malsana idea,
un pomeriggio, di ridisegnare tutti i cerchi alchemici che poteva ricordare.
Sempre che l’uso del termine “ricordare” non fosse scorretto e che in realtà se
li stesse inventando di sana pianta.
Ma era anche così, evidentemente, che aveva avuto la trovata
più impossibile e al contempo brillante che gli fosse
mai passata per il cervello in tutta la sua vita.
Se i cunicoli spazio-tempo erano
reali… si potevano creare.
E cosa c’è di meglio per la
creazione, della scienza per eccellenza in fatto di distruzione e ri-assembramento della materia?
L’Alchimia.
Sempre che esistesse davvero, in una qualche dimensione,
l’Alchimia.
L’idea, una volta accettato il
compromesso di credere un po’ di più in se stesso e di non farsi abbindolare
dai dubbi della psico-cocciuta, era anche buona.
Ma dopo una settimana di disegni a
carboncino su rotolo, serviti più come passatempo che come base per un
ragionamento decente, anche Buddah manderebbe a quel
paese il Nirvana.
La cosa buona era che aveva praticamente
cambiato la carta da parati della sua camera, dato che non c’era nemmeno un
pezzo di muro libero da quella sua momentanea follia artistica.
Girandosi sulla sedia tornò a guardare uno per uno i disegni
che aveva fatto, in ordine cronologico, dal cerchio alchemico più semplice a
quelli più complessi, passando poi alle prove di unione
di vari fattori e agli scarabocchi che era riuscito a tirare fuori alle quattro
di notte, quando ormai la noia aveva sopraffatto anche il sonno.
Sospirò, non vedendo su quelle pareti altro che un sintomo
in più della sua dubbia pazzia. Magari era la volta buona di ammetterlo: Okita-sensei aveva ragione e lui si era fatto un viaggio
mentale praticamente ed evidentemente surreale.
Però no, non ci riusciva proprio a
dargliela vinta, alla psico-tedia. Si ricordava
troppe cose, troppo particolareggiate. I sentimenti e le sensazioni che aveva
provato erano troppo vividi, troppo reali per essere illusioni. E sì, lui ricordava, non si inventava
nulla.
E allora qual’era
la situazione attuale? Cosa doveva fare adesso? Come andavano le cose all’accademia?
Al solo pensarci, un crampo allo stomaco gli fece storcere
la bocca. Non sapeva se era per le medicine prese appena un’ora prima o per il
fatto stesso di aver lasciato gli altri alle prese con un demone ad otto code,
ma in momenti come quello, pensieri simili non gli davano altro che dolore e
fastidio.
Non era un bene, non era un bene!
Tornò a guardare i disegni, inspirando una lunga boccata
d’aria, per poi rilassare i muscoli mentre la soffiava fuori.
Doveva per lo meno dare la caccia all’acclamatissimo
ragno nel buco. Provare, anche se non aveva un cervello fatto per ragionamenti
di quel tipo, a trovare una soluzione plausibile che collegasse le sue due vite
alla dimensione che si era lasciato alle spalle.
Fissando quei disegni ora dopo ora, non faceva altro che non
arrivare alle risposte che disperatamente sperava di scovare in un angolino della sua mente.
Aveva studiato troppo poco, di Alchimia,
per poter giungere alla creazione (sempre se possibile) di un cunicolo
spazio-temporale artificiale. Troppo, decisamente
troppo poco.
Doveva sperimentare un'altro approccio.
Si alzò dunque, di fretta, correndo rumorosamente giù per le
scale. Dal giardino, Akamaru abbaiò non appena riconobbe i suoi passi.
<< Dove vai? >> chiese
sua madre dal salotto, abbassando il volume della televisione.
<< Esco >> rispose criptico, mentre si infilava di nuovo i sandali abbandonati all'ingresso
appena un quarto d'ora prima.
<< Non hai risposto alla mia domanda
>> fece notare la donna.
Lui sbuffò. << In biblioteca >> disse poi,
aprendo la porta di fretta.
<< DOVE?! >> sentì esclamare
dal salotto << cos'è, sei impazzito?! >>
<< La diagnosi è quella >>
ironizzò amaramente, prima di richiudersi la porta alle spalle e patire
a passo veloce verso la biblioteca. Una corsa delle sue avrebbe sicuramente
strappato i punti, e non ci teneva a sanguinare per la
strada.
Appena mise piede all’interno della
biblioteca, il rivoltante odore di chiuso e di carta rattrappita invase le sue
narici con sottile violenza.
C’era gente, al mondo, che lo riteneva il profumo più buono esistente. C’erano anche persone, incredibilmente, che
prima di leggere un libro ne annusavano le pagine come
se fossero sature un meraviglioso aroma.
Lui non lo poteva sopportare. Non solo perché sentiva gli
odori molto più intensamente di altri, ma soprattutto
perché odiava qualsiasi riferimento, anche casuale, a interi volumi scritti in
minuscolo che non contenevano nemmeno un disegno. Per la sua mente, abituata a
leggere fumetti, tutto ciò non era contemplabile.
Tuttavia si fece forza e avanzò
all’interno dell’edificio. Beato Akamaru che doveva forzatamente
aspettarlo fuori, almeno lui si risparmiava il voltastomaco.
Passò davanti alla bibliotecaria trattenendo il respiro e,
al suo gesto cortese di benvenuto, si esibì in un impacciato saluto alla Robocop; era così rigido e teso che sembrava avere i
muscoli fatti di vetro.
Non si trovava a suo agio, no. Aveva
una repulsione naturale, c’era poco da fare.
Una volta che la donna ebbe rivolto ad altro la sua
attenzione, e che tutte le persone nel primo angolo lettura ebbero terminato di
indicarlo come se fosse stato chissà quale alieno piombato da chissà quale
navicella spaziale, si fermò indeciso davanti ai primi due scaffali visibili,
recanti targhette d’ottone con le lettere A-C in uno e D-F l’altro.
Bene, perfetto: ordine alfabetico. Così non poteva
sbagliarsi per forza.
Sì… ma cosa cercare?
Non credeva proprio che nello scaffale della lettera “p” vi
fosse qualcosa con il titolo “Ponti di Einstein-Rosen”, come non riteneva nemmeno pensabile che vi
fosse una biografia stramba dal titolo “Einstein:
Vita, Morte e Miracoli”.
Non era nemmeno possibile che fosse esistito un Einstein, in quel mondo.
Sospirò rassegnato, arrendendosi già da subito ed evitandosi
una full immersion in mezzo alla polvere.
Fu in quel momento, mentre tornava indietro convinto che
annoiarsi a casa sua fosse la cosa migliore da fare, che gli cadde l’occhio su
una bacheca in legno grande quanto una lavagna, appesa
al muro di fianco al bancone della bibliotecaria e piena zeppa di foglietti.
Si avvicinò, incuriosito.
Su ogni foglietto vi erano scritte piccole descrizioni di azioni, a volte condite con qualche dialogo, e tutte
improntate su situazioni più disparate: c’era chi si inginocchiava davanti ad
una ragazza su una terrazza al tramonto, chi lottava contro un mostro a forma
di lucertola gigante, chi mercanteggiava sulla via per un villaggio nascosto nella
foresta e chi si preparava all’imboscata ad una tenda di ladri per recuperare
tesori rubati.
<< Scusi? >> attirò l’attenzione della
bibliotecaria senza nemmeno girarsi a guardarla: << cosa sono questi
fogli? >> chiese, scorrendo con lo sguardo le varie calligrafie.
<< Un gioco di ruolo >> rispose la donna,
attirando finalmente la sua attenzione completa. Kiba infatti
si girò in sua direzione, e lei ebbe modo di continuare: << è anonimo.
Ognuno si crea un personaggio fittizio e fa coppia con un altro personaggio
libero in lista. Dopo di che il Master, che in questo caso
sono io, da disposizioni perché comincino varie missioni e i personaggi devono
portarle a termine. Più si guadagnano punti, più il personaggio creato
impara tecniche e diventa forte >> spiegò
professionale, sorridendogli cortesemente.
A Kiba venne quasi da ridere, ma si trattenne invocando
quella poca cortesia che possedeva. Dei ninja che giocavano ai ninja! Questa
non l’aveva mai sentita!
Però poteva essere un modo per
passare il tempo, magari.
<< Posso partecipare anche io? >> chiese dunque,
avvicinandosi alla donna di qualche passo. Lei annuì sorridente, afferrando dei
moduli e passandoglieli con assoluta precisione insieme ad
una matita e ad un dado. << Compila questo, è la
tua scheda personaggio. Quando avrai finito
mostramela, ti accoppierò con la persona che più si adatta alle tue
caratteristiche >> disse, lasciandogli spazio sufficiente per poter
lavorare.
Il primo foglio erano le
istruzioni, abbastanza semplici in realtà. Una volta
accoppiati, i due personaggi avrebbero dovuto seguire le indicazioni del
master per completare le missioni. Si comunicava tramite foglietti sulla
bacheca, utilizzando pseudonimi, dunque non conoscevi per nulla la persona con
cui stavi giocando. Si doveva aprire con una frase di
saluto poi, se l’altro avesse accettato il tuo personaggio come partner, sarebbe cominciato il gioco vero e proprio.
Fu facile anche compilare la scheda, una volta che ebbe
imparato a cosa corrispondevano i tiri del dado. Non gli venne un personaggio
da buttare; era bello e forte dato che aveva avuto
tiri alti sul Carisma e sulla Statura, e possedeva alcune arti magiche niente
male, tra cui quelle del tipo fuoco. Era un mezzo stereotipo dell’
Uchiha, ora che ci pensava, ma per non ricadere nell’errore diede ai capelli
del suo povero omino un colore rosso acceso.
Una volta terminato, l’indecisione
cadeva sul nome. Lui non aveva tutta la fantasia necessaria per crearne uno figo e che suonasse bene, così si limitò a tradurre il
suo nella lingua più improbabile che potesse saltargli fuori: l’inglese.
Che in quel mondo nemmeno esisteva.
Ma suvvia, era un gioco. Al massimo gli altri
giocatori lo avrebbero letto come formato da lettere pressoché incomprensibili,
non è che ci perdeva qualcosa, per un gioco.
Scrisse dunque “Fang” nello spazio
riservato al nome e, rimirando la scheda completa, la consegnò alla donna.
<< Oh, che strano >> esclamò
poi, osservando le lettere che avrebbero dovuto formare il nome: << c’è
un altro giocatore che usa questo linguaggio nel gioco. Cos’è, un codice
inventato? >> chiese, sorridendo curiosa.
A Kiba per poco non venne un infarto. Cosa
voleva dire che A KONOHA c’era qualcun altro che scriveva INGLESE?!
Cercò con lo sguardo l’unico biglietto scritto da sinistra verso destra e, una volta trovato, trattenne il respiro
dallo stupore: il messaggio era scritto in calligrafia chiara, corsiva e
leggermente tondeggiante. Pendeva verso destra e recitava parole che, lette
senza pensare ad un qualsivoglia contesto, riflettevano
il suo stato d’animo dell’ultimo pariodo:
Something somewhere out there keeps calling.
“Qualcosa là fuori continua a chiamare.” …sembrava
rinfacciargli la consapevolezza. Sembrava dirgli “io so,
tu racconti il vero, non stai mentendo. C’è qualcuno che ti sta chiamando,
ascolta!”.
E poteva sembrare un miracolo già di per sé se non fosse che, oltre alla lingua e al significato che lui
leggeva in quelle parole, la frase in sé non fosse stata… una citazione.
Precisamente, una strofa di una canzone
intitolata “Gravity” che lui aveva sentito e
risentito nelle settimane in cui era rimasto intrappolato nel sogno/realtà
chiamato St. Michael.
Spostò gli occhi sul nome del personaggio, e anche quello
non lasciò dubbi: “Apocalypse”.
Sì, qualcuno lo stava veramente chiamando…
Fece rapidamente in modo che il suo personaggio venisse accoppiato con Apocalypse.
Doveva capire se quel messaggio di poche lettere era falso oppure opera di
qualcuno che sapeva qualcosa della dimensione che aveva visitato.
Si fece consegnare un foglietto, scrisse il nome “Fang” in alto a destra e, quando fu il momento di
rispondere al messaggio lasciatogli, ci pensò sopra.
C’erano molte domande nel testo di “Gravity”
che avrebbe potuto porre. Ma era convinto che, andando avanti per quella assurda strada, sarebbe riuscito a porlo comunque,
anche senza scriverle subito.
Scelse dunque una seconda strofa che rispondeva a quella
lasciatagli. Nella sua calligrafia un po’ spigolosa rispose:
Will I
hear someone singing solace to the silent moon?
“Sentirò qualcuno cantare con sollievo verso la silenziosa
luna?”.
Stava effettivamente chiedendo se gli
avrebbe risposto, in definitiva. E ci sperava…
ci sperava sin troppo.
Passò praticamente tutto il
pomeriggio in biblioteca, ma della persona che aveva il dono innaturale di
poter scrivere (e dunque di sapere) l’inglese non vi era traccia.
Inizialmente l’aveva aspettato seduto all’angolo lettura più
vicino, di modo da tenere d’occhio la bacheca. Se si
fosse avvicinato per rispondere al suo messaggio, pensava, l’avrebbe visto e
avrebbe finalmente potuto interrogarlo su tutto ciò che gli passava per la
mente… letteralmente.
Poi, però, aveva riflettuto; se non lo aveva contattato direttamente e aveva preferito mettere un
biglietto in un posto che aveva poca probabilità di frequentare, probabilmente
non voleva incontrarlo per nulla, ma mantenere solamente rapporti impersonali
di quel genere. Di conseguenza, se lo aspettava al
varco non si sarebbe mai mostrato.
Per tale motivo cambiò posizione, andando a mettersi fra i
due scaffali più vicini alla bacheca, assicurandosi di essere sufficientemente
nascosto. Doveva vedere senza farsi vedere, solo così poteva
trarre in inganno il suo inglesino preferito e
costringerlo a sputare il rospo.
Tuttavia, nonostante le svariate ore
passate a fissare la reception da una fessura fra i
libri, la persona che gli interessava scovare non si fece vedere.
All’inizio un giovane biondino gli aveva dato la speranza, avvicinandosi alla
bacheca, ma il biglietto che aveva attaccato era scritto in kanji
e non rispondeva a “Fang”, bensì ad un altro
giocatore.
Fu quando ormai la biblioteca era in orario di chiusura che
finalmente uscì, respirando con evidente sollievo l’aria fresca e umidiccia
della sera. Tirava una leggera brezza da nord-ovest che portava con sé l’odore
lieve e dolciastro delle magnolie.
Scendendo gli scalini dell’entrata si stiracchiò
sbadigliando, posando meccanicamente una mano sulla testa di Akamaru
quando il cane gli venne incontro trotterellando.
A giudicare dal buio dovevano essere come minimo le dieci di
sera… era preoccupato del fatto che sua madre non
avesse mandato le squadre di soccorso quando non lo aveva visto rientrare per
cena.
E a proposito di cena, cominciava
ad avere una certa fame.
<< Andiamo Akamaru, non vedo
l’ora di mettere qualcosa sotto i denti! >> disse rivolto all’amico,
incrociando le braccia dietro la testa e cominciando a percorrere la strada a
ritroso, verso casa. Non pareva esserci molta gente in giro, solamente alcuni
giovani che volevano fare baldoria e uomini sbronzi che puzzavano
di saké, ma a lui sembrava non interessare molto.
Anche se la sua giornata
d’appostamento non aveva dato i risultati sperati, il solo fatto di aver
trovato una piccola possibilità di sapere
era sufficiente a risollevargli il buon umore perduto.
Aveva la possibilità di ricredersi, di dimostrare che non
mentiva, che non era un folle. Avrebbe potuto conoscere la verità, finalmente.
Sorrise al nulla, ridacchiando da solo contro il silenzio
della notte. << Been a long road to follow, been
there and gone tomorrow, without saying goodbye to yesterday… >> canticchiò
quasi soddisfatto, a bassa voce, fischiettando il seguito della canzone lungo
tutto il tragitto di casa.
Chissà, magari avrebbe potuto anche chiedere di lui. Come stava, per esempio. Oppure se era ancora… vivo.
Scosse il capo, non ci doveva pensare. Shikamaru stava bene
per forza, ne era sicurissimo. Si erano salvati tutti,
magari avevano anche sconfitto Orochimaru e adesso se ne stavano a poltrire all’accademia ascoltando le lezioni del maestro
Kakashi, oppure cercando di non rimanere vittime delle esplosioni artistiche di
Deidara.
Il sorriso divenne malinconico al ricordo del gruppo e della
vita che aveva lasciato indietro… eppure, in un qualche modo, si sentiva persino
in colpa ad avere nostalgia, dato che quella al
villaggio era la sua reale vita.
Sembrava come… se avesse trovato un modo di vivere che gli
piaceva molto di più. E non doveva, perché in un
qualche modo sapeva che era sbagliato, e ingiusto nei confronti della famiglia
e degli amici che aveva lì, a Konoha, a casa sua.
<< Maybe this
time tomorrow, the rain will cease to
follow, and the mist will fade into
one more today… >> canticchiò
ancora, guardando il cielo. A causa della brezza era una nottata limpida, la
volta celeste era piena di stelle e, in mezzo a tutte, non faticava a
riconoscere le principali costellazioni che gli avevano insegnato in accademia
ninja.
Doveva distrarsi. Se portava la sua
attenzione su qualcosa che non fosse Shikamaru, probabilmente avrebbe sentito
meno nostalgia… e di conseguenza meno malinconia.
Arrivato davanti a casa, la prima cosa che fece fu dare da
mangiare ad Akamaru. Era rimasto ad aspettarlo fuori dalla
biblioteca per tutto il giorno, si meritava le sue dovute attenzioni.
Una volta che ebbe terminato, e che ebbe
osservato il proprio cane mangiare a fauci spalancate, decise ardentemente che
toccava a lui una cena con fiocchi e controfiocchi.
Il suo stomaco era così vuoto che ormai non aveva nemmeno più la forza per
contorcersi nei tipici crampi della fame.
Salì velocemente i pochi gradini il legno che lo speravano
dal pianerottolo, e in alcuni scricchiolanti passi si avvicinò all’entrata.
Aveva già una mano sulla maniglia e l’urlo pronto con un “tadaima!” fra le labbra, quando una voce particolare, che
non apparteneva né a sua madre né a sua sorella, gli arrivò alle orecchie.
Era Madamigella Tsunade. Ne era
quasi sicuro, contando che la sentiva provenire dalla finestra aperta della
cucina.
Esitò, ascoltando. Non credeva affatto che Tsunade e sua
madre fossero vecchie compagne d’accademia e che la
vecchia fosse venuta da loro per un tè e un piatto di pasticcini.
Tutt’altro. Poteva esserci un solo motivo per
cui l’hokage si disturbava a fare visita a casa Inuzuka…
<< E’ una fortuna che Kiba non sia in casa >>
stava dicendo la Quinta: << posso parlarle francamente e senza
risentimenti >>.
Fece scivolare la mano dalla maniglia, richiudendola a pugno
e lasciandola andare lungo il fianco. Ascoltò, nonostante fosse quasi un
suicidio intellettuale farlo, evitando anche di respirare troppo rumorosamente
per non coprire con esso le parole che sentiva.
<< Mi dica tutto, Godaime-sama >> rispose la
madre con voce seria, tuttavia macchiata di una piccola nota di
esasperazione.
Probabilmente, pensò Kiba, era stanca quanto lui di sentire
la stessa solfa ancora e ancora…
<< Sono preoccupata per Kiba >> arrivò subito al punto Tsunade, professionale nonostante
l’ora fosse quella del sakè serale. Probabilmente era più seccata di tutti
loro, quella donna, che aveva sempre e perennemente il suo caso sotto al naso.
<< Le da altri motivi di preoccupazione? >>
chiese la madre, quasi incoraggiandola a continuare.
<< Non più del solito >> rispose l’hokage:
<< è la sua testardaggine, la ragione per cui sono
qui. Continua a sostenere la sua storia, ancora e ancora, e siccome sono
convinta che non possa essere assolutamente vera, mi chiedo perché insista a
raccontarla >> disse, facendo una domanda
implicita all’altra donna.
Sua madre non rispose subito, probabilmente contemplando le
parole che le venivano rivolte. << Godaime-sama,
se posso permettermi: non aveva detto che le convinzioni su cui persevera quel degenerato di mio figlio apparivano vere, ai
suoi occhi? Non mi aveva garantito che era una sorta di trauma psicologico
causato dalla ferita? E’ perché ero convinta di questo che non ho spinto il
ragazzo a raccontare anche a me questa cosa… ora mi sembra che si stia
rimangiando la parola >> argomentò, trovando come al
solito ogni appiglio possibile su cui poteva attaccarsi.
<< Ha ragione >> rispose
la vecchia: << ma è impensabile che, dopo due settimane, Kiba soffra
ancora degli effetti del trauma. Soprattutto con i medicinali che gli abbiamo dato. Dunque, posso solo
pensare due cose: o Kiba racconta quella bugia per coprire un suo comportamento
particolarmente grave, oppure è partito tutto da uno scherzo di cattivo gusto e
adesso regge la farsa per non perdere la faccia >> disse lei.
Kiba aggrottò la fronte a quelle parole, storcendo il naso
in un’espressione disgustata. Uno scherzo, addirittura… era questo il meglio
che riusciva a pensare l’hokage? Era questa la sensazione che dava la sua
versione dei fatti?
Nessuno aveva contemplato, anche solo di sfuggita, il fatto
che stesse dicendo la verità? Proprio a nessuno era venuto questo dubbio?
No, Kiba, non lo sai? Se dici di raccontare una verità in
cui non credi completamente nemmeno tu, è logico che vieni
respinto e additato come bugiardo e meschino.
A denti stretti restò in ascolto, senza muovere nemmeno un
muscolo.
<< E da me cosa vorrebbe
sapere? >> rispose a tono la madre, mantenendo però la cordialità dovuta
ad un’ospite: << se so in quale casino si sia cacciato Kiba? Se ho notato qualcosa di strano nel suo comportamento?
>> chiese, concisa.
<< Sì, esattamente >> rispose l’hokage, a sua
volta pratica e veloce.
<< Beh, sì. Ho notato che un ragazzo casinista ed
esageratamente loquace all’improvviso parla solo se interrogato. Ho notato che
una persona che saltava persino la cena per bighellonare con gli amici, improvvisamente
vive chiusa in camera sua. Ho notato le pastiglie, e
le interminabili ore di sonno che le accompagnano. Ho notato tutto questo,
Godaime-sama, ma non è nulla di più e nulla di meno di quello che, sono sicura,
abbia notato anche Okita-sensei
>> rispose la donna, per poi continuare: << io non credo a ciò che
racconta mio figlio, sia chiaro. E sono sicura che
stia affrontando un qualche problema. Ma il nostro
clan è fatto così: anche se può sembrare una bastardata, i ragazzi crescono
contando quasi esclusivamente su loro stessi. Se Kiba
ha un problema, dovrà risolverselo da solo. Un capoclan
fa questo ed altro >> aggiunse, brusca.
Tsunade rimase in silenzio per qualche istante, in una copia
della contemplazione che aveva eseguito l’altra per prima.
Poi, sospirando, aggiunse: << spero anche io che ne
venga fuori… perché se continua così, sarò costretta a radiarlo dall’albo dei
ninja di Konoha. Senza di lui non posso far muovere la sua squadra con nessun
altro, e ora che Kurenai è in ferie a causa della gravidanza sono costretta a
tenere a riposo anche Shino e Hinata. Non posso perdere due ninja per uno solo.
Se non si risolverà entro breve, lo sostituirò ufficial…
>>
Kiba, in un qualche modo, sentì che il discorso continuava,
ma ormai non era più in grado di rimanere concentrato sulle parole.
Le frasi di sua madre erano quasi riuscite a risvegliare il
suo orgoglio assopito, ma tutto ciò era servito solamente per far sì che Tsunade
lo pugnalasse con sentenze affilate come la lama di un kunai.
Trattenne il fiato e, ignorando il dolore che i punti gli
procuravano, con un balzo calcolato saltò prima sulla tettoia, poi sull’acero
dietro casa sua. Ignorò gli uggiolii di Akamaru, che
non lo seguì, e con qualche rapido passo di corsa prese lo slancio da uno steccato
e si mise a correre e saltare sui tetti del villaggio.
Correva per sentire dolore, probabilmente, anche se era una
contraddizione. Così poteva trovare una scusa alternativa per le lacrime, che
premevano frementi agli angoli dei suoi occhi, desiderose di uscire per dar
sfogo alla tristezza nata improvvisamente dentro di lui.
Lo punivano perché raccontava la verità, era questo che
stavano facendo? Lo punivano perché non riusciva a conformarsi al volere di una
psicologa impaziente, la quale non vedeva l’ora di vincere ancora e liberarsi
di lui?
Corse con velocità lungo uno dei tetti del
quartiere occidentale, prendendo istintivamente lo slancio necessario a saltare
su quello successivo senza fare troppo rumore. Poi su quello dopo, e su
quello dopo ancora, senza fermarsi.
Finché il dolore divenne troppo acuto per
essere ignorato oltremodo. La sua improvvisata dimostrazione atletica
doveva aver strappato uno o due punti; sentiva l’odore fastidioso del sangue
giusto sotto al suo naso e, a causa proprio di questa
combinazione, fu costretto a fermarsi nel primo posto possibile.
Nell’ultimo balzo che il suo corpo gli rendeva disponibile
adocchiò una strada poco sotto di lui. Aggrappandosi ad uno stendipanni
riuscì a frenare la caduta, ma fu comunque costretto a
chinarsi su se stesso in un gemito dolorante una volta con i piedi per terra,
portandosi la mano sinistra a tenersi la ferita.
Poteva sentire il calore di alcune
gocce di sangue sotto le dita, attraverso la stoffa della maglietta a mezze
maniche, e di conseguenza il bruciore classico provocato dal contatto della
pelle viva con la stoffa.
<< nh… >> gemette di
nuovo quando cercò d’alzarsi, vedendosi costretto ad aspettare almeno che il
sangue di fermasse.
Se non sbagliava troppo i calcoli, e quello che vedeva in lontananza era veramente il confine del vecchio quartiere
Uchiha, non doveva essere tanto lontano da casa di Naruto. Magari avrebbe
potuto chiedere ospitalità a lui, per una notte, sempre che non fosse partito
per una qualche missione. Ultimamente non sapeva nulla sugli spostamenti delle
altre squadre.
Un rumore di passi riuscì però a distrarlo… o meglio, ad
attirare la sua attenzione, dato che stava all’erta
quasi per abitudine, ormai. Quando la persona in questione si fermò di fronte a
lui, e Kiba poté alzare gli occhi, non si sforzò di trattenere un’espressione a
metà fra lo sorpreso e il rassegnato.
<< Allora è una condanna! >> borbottò incredulo,
riabbassando subito gli occhi ad una ulteriore fitta
al costato.
<< Considerando la situazione, direi
più una fortuna >> ribatté Shikamaru, non mostrandosi
particolarmente risentito per le parole rivoltegli.
Il moro lo osservò per qualche istante, le mani in tasca,
per poi chinarsi sulle gambe in modo da poter guardare Kiba negli occhi senza
che l’altro si facesse venire il torcicollo. Allungò poi le mani in direzione
del lembo della felpa, con l’intenzione evidente di alzarla.
<< Che fai?! >> sbottò
subito il castano, muovendo le braccia per scansarlo ma pentendosi subito della
mossa quando causò lo strattone doloroso di un punto sulla sua pelle. <<
Ah! >> gemette, abbastanza forte, affrettandosi a ritornare in posizione.
<< Fammi dare un’occhiata
>> disse Shikamaru, sfoggiando un’espressione da apoteosi della calma.
Tragicamente, Kiba fu costretto a lasciarlo fare. Il
contatto delle mani del moro sulla sua pelle non lo infastidiva affatto… ed era
proprio per questo che non voleva che lo toccasse. Ma
non poteva tirarsi indietro, ora come ora, dato che da solo (ammetterlo era
peggio che ardere vivi su una pira!) non sapeva nemmeno come curarsi.
Nara fu inaspettatamente professionale. Si limitò ad
osservare il taglio, i relativi punti e lo stato della cicatrizzazione,
toccando solamente la pelle intorno e senza infierire ulteriormente in quanto dolore. << Si sono strappati due punti
>> decretò poi << nulla di grave, è solo l’infiammazione che lo fa
bruciare in modo esagerato >> concluse,
rialzandosi e tendendogli la mano.
Mano che il castano osservò titubante.
<< Ce la faccio da solo >> borbottò
scorbutico, alzandosi con relativa difficoltà ed attenzione, di modo da non
farsi troppo male.
Shikamaru fece spallucce, ritirando la mano. << Andiamo >> aggiunse poi, rimettendosi le mani in tasca
e incamminandosi verso sud.
<< “Andiamo” dove? >> domandò Kiba con un
sopracciglio alzato.
<< A casa mia >> rispose voltandosi: <<
quel casino è da disinfettare >> aggiunse poi, indicando con un cenno del
volto lo stomaco del castano.
A casa sua?! Sì, certamente, era già là! Già cercava di
distanziarlo quando lo beccava per strada, figuriamoci
se era ospite in casa sua! Lui si stava sforzando come un maledetto per non
averlo intorno, per non pensare all’altro
Shikamaru o ai paragoni che venivano inevitabili, ma sembrava che Nara (o il
destino) si divertisse a piombargli addosso nei momenti in cui era meno
preparato. E nel contempo non ci faceva nemmeno una
bella figura, se per difendersi era costretto a fare lo scontroso con un suo
vecchio amico a cui, tra l’altro, teneva ancora.
<< Sto bene! >> rispose cocciuto: << non
ho bisogno di- >>
<< O ci vieni sulle tue gambe
o ti ci trascino, Kiba >> lo interruppe il moro, perentorio.
Non ebbe possibilità di ribattere. Qualcosa, nello sguardo
di Shikamaru, gli disse che non era il caso di stare a discutere troppo.
Sospirando seccato, lo seguì.
Ricordava benissimo dove abitava Shikamaru.
Nonostante il nome del suo clan
fosse annoverabile fra quelli più in vista della Terra del Fuoco, e
possedessero altresì una consistente parte della foresta che circondava Konoha,
lui e i suoi genitori vivevano in una casa di media grandezza circondata dagli
alberi.
Era fuori dal villaggio, appena
inoltrata nella foresta, immersa nella natura e allo stesso tempo collegata
direttamente con il villaggio. Di fatti, dalla finestra della camera di
Shikamaru, fra le fronde degli alberi si potevano benissimo vedere i tetti
delle case più esterne del villaggio.
In poche parole era la periferia, della periferia, della
periferia. I volti di pietra degli Hokage avevano quasi la stessa dimensione di
una moneta, da quella distanza.
<< Di sicuro è un posto tranquillo >> disse fra sé e sé, osservando quel piccolo scorcio di cielo
che le foglie lasciavano osservare agli abitanti della casa. Notte serena e
piena di stelle. Se non avesse avuto tutti quei
problemi, sarebbe stata una serata stupenda da spendere in giro a far danni con
Akamaru e Naruto.
Il rumore della serratura che scatta
lo fece voltare, ormai con relativa tranquillità, finchè la figura di Shikamaru
non entrò nel suo campo visivo. Nonostante la stanza fosse fiocamente
illuminata dalla luce esterna e solo da quella, poteva
benissimo leggere il nome del disinfettante che il moro portava in mano e
sentirne l’odore disgustoso anche attraverso la plastica.
Storse il naso, movimento che Nara non si lasciò sfuggire.
<< Ancora allergico ai disinfettanti? >> chiese con un mezzo sorriso, poggiando la bottiglietta
incriminata e la rimanente attrezzatura sul mobile accanto al letto.
<< Già… >> fu la laconica risposta. Non parlava
troppo per non tradirsi, ma non riusciva a staccargli gli occhi di dosso
qualsiasi movimento facesse. Era
uguale, compresi movimenti ed espressioni, allo Shikamaru
dell’accademia.
Stessi occhi, stessi atteggiamenti, stessi sorrisi, stesso
tono di voce.
Chissà, magari… stesse labbra?
Sospirò, dandosi dello scemo e scostando lo sguardo da lui.
Certo che poteva evitare di farsi del male in quel modo, no?
<< Ok, direi che ho tutto l’occorrente >> decretò il moro, tirandosi le maniche della maglia oltre i
gomiti: << solleva la maglia e stenditi >> disse poi, indicando
l’unico letto presente con il volto.
Kiba, contrariamente a quello che avrebbe voluto fare,
tacque. Non era il caso di continuare la farsa dell’improvviso asociale… oltre
che somigliare a Sasuke “I Miei Sorrisi sono una delle
Specie Protette” Uchiha si rendeva conto di stare creandosi una pessima
reputazione. Cioè, nel caso esistesse ancora una sua
reputazione da peggiorare, ovviamente.
Seguì in silenzio le istruzioni, buttandosi a pancia in alto
sul letto e sollevando la maglia con entrambe le mani. Appena il materasso ebbe
finito di sobbalzare, Shikamaru vi si sedette stringendo con la destra un
batuffolo di cotone idrofilo imbevuto di disinfettante. Contrasse i muscoli
quando, toccando con esso la sua pelle, le parti
ferite cominciarono a bruciare, ma trattenne l’imprecazione sorta spontanea
mordendosi il labbro inferiore e trattenendo il respiro.
<< Scusa, brucia un po’ >> si
scusò prontamente Shikamaru, continuando però il lavoro di disinfezione.
<< Nh… me ne sono accorto!
>> ribatté Kiba spontaneamente, rilassandosi solamente quando si abituò
al costante bruciare provocato dal batuffolo.
Nel seguente silenzio, fu lo stesso Inuzuka a non riuscire a
trattenere la voce. << Tua madre è gentile come sempre >> esordì,
fissando per l’ennesima volta il manto notturno all’esterno della finestra:
<< penso sia la prima persona che non mi abbia fissato con tanto d’occhi
da due settimane a questa parte >> aggiunse, stirando appena le labbra in
un sottile quanto invisibile sorriso.
Shikamaru si fermò per un istante, alzando gli occhi scuri
su di lui per osservarlo. << Lo è solo con gli ospiti. Con noi è una iena
>> fu la risposta, data mentre si tendeva per
afferrare forbicine e pinzette cavaciglia.
Kiba ridacchiò appena, rilassato. Doveva ammettere che una
tranquillità così, da quanto era “tornato”, non l’aveva mai avuta.
<< Non ridere, sono armato >> lo riprese
bonariamente, esitando con le forbicine impugnate allo
sobbalzare del torace del castano, dovuto alla risata.
<< Ah, scusa >> borbottò quello in risposta, sospirando per rimanere serio.
Avvicinandosi con il volto per poter vedere il punto giusto
da tagliare, fu Shikamaru a parlare questa volta: << come mai questo
cambiamento improvviso? >> chiese, evitando di guardarlo con la scusa
della concentrazione sulla ferita.
Nemmeno Kiba girò lo sguardo, nonostante la domanda lo
avesse colto alla sprovvista. << In che senso? >> chiese, facendo il finto tonto nonostante immaginasse che, con
Shikamaru, una scusa del genere non funzionasse.
A ragione: Nara non solo non cascò nella trappola, ma si
fermò venti metri prima. << Non giocare a fare l’asino, è da quando sei
uscito dall’ospedale che non ti si può parlare >> disse
deciso, riuscendo delicatamente a prendere con le pinzette il punto mezzo
strappato e a sollevarlo abbastanza da farci passare sotto la lama delle
forbici. Tagliò con un colpo secco, sfilando al contempo il punto dalla pelle
di Kiba non senza un piccolo sobbalzo dell’interessato.
<< Ahi! >> si lamentò il castano, osservandolo
posare forbici e pinzette per prendere ago e filo: << cos’è, ti improvvisi ninja medico? >> domandò a bruciapelo,
inquietato da quell’ennesima abilità di Shikamaru.
<< Non cambiare discorso >> fu però la risposta
disinteressata e al contempo pressante del compagno.
Kiba sbuffò, chiudendo gli occhi. Perché
non riusciva a stare zitto, o a fingere, in sua presenza? Era la stessa,
identica, stramaledetta sensazione che provava a cospetto dello Shikamaru
dell’accademia. Del suo Shikamaru;
anche a lui non riusciva a mentire o
a nascondere le cose.
<< Non mi credete, no? >> fu dunque la risposta,
pronunciata voce debole e segnata da una sorta di rassegnazione.
Nara gli lanciò un’occhiata, senza però riuscire ad
incontrare i suoi occhi. << Chi
non ti crede? >> chiese dunque, sottolineando con
la voce il “chi”.
<< Voi >> chiarì il castano. << Tutti voi.
Perciò non trovo motivo di sorridere come uno scemo o
di scherzare come prima. Vedo come mi guardano tutti quelli del villaggio, non
sono stupido, e nemmeno così disperato da far finta di
niente come fa Naruto >> aggiunse, in una sorta di sfogo pacato.
<< Naruto non è disperato, se ne infischia e basta
>> disse il moro, disinfettando la punta dell’ago e posizionandosi
per rimpiazzare il punto appena tolto con uno nuovo: << cosa che dovresti
fare anche tu se credi davvero in quello che dici, e smettere di fare l’eremita
scontroso >> aggiunse sbrigativo, infilando l’ago nella pelle a
tradimento.
<< Come ti perm- AHIA!
>> si lamentò improvvisamente, stroncando la frase a
metà: << bastardo, potevi almeno avvertirmi! >> sbottò
alzandosi sui gomiti.
<< A che pro? Avrebbe fatto solo più male >>
osservò il moro, strappando con i denti il filo e annodandolo abbastanza
stretto per far sì che la ferita non potesse
riaprirsi. << E se stavi per dire “come ti permetti” ti do un consiglio:
stai a sentire le persone fino alla fine, prima di
sbraitare >> sentenziò, posando l’ago e cominciando a scartare qualche
cerotto.
Kiba storse il naso, assottigliando al contempo gli occhi in
una smorfia seccata. << Sentiamo allora >> decretò subito, ben posizionato sui gomiti e con gli occhi fissi su di lui. Lo avrebbe ascoltato per l’equivalente di cinque secondi, poi un
calcio ben assestato non glielo levava nessuno.
Rispondendo per un istante al suo sguardo, Shikamaru iniziò:
<< quando Tsunade-sama ci ha convocati per comunicarci le tue condizioni,
le voci avevano già cominciato a girare. Sapevamo ormai tutti a che livelli era
arrivato lo scetticismo del villaggio e, al contempo, sapevamo già a grandi
linee la versione che sostenevi >> disse,
posizionando il primo cerotto sulla parte lesa della ferita. << Tsunade
non ti credeva, e così anche altri ninja, tra cui Neji e Ten Ten. Lee non prendeva posizione e Ino e Sakura non sapevano
cosa pensare, ma erano d’accordo con Tsunade sul fatto che la tua storia fosse
improbabile >> continuò, attaccando il secondo cerotto accanto al primo e
il terzo subito a fianco.
Alzò poi lo sguardo, fissandolo seriamente. << Kiba,
devi ammettere che la tua versione dei fatti, oltre a non combaciare con le
altre riportate, è poco credibile >> disse, per
poi aggiungere: << nessuno ci crede >>.
Kiba fu sicuro di sentire il suo cuore mandare un battito a
vuoto. Deglutì faticosamente, aggrottando le sopracciglia in uno sguardo da
orgoglio frantumato.
<< Che cazzo ti ascolto a
fare, se mi ripeti con altre parole quello che ho appena detto io? >>
sputò rabbioso, mettendosi seduto con la ferma intenzione di andarsene.
Ma fu bloccato, con il semplice
gesto del moro di mettergli la mano sulla bocca.
Shikamaru lo guardò dritto negli occhi, continuando
imperterrito il suo discorso: << quando la Godaime
ci ha parlato del tuo possibile licenziamento, Naruto l’ha zittita. Ha urlato
come un forsennato che tu non dici bugie, che ti conosceva e che si fidava di
te. Chouji l’ha spalleggiato e Shino ha aggiunto del
suo, dicendo che preferiva di gran lunga credere nel
suo compagno di squadra che in una psicologa mai vista prima >> sorrise
nel racconto, osservando pian piano l’espressione di Kiba farsi sempre più
sorpresa. Abbassando la mano che teneva premuta sulle sue labbra, riprese:
<< Hinata ha balbettato qualcosa di simile a quello
detto da Naruto, solo un tantino più educatamente. Kurenai-san
ha ribadito che, per la sua esperienza avuta con il
team, se sostieni le tue teorie con tanta insistenza c’è sicuramente un motivo
serio e Asuma-sensei le ha dato ragione. Metà dei jounin che ha rapporti con il tuo clan ti sostiene… e io
sono d’accordo con loro. Ti risparmio l’uscita di Gai-san e Lee sui problemi dell’odierna gioventù >>
terminò, osservandolo con un mezzo sorriso.
<< Ma… >> esitò Kiba,
confuso e al contempo sollevato da quelle affermazioni: << ma se hai
appena detto che non credi in quello che dico!? >> sbottò sorpreso,
evidenziando il controsenso.
<< Sì, è vero. Non riesco a credere nella storia che
racconti >> disse l’altro: << ma credo in te. Ci conosciamo da quando eravamo bambini, Kiba, e sono sicuro
che c’è un motivo se continui a sostenere le tue parole. Non lo faresti se non
ci fosse sotto qualcosa di serio >> asserì
pacatamente, sicuro di quello che diceva come se parlasse di se stesso.
Kiba rimase letteralmente senza parole.
Non sapeva cosa dire di tutto quello che gli aveva detto,
come non sapeva se credergli o meno.
Ma Shikamaru non gli aveva mai
mentito. E per tutto ciò che li legava, fosse amicizia
o amore, fosse una dimensione o l’altra… si era sempre fidato di lui.
Sempre. Addirittura senza rendersene conto.
Per la prima volta in due settimane non si sentiva… solo.
<< Eh… >> esclamò sorridendo come uno scemo,
portandosi al contempo la mano destra agli occhi: << fa quasi piacere
sentirselo dire >> bofonchiò, sorridendo come un ebete.
Era una liberazione, sentire quelle parole.
<< Che fai ora? Piangi?
>> ironizzò il moro, facendo il suo classico sorrisetto sbieco.
<< Macché, è il taglio che brucia >> si coprì
subito il castano, alzando gli occhi su quel sorriso proibito che aveva imparato ad adorare e che ancora, anche se fatto da
una persona diversa (ma diversa quanto,
alla fin fine?) da quella che glielo aveva rivolto per la prima volta.
Non riuscì più a zittire, in quel modo, il bisogno pressante
che lo opprimeva.
<< Chiudi gli occhi >> disse,
sfoggiando un sorriso dolce e al contempo beffardo.
Shikamaru inarcò un sopracciglio, stranito dalla richiesta. <<
Cosa devi fare? >> chiese, un sorriso agitato malamente mascherato.
<< Non hai appena finito di dire che ti fidi di me?
>> ribatté furbo l’Inuzuka, allargando quello stesso sorriso. <<
Tranquillo, non ti molesterò >> ironizzò
divertito.
<< Non è di questo che mi preoccupo… >> fu il sussurro del moro, che però Kiba ignorò nel momento
stesso in cui Shikamaru seguì il volere del castano e chiuse gli occhi.
Si avvicinò lentamente, socchiudendo gli occhi in
un’espressione quasi malinconica ora che il moro non poteva vederlo.
Se escludeva il luogo, il contesto,
i problemi… le inibizioni che si era posto apparivano come semplici ostacoli
fatti di nebbia e rugiada.
Deboli.
Se si lasciava andare, se annullava
le distanze come le differenze, rimaneva solamente l’anima di Kiba Inuzuka e
quella di Shikamaru Nara, vicine ed inseparabili, nell’amicizia come nel tempo.
Un bacio. Solo un bacio.
Sbagliato quanto proibito. Ma non
poteva impedirsi di avvicinarsi ancora, di accorciare la distanza fra le loro
labbra, ancora e ancora, quasi casualmente ma in realtà volutamente.
Però si fermò.
A poca distanza, pochissima, dal bacio che aveva bramato da
quando era ritornato “se stesso”. A qualche centimetro dai suoi sentimenti e
dalla replica degli stessi.
Il suo bisogno di Nara era insano. Era una goccia in più nel
bicchiere già colmo della sua pazzia.
Ma non era giusto. Perché lui non
era quel
Shikamaru.
E non poteva… rovinare in un soffio
un’amicizia così bella.
Non poteva.
Si morse il labbro silenziosamente, scansando le labbra del
moro e appoggiando la fronte sulla sua spalla.
Il cuore batteva veloce, ogni respiro faceva male, ma la
ragione gli diceva insistentemente che era meglio così.
Quant’era difficile, far prevalere il cervello e sotterrare l’istinto...
<< Avevi bisogno di farmi chiudere gli occhi per
appoggiare la fronte sulla mia spalla? >> chiese quasi divertito
Shikamaru, riaprendo gli occhi.
<< Ti saresti spostato >> fu
la scusa del castano, che approfittò biecamente del fatto che poteva nascondere
il viso agli occhi dell’altro per mentire senza sforzo. Si sentì appoggiare la
mano sulla testa e, quasi in risposta, chiuse gli
occhi.
<< Smetti di trarre conclusioni
affrettate >> fu la replica.
Gli attimi di silenzio che seguirono furono interrotti
solamente da un bussare secco alla porta, che portò i due a separarsi.
Qualche istante dopo, il volto di Shikaku
Nara, padrone di casa, comparve dalla porta. L’espressione grave del volto non
presagiva niente di buono.
<< Ragazzi, è meglio se venite a dare
un’occhiata >> pronunciò con voce profonda, lasciando la porta
aperta e incamminandosi lungo il corridoio in direzione dell’ingresso di casa.
Si guardarono per un istante. Ma
bastò quel semplice sguardo per farli alzare dal letto e seguire Shikaku, in piedi sulla porta di casa insieme alla moglie.
<< Che succede? >>
chiese Shikamaru, affiancandosi ai genitori insieme a Kiba.
Lo spettacolo che si mostrò ai loro occhi lasciò sbalorditi
i due ragazzi, ultimi spettatori di quel fenomeno particolare quanto
inquietante.
Dal cielo completamente sgombro da nubi, in un clima estivo
tipico di inizio luglio, scendevano ondeggiando quelli
che avevano tutta l’aria di essere fiocchi di neve.
<< Non può essere neve… >> disse
la donna con un moto di stupore.
<< Non lo è >> le rispose
Shikamaru, ritirando la mano dopo aver preso uno dei fiocchi.
Non era bagnata, non era fredda e, soprattutto, non era
bianca.
No, non era neve…
… era cenere.
Chapter No.14 ~ End.