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Autore: Yoko Hogawa    09/03/2009    4 recensioni
<< Allora, com’è successo? Li hai mostrati in pubblico o cosa?>> chiese, camminando tranquillamente con le mani in tasca.
Kiba rimase sorpreso dalla domanda, non capendo assolutamente cosa intendesse l’altro con quelle parole. << Cosa?>> chiese dunque, girando il volto verso Nara senza capirci esattamente molto del discorso.
Shikamaru si voltò in sua direzione, osservandolo con un sopracciglio alzato. << Cos’è, fai il finto tonto?>> rispose, forse sgarbatamente, lo studente.
Ok, ora cominciava a seccarlo. << Io non faccio il finto tonto, ti ho chiesto solamente “cosa” avrei dovuto mostrare >> rispose poi il castano, mettendosi sulla difensiva. Non gli piacevano per nulla le persone che gli davano del tonto senza conoscerlo, sua sorella lo aveva fatto anche abbastanza durante la sua turbolenta adolescenza femminile del cavolo.
[SasukexNaruto][ShikamaruxKiba]
Genere: Azione, Sovrannaturale, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Kiba Inuzuka, Naruto Uzumaki, Sasuke Uchiha, Shikamaru Nara
Note: Alternate Universe (AU) | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Chapter 14 ~ Eleventh Echo

Ok, scusatemi per il ritardo immenso.

Ma fra esami, inizio lezioni, orari dei treni e altre beghe varie (fra cui l’ispirazione completamente scomparsa) questo capitolo arriva in ritardassimo.

Passerei dunque subito alle risposte, che purtroppo dovrò fare in modo abbastanza sbrigativo perché è giusto un po’ tardi e domani mattina ho la sveglia presto ^^’’’

 

Rosa_elefante: Grazie mille, sempre felice che i capitoli piacciano! XD Guarda, per le domande che mi hai fatto, la risposta ancora non è tempo che la dia. Nel prossimo capitolo ti si chiariranno un po’ le idee sul come abbia fatto Shikamaru a capire che la morte di Kiba serviva a mandarlo indietro. Grazie per la recensione e i complimenti!

CloudRibbon: *fix con occhi sbrilluccicosi il papiro* ahem. Senti donna, St. Michael sarà anche St. Michael, ma anche il Pozzo è pur sempre il Pozzo! Mi sento in colpa se ti stravolgi la trama solo perché abbiamo usato la stessa teoria per le fic! ç____ç
Grazie per le considerazione sulla resistenza della mia pazienza nel scrivere senza staccare nemmeno una volta, giuro che non me ne sono nemmeno accorta… cioè, solo quando ho riletto, il che per me è anche troppo XD e trattieni le lacrime, il momento buono non è ancora giunto…

Benvenuta nel clan OSUTIA, ovvero “Odiamo Sasuke Uchiha Tutti Insieme Appassionatamente”. A me non ha fatto pena, ci ho goduto nel tarturarlo. Oh yeah.

I tuoi rompicapi su Kiba sono più che comprensibili, ma non posso darvi risposta, per ora. Ma credo che questo capitolo ti schiarirà un po’ le idee sul dilemma. Il prossimo, se questo non aiuta, sarà decisamente illuminante. Posso dire lo stesso delle conseguenti domande, anch’esse troveranno risposta nel capitolo a seguire. Tranne la seconda. Per sapere se sono vivi dovrai aspettare il prossimo capitolo XP.

Ti ringrazio ancora tanto per i complimenti. Quando l’ispirazione va via, rileggere le recensioni stile papiro che mi lasci mi fa tornare la voglia, se non di scrivere, almeno di impegnarmi a farlo. Grazie di cuore.

Slice: Grazie a chi, a me? XD Ma grazie e a te per la recensione! Scusa se il mattone è peso, tenterò di alleggerirlo, giuro *sisi*.

ProudStray: emh… il tuo “aggiorna veloce” era relativo, vero? ^^’’’’ No, comunque grazie, e scusa se ti ho fatto aspettare così tanto. Stavo quasi per dire “la prossima volta ci metterò di meno” ma non metto le mani avanti, dato il periodaccio di lezioni che mi aspetta… *si angolizza e fa cerchietti*. In ogni caso grazie mille per la recensione, sempre felice che il mio lavoro piaccia!

Hiko_chan: Le tue domande sono tutte pertinenti e tutte con risposte che non possa darti per motivi di spoiler XD tranne per una: il “non mollarmi” era inteso nel senso di “non morire”, dato che era un tantino mezzo morto (sì, sono una carogna). Ottimo collegamento quello che unisce la morte con il passaggio da una dimensione all’altra, brava, tienitelo a mente XD.

Grazie mille per i complimenti e per la recensione! (p.s. io alla maturità ho avuto la brillante idea di fare il problema che il resto della classe aveva scartato… niente suggerimenti per me XD)

Soarez: …la tua sequela di tentativi di sucidio mi lascia perplessa. Ma, col tempo, ho imparato a non fare domande.

In ogni caso: sì. Shikamaru è figo. Devo ammettere che lo sto valutando anche troppo XD mi sta sfuggendo! Orociok non posso dire se si ritira a vita privata o smonta anche le fondamenta della terra. It’s spoiler XP ma si saprà presto, nel prossimo capitolo. Ottima arringa, avvocato, ottima arringa. La Corte si ritira per deliberare.

Grazie mille per complimenti, recensione, e soprattutto per la descrizione fantastica dei tuoi tentativi di suicidio e delle ipotesi X°DDD mi hanno fatto morire!

OnlyAShadow: Non è esatto. Io AMO complicare le cose XD. E ti ringrazio, davvero mia santa, per avermi detto che le scene di lotta si capiscono! ç_______ç *commossa*. Anche a te tanti grazie per il commento, per i complimenti e per il continuare a leggere!

 

Ok, fine risposte *fissa l’orologio e sbianca*

E’ la prima volta che scrivo questo spazio dopo aver scritto il capitolo. Ma per questo posso dirvi che, a mio parere, è venuto male… e che è un capitolo quasi inutile, una specie di intermezzo.

Spero non sia peggiorata inesorabilmente ç_____ç in tal caso mi scuso.

Ora fuggo.

A vuoi tutti, buona lettura!

 

 

Chapter 14 ~ Eleventh Echo

Giochi di Ruolo

 

 

Quando la donna si portò la mano alla fronte, chiudendo gli occhi con fare disperato, Kiba intuì subito la risposta che avrebbe ottenuto anche quella volta.

<< Mi dispiace, Inuzuka >> disse lei, spostandosi con un gesto rapido della mano un ciuffo biondo sfuggito al ferreo controllo imposto ai suoi capelli dal piccolo chignon: << non posso ancora abilitarti al servizio >> disse in un sospiro.

Kiba sbuffò, chiudendo gli occhi per evitare di saltare quella dannatissima scrivania e cominciare a prenderla a pugni.

<< Perché? >> chiese invece, la voce fremente di rabbia che per l’ennesima volta si sforzava di controllare.

<< Lo sai >> ribatté lei, probabilmente avvertendo la tensione. Era una psicologa del cavolo, dopotutto: se non lo psico-rincoglioniva lei che lo faceva di mestiere, chi diamine doveva farlo?

<< Io non le sto mentendo! >> esclamò il castano, aumentando involontariamente di qualche decibel il volume della propria voce. E di grazia che aveva aumentato solamente quello e non, per esempio, l’odio che sentiva corrergli nel corpo insieme a tutti quei medicinali con cui veniva imbottito da due settimane a quella parte.

La donna si appoggiò allo schienale della sedia, sistemando in maniera quasi maniacale la matita che aveva in mano all’interno dell’apposito astuccio in metallo. Lo guardò poi, dall’alto della montatura dei suoi sottili e pseudo-professionali occhiali da vista, compatendolo per l’ennesima, maledetta, disperata volta. << E’ difficile credere che tu non stia mentendo, Kiba >> disse, passando direttamente al nome. << Insomma… cunicoli spazio-tempo, un’accademia in cui studiano angeli, esorcisti, esper e chi più ne ha più ne metta! >> esclamò lei, incredula persino delle sue stesse parole.

<< Non è una menzogna, l’ho vissuto davvero! >> ribatté Kiba, sporgendosi verso la donna con fare minaccioso.

<< Quando? Nei pochi minuti in cui hai perso conoscenza dopo l’attacco? >> rispose prontamente la dottoressa, sfidandolo con lo sguardo ad obiettare una tale verità.

Cosa che Kiba non poté fare, anche se avrebbe tanto voluto ringhiare dalla frustrazione.

La donna lo osservò, sospirando per scaricare a sua volta la tensione. << Senti… sei in cura con me da quasi due settimane, praticamente da quando ti sei svegliato. Vieni qui tre volte a settimana, il che fanno un totale di sei sedute, e sei volte su sei ti ho sentito raccontare ancora e ancora la stessa storia. All’inizio pensavo che fosse una specie di trauma mentale dovuto allo shock, oppure un’allucinazione, ma dopo due settimane credo che lo shock sia passato. Si può sapere cosa succede? Ti basterebbe dire la verità e potresti riprendere il servizio. Potresti tornare ad essere un normalissimo ninja! >> disse la donna, probabilmente presa da livelli di stress pressoché sconosciuti persino a chi faceva il suo mestiere.

Oppure, semplicemente, incapace di accettare una sconfitta… se di sconfitta si poteva parlare.

Sicuramente, per lei un paziente che non riusciva a lavorare perché si ostinava a sostenere un castello in aria, era sicuramente una perdita su tutta la linea.

Il ragazzo non rispose alla provocazione, preferendo di gran lunga alzarsi e andare a sfogare la sua agitazione su un qualche innocuo “qualcosa” fuori di lì. Almeno sarebbe uscito e avrebbe rimandato quella sfrontatissima farsa alla settimana successiva.

Senza salutare si voltò, sistemandosi la felpa rossa in cui si era infilato solamente per rispetto al pudore pubblico, arrivando velocemente alla porta.

La dottoressa lo salutò con un “ci vediamo lunedì” mentre, molto probabilmente, stampava sulla pergamena da consegnare all’Hokage un purpureo “non idoneo” che sanciva la sua temporanea sospensione dal corpo dei ninja di Konoha.

Perché sì. Lui, Kiba Inuzuka, era ufficialmente in cura dalla psichiatra di turno dell’Ospedale della Foglia.

Motivo? Semplice: diceva la verità.

…Beh, ok. Doveva ammettere che per chi lo ascoltava da fuori, poteva non essere così semplice.

Anzi, anche lui aveva impiegato il suo tempo per fare il punto della situazione… e il risultato era una confusione da fare invidia ad un dipinto di arte post-moderno-futurista o di qualche altro periodo reale o fittizio.

A quel pensiero si fermò esattamente nel mezzo del corridoio, poco prima delle scale.

Ecco, ci era cascato di nuovo. Maledizione, maledizione, MALEDIZIONE.

L’arte futurista in quel mondo non c’era. Konoha aveva di tutto tranne che un museo.

Ed eccolo lì, il suo problema.

Si ricordava due vite. Due esistenze distinte, in due mondi altrettanto distinti con svolgimenti prettamente simili ma del tutto differenti.

In uno lui era un ninja, un chunin per la precisione. Aveva vissuto una vita incentrata sul desiderio di diventare il migliore del suo clan, aveva frequentato l’accademia ninja, era stato ammesso nella squadra della maestra Kurenai insieme a Shino e Hinata ed era, alla fine, diventato un militare utile per il suo paese: Konoha.

Perché si era risvegliato in ospedale? Semplice. Durante una missione di livello B erano stati attaccati: lui guidava la fila, non si era accorto che un ninja nemico gli veniva incontro ed era stato trafitto da una katana.

Ma no, non era così facile.

Perché nell’altro mondo lui era sempre Kiba Inuzuka, ma era uno studente con pochissima voglia di studiare, addetto alle risse del doposcuola e che viveva in simbiosi con il joystic della playstation. Era entrato in un’accademia speciale dopo che la madre aveva deciso di pagare il college alla sorella maggiore con i soldi della sua retta, aveva conosciuto gente tutta schizzata e particolare, aveva rischiato la vita e, tramite una specie di rituale a lui sconosciuto (che però comprendeva la sua morte) era ritornato nel suo mondo trafitto con una spada di cristallo dal suo ragazzo.

Chiuse gli occhi, portandosi la mano destra a stringersi la felpa in corrispondenza dello stomaco.

Quella era una delle cose che faceva più male ricordare.

Shikamaru.

O meglio, i due Shikamaru.

Shikamaru Nara di Konoha e il suo Shikamaru Nara del St. Michael.

Tra i due cambiava solamente l’aggettivo possessivo. Erano uguali, similissimi e, nonostante non volesse pensarci, non poteva evitarselo.

Lo Shikamaru di quel mondo non condivideva niente con lui se non una vecchia amicizia ormai arrugginita dal tempo.

Non era il suo ragazzo, non gli voleva più bene di quanto non ne volesse a Choji o Naruto e, soprattutto, non era mai e poi mai stato infatuato di lui.

Era… svanito tutto.

Portò una mano sotto la felpa sfiorando la ferita sul suo addome. Il taglio, che gli trapassava il costato e si riproponeva speculare sulla schiena, al tatto era ruvido: dopo essere stato trattato con delle tecniche magiche per svariate ore i medici avevano lasciato alle sue piastrine l’onore di formare una spessa crosta scura, aiutate dai punti metallici che, a seconda dei movimenti, gli tiravano dolorosamente la pelle.

Ormai, una volta fatto il callo a cose strane, non reputava più spaventoso il fatto che il ninja di quel mondo, e lo Shikamaru di quell’altro, avessero colpito nello stesso punto.

Coincidenza? No, per nulla. E no, non era strano.

Era la sua personalissima prova di non essere diventato completamente pazzo. Come lo credevano tutti gli altri, per esempio.

Shikamaru compreso.

E forse, nonostante potesse benissimo distinguere lo Shikamaru Nara di Konoha dallo Shikamaru Nara del St. Michael, quella era la cosa che lo feriva più di tutte, ancor più della sua impossibilità di tornare in servizio.

Interiormente, faceva male.

Anche se si vergognava ad ammetterlo, gli spezzava letteralmente il cuore.

Ripetersi che quello che vedeva camminare per la vie del villaggio non era lo stesso Shikamaru non funzionava in eterno.

Anzi, quella momentanea magia cominciava già ad affievolirsi.

Sospirando pesantemente decise di rimuovere quei pensieri dalla testa, cominciando velocemente a scendere le scale per arrivare nell’atrio. Ormai non doveva più stare in pianta stabile all’ospedale, dato che era stato dimesso; ci andava per le visite dalla strizzacervelli e per le ricette mediche, tutto lì.

A casa la situazione non cambiava di molto… ma almeno poteva stare fra le cose che, in un modo o nell’altro, gli risultavano famigliari.

Stava quasi per uscire quando, poco prima dell’atrio, una voce lo chiamò da uno dei corridoi dell’ambulatorio al piano terra. Sakura, con il camice bianco aperto sul suo solito abbigliamento dalle varie gradazioni di rosa, gli veniva incontro con un sorrisetto accondiscendente stampato in viso.

Oh, già. Aveva ormai imparato a sondare quei sorrisi da quando tutti quelli del villaggio, amici compresi, lo ritenevano un povero sclerotico delirante.

Era il sorriso stile “ehi, hai poi smesso di vaneggiare?” che gli rivolgevano tutti in ogni angolo del villaggio e dintorni.

Lo ammetteva: quasi quasi gli mancavano le occhiate accusatorie di Sasuke “Non Respirare in mia Presenza che Inquini l’Aria” Uchiha. Beh… l’angelo caduto distruttore di equilibri, ovviamente. In quel mondo non c’era più, lì intorno, un Sasuke Uchiha.

<< Inuzuka! >> lo salutò Sakura, fermandosi con in mano una cartelletta in plastica con all’interno, probabilmente, la storia clinica di un paziente a cui aveva appena applicato un cerotto ad un dito.

<< Sak… Haruno >> la salutò di rimando, incartandosi sul nome. E’ strano, chiamare una persona per nome in una dimensione e per cognome nell’altra.

<< Allora, emh… in visita da Okita-sensei? >> chiese, facendogli come al solito la domanda che interessava a tutti.

Le si leggeva in faccia. “Ti ha riammesso ai tuoi doveri di ninja?” sembrava chiedere. O meglio: “hai finito di dire cazzate senza senso?” o ancora: “potresti cortesemente dimostrare che non sei davvero impazzito di sana pianta e senza motivo logico apparente?”.

<< Già >> si limitò a rispondere, senza aggiungere altro. In quei giorni era talmente disgustato da quel discorso che non si sentiva in vena di essere allegro. Proprio per niente.

<< Com’è andata? >> chiese di nuovo la ragazza, sperando ardentemente in una risposta positiva da parte sua.

Risposta che non arrivò. O almeno, non con i risultati sperati: << sono ancora in “ferie” >> rispose il castano, mimando con le mani le virgolette, che evidenziò con la voce sull’ultima parola.

<< Ah… >> rispose lei.

Fra loro cadde un silenzio imbarazzante, com’era quasi logico che succedesse, e Kiba non aveva la minima intenzione di romperlo. Non si sentiva di certo in vena di parlare del tempo soleggiato di fine luglio, e men che meno con la Sakura di quella dimensione. Non erano amici così stretti, dopotutto… non .

<< Oh, a proposito! >> esclamò lei, togliendo entrambi da quella situazione di stallo: << considerando l’ultima ricetta che la maestra Tsunade ti ha firmato, teoricamente dovresti averle quasi finite… >> cominciò, estraendo dal camice un piccolo sacchettino abbastanza anonimo << così ho pensato di… sintetizzarne delle altre… >> esordì poi esitante, porgendogli l’involucro, chiuso da uno spago.

Lo prese dalle sue mani, osservandolo assorto prima di riporlo in tasca. Sapeva benissimo cosa c’era dentro: un triturato di erbe calmanti compresse in piccole pastiglie verdastre dal sapore orribile, che ultimamente lui ingoiava come caramelle.

L’equivalente omeopatico degli antidepressivi.

<< Grazie >> disse, piatto, indicando poi con un finto gesto distratto la porta: << scusa se ti faccio fretta, ma io dovrei tornare a casa entro una certa ora… >> esordì, finto e meschino.

Non aveva nessun coprifuoco. Semplicemente, voleva andare via da lì il prima possibile e affondare nella sua ipocrisia generale nuova di zecca.

<< Ah, certo >> rispose lei, sforzandosi di fargli un sorriso rassicurante… che non le venne bene. << Vai pure e… beh, rimettiti! >> esclamò infine, incamminandosi ancor prima di lui in direzione di un altro corridoio asettico e saturo di odore di disinfettante.

Kiba non rispose nemmeno (non ne ebbe il tempo) così si limitò ad infilarsi le mani in tasca e a riprendere il suo tragitto d’uscita. Quell’odore, forte già per gli esseri umani qualunque, per lui che aveva il senso dell’olfatto di molto più sviluppato rispetto all’ordinario era un vero tormento.

Una volta fuori dalla porta a vetri, una boccata d’aria fresca decretò il decisivo alleviamento della sofferenza che stava provando il suo povero naso. Certo, nell’aria di Konoha c’era sempre una discreta sinfonia di odori, ma era decisamente meglio di un ambiente chiuso.

Una volta raggiunto il cancello che delimitava il cortile, una massa bianca con un paio di orecchie rossicce gli venne incontro scodinzolando.

Un sorriso gli sorse spontaneo, mentre portava la mano destra ad accarezzare la testa di Akamaru senza dover nemmeno chinarsi. Era cresciuto veramente tanto, e lui come uno scemo non se ne era nemmeno reso conto.

<< Andiamo a casa? >> chiese allegro, ghignando in direzione del cane che, in risposta, gli leccò la mano.

<< Ah! Che schifo! >> esclamò Kiba scherzoso, pulendosi la bava sui pantaloni neri. Nella mossa, notò praticamente subito il naso del cane posarsi leggermente sul rigonfiamento che traspariva dal tascone della felpa. Lo annusò e, come se fosse contrariato, storse il naso e guaì piano.

<< Lo so, hanno un odore orrendo >> sospirò abbattuto, lasciando scivolare via il piccolo briciolo di allegria che gli si era depositato addosso. << E il sapore è anche peggio. Fortuna che non le prendi anche tu, amico mio >> ironizzò appena, estraendo l’involucro dalla tasca e fissandolo scocciato.

Tutta quella roba non serviva assolutamente a niente. Lui non era depresso o chissà cos’altro e, se veramente lo sembrava, non era di certo colpa o merito di quella stupidissima missione.

Era semplicemente il fatto che si ricordava due vite, ma questo non poteva di certo dirlo a miss “mi sto stufando di averti in cura” Okita-sensei, no? Insomma, già si sputtanava allegramente dicendole che aveva vissuto per quasi tre settimane all’interno di un’accademia in un altro mondo, se poi andava a dire che confondeva le due vite… il biglietto di sola andata per la clinica psichiatrica si sprecava.

Con un sospiro seccato ripose il sacchetto al suo posto, così come le mani raggiunsero le tasche dei suoi pantaloni, e con un broncio lungo mezzo metro ricominciò la sua camminata verso casa. << Andiamo, >> commentò verso Akamaru, che lo seguì a passo d’uomo e senza emettere il minimo suono.

Da qualche settimana aveva imparato che se prendeva vie secondarie e inutilizzate, nel tragitto casa - ospedale, incontrava meno gente. Da lì era tutta una reazione a catena che, però, aveva la sua utilità nel non farlo sentire sempre più atterrito.

Se incontrava meno gente, doveva fingere meno di non notare le occhiate che gli lanciavano quando lo vedevano. Se doveva fingere di meno, il suo sistema nervoso lo avrebbe ringraziato. Se il suo sistema nervoso lo ringraziava, di notte sarebbe riuscito a chiudere occhio leggermente più sereno e, soprattutto, avrebbe potuto evitarsi una delle cinque pastiglie che mandava giù ogni sera, ovvero il sonnifero.

Si rendeva conto che una cosa simile non era da lui.

Insomma, in teoria a lui non fregava niente di quello che il villaggio pensava sul suo conto. Sapeva cosa aveva vissuto, sapeva di aver visto il giusto e, anche se valeva solo per se stesso, aveva una prova stiracchiata impressa per sempre sul suo costato.

Però, a volte… solo ogni tanto… quella dottoressa riusciva quasi a convincerlo.

Riusciva a fargli nascere il dubbio, più che altro.

Era stato tutto un sogno? Una conseguenza dell’attacco preso in pieno? Uno di quei cosi chiamati “trauma post-traumatico”?

No. Non ci credeva, che fosse tutto falso.

Ma se lo fosse stato, invece?

Sì, lo ammetteva, aveva vagliato anche quell’ipotesi. Giusto per essere pronto a tutto.

Se fosse stata tutta un’illusione, lui era il più grande cretino della storia dell’universo. Perché aveva fatto amicizia con delle persone che non esistevano, aveva voluto proteggere dei falsi ricordi e, soprattutto… si era innamorato di un pugno di fumo.

Per questo continuava a dirsi che lui aveva ragione. Per questo cercava di convincersi.

Ma era difficile senza prove… difficilissimo. Sia convincere se stesso, sia raccontarla e farla bere ad Okita-sensei, compresi tutti quelli che lo guardavano come un povero psicopatico.

Compresi i suoi così detti “amici”, come i suoi compagni di squadra.

Soprapensiero, si portò una mano al collo.

Poteva quasi sentire ancora il metallo del crocifisso sulla pelle, freddo contro caldo, oro contro cute. Ogni volta, in quel riflesso condizionato che faceva per puro caso, era convinto di poterlo toccare ancora quando invece, appeso al suo collo, non c’era niente.

Non aveva altro che i suoi ricordi per convalidare la sua tesi, ma alla fin fine non contava nulla.

Nulla, se tali ricordi non si possono vedere e toccare, se non possono essere classificati come prove dalla prima psico-rimbambita di turno, se non si possono sbattere in faccia all’Hokage con un bel “e adesso chi è il traumatizzato, eh?”.

Sospirò affranto. Riflettere su cose simili non lo avrebbe aiutato.

Si fermò, alla fine di quelle considerazioni vuote, davanti alla vetrina di un negozietto d’antiquariato disperso da Dio. Si guardò nel riflesso del vetro, osservandosi con sguardo critico ma disinteressato.

Era da un pezzo che non portava i soliti segni del clan Inuzuka, sulle guance. Aveva smesso di farseli quando gli avevano detto che, per il momento, poteva smettere di considerarsi un ninja.

Certo, gli Anziani avevano usato termini più gentili, ma il succo del discorso era quello.

Non lo volevano fra i piedi. Un ninja con crisi di identità era scomodo.

Tsk, come se di crisi d’identità si potesse parlare! Non è che fosse indeciso se essere Kiba Inuzuka o il Kazekage, per amor della Volontà Ardente!

Lui era solo… solo…

<< Impazzito… >> sussurrò con un filo di voce, a cui corrispose un basso guaito di Akamaru.

Voltò il capo, osservandolo sorpreso. Il cane, guaendo nuovamente, gli appoggiò il muso sulla mano e spinse forte, come se volesse farsi accarezzare… o come se volesse distrarre il suo padrone.

Il castano sorrise, posando la sua mano sulla testa liscia e grattandogli le orecchie. << Lo so che non ti piace sentire quella parola, non piace neanche a me. Scusami, non la dico più, ok? >> scese a compromessi, chinandosi sulle gambe per arrivare più o meno alla stessa altezza del bestione che una volta si portava nella giacca.

Akamaru ne approfittò per laccargli la faccia, facendolo ridacchiare. << Smettila, non sei più un cucciolo! >>

<< Anche tu non sei più un bambino >> fu l’inaspettata risposta che ricevette da una voce un poco profonda ma giovanile, qualche metro più avanti.

Non ci fu bisogno di sorprendersi, purtroppo. La riconobbe all’istante. << E con questo? >> chiese il castano in risposta, rimanendo chinato ma voltandosi in direzione della persona che aveva commentato.

Nonostante indossasse vestiti scuri e il gilet dei ninja di Konoha, l’espressione annoiata e quella particolare pettinatura anti-gravità erano il suo segno di riconoscimento principale.

E, fra tutti i maledettissimi ninja che bighellonavano per Konoha… maledizione, proprio Shikamaru?!

Questa era sfiga, decisamente, e se non lo era ci mancava poco perché lo fosse.

L’altro lo squadrò, abbassando appena lo sguardo. Faceva sempre così, aveva ormai notato Kiba, quando stava riflettendo su una persona. Anche il suo Shikamaru lo faceva, a volte.

Si alzò di scatto, quasi ringhiando contro se stesso. Non era trovando punti in comune fra i due che si sarebbe dimenticato di quella assurda storia!

Nara non rispose alla provocazione del castano e, senza togliergli gli occhi di dosso, lo osservò affiancarlo e poi oltrepassarlo.

<< Ohi >> chiamò poi, senza voltarsi: << dove stai andando? >> chiese, osservandolo di sbieco.

Kiba si fermò, evitando accuratamente di girarsi e guardarlo. Che cavolo voleva, dannazione? Non poteva semplicemente lasciarlo in pace come faceva il resto del mondo da un paio di settimane a quella parte?

<< A casa >> ribatté aspro: << fino a prova contraria, abito ancora alla fine di questa strada >> aggiunse con lo stesso tono.

Il moro non rispose, ma Kiba lo sentì chiaramente voltarsi, in un fruscio lieve di abiti.

<< Mi stai evitando, ultimamente >> esordì poi, la voce pacata: << c’è qualcosa che non va? >>

In diciassette anni di vita mai, ma proprio mai, Kiba aveva sentito così forte l’impulso di tirare un diretto sui denti a Shikamaru.

Qualcosa che non va? QUALCOSA CHE NON VA? Cos’era, cieco, visto che con il cervello che si trovava non poteva di certo essere scemo. Qualcosa che non va… cazzo, che acume! E pensare che lui si stava tanto sforzando di trovare anche solo una minima cosa che andasse, invece!

Si sarebbe veramente girato a urlargli contro, se solo non avesse avuto paura di non riuscire più a spiccicare parola. Gli avrebbe riversato addosso tutto l’odio, tutto il rancore che aveva collezionato in quel periodo, liberandosi tramite la voce di un fardello che gli schiacciava lo stomaco peggio di un masso.

Ma si trattenne. Ingoiò tutto, faticosamente, sospirando profondamente prima di riuscire a riprendere parola: << Non particolarmente >> mentì e sì, fortuna volle che non avesse ceduto all’istinto di girarsi.

Avrebbe potuto vedere l’espressione di Shikamaru assumere un alone di malinconia.

Allora no che non sarebbe stato utile dirsi “non sono la stessa persona”.

<< C’è qualcos’altro? >> chiese il castano, il tono duro.

<< No >> rispose semplicemente il moro. << Buona giornata >> aggiunse, prima di riprendere ad incamminarsi verso il centro.

<< Non direi proprio… >> sussurrò invece Kiba, facendo però in modo di non farsi sentire, per poi riavviarsi verso casa.

Non più, ormai.

 

 

Nonostante la situazione con il lavoro, e nonostante la sua scombussolata attività mentale, il fatto di essere praticamente prigioniero in casa sua si era rivelato indice di una portentosa solitudine.

E, a seguire, di una noia incommensurabile.

Akamaru era talmente cresciuto che ormai non passava nemmeno per le scale, figurarsi entrare in camera sua. Da qualche tempo stava in giardino, insieme agli altri cani del clan, e nonostante la cuccia fosse esattamente sotto la sua finestra, guardarlo dall’alto mentre sonnecchiava non riempiva il suo tempo.

Era così che aveva trovato la malsana idea, un pomeriggio, di ridisegnare tutti i cerchi alchemici che poteva ricordare. Sempre che l’uso del termine “ricordare” non fosse scorretto e che in realtà se li stesse inventando di sana pianta.

Ma era anche così, evidentemente, che aveva avuto la trovata più impossibile e al contempo brillante che gli fosse mai passata per il cervello in tutta la sua vita.

Se i cunicoli spazio-tempo erano reali… si potevano creare.

E cosa c’è di meglio per la creazione, della scienza per eccellenza in fatto di distruzione e ri-assembramento della materia?

L’Alchimia.

Sempre che esistesse davvero, in una qualche dimensione, l’Alchimia.

L’idea, una volta accettato il compromesso di credere un po’ di più in se stesso e di non farsi abbindolare dai dubbi della psico-cocciuta, era anche buona.

Ma dopo una settimana di disegni a carboncino su rotolo, serviti più come passatempo che come base per un ragionamento decente, anche Buddah manderebbe a quel paese il Nirvana.

La cosa buona era che aveva praticamente cambiato la carta da parati della sua camera, dato che non c’era nemmeno un pezzo di muro libero da quella sua momentanea follia artistica.

Girandosi sulla sedia tornò a guardare uno per uno i disegni che aveva fatto, in ordine cronologico, dal cerchio alchemico più semplice a quelli più complessi, passando poi alle prove di unione di vari fattori e agli scarabocchi che era riuscito a tirare fuori alle quattro di notte, quando ormai la noia aveva sopraffatto anche il sonno.

Sospirò, non vedendo su quelle pareti altro che un sintomo in più della sua dubbia pazzia. Magari era la volta buona di ammetterlo: Okita-sensei aveva ragione e lui si era fatto un viaggio mentale praticamente ed evidentemente surreale.

Però no, non ci riusciva proprio a dargliela vinta, alla psico-tedia. Si ricordava troppe cose, troppo particolareggiate. I sentimenti e le sensazioni che aveva provato erano troppo vividi, troppo reali per essere illusioni. E sì, lui ricordava, non si inventava nulla.

E allora qual’era la situazione attuale? Cosa doveva fare adesso? Come andavano le cose all’accademia?

Al solo pensarci, un crampo allo stomaco gli fece storcere la bocca. Non sapeva se era per le medicine prese appena un’ora prima o per il fatto stesso di aver lasciato gli altri alle prese con un demone ad otto code, ma in momenti come quello, pensieri simili non gli davano altro che dolore e fastidio.

Non era un bene, non era un bene!

Tornò a guardare i disegni, inspirando una lunga boccata d’aria, per poi rilassare i muscoli mentre la soffiava fuori.

Doveva per lo meno dare la caccia all’acclamatissimo ragno nel buco. Provare, anche se non aveva un cervello fatto per ragionamenti di quel tipo, a trovare una soluzione plausibile che collegasse le sue due vite alla dimensione che si era lasciato alle spalle.

Fissando quei disegni ora dopo ora, non faceva altro che non arrivare alle risposte che disperatamente sperava di scovare in un angolino della sua mente.

Aveva studiato troppo poco, di Alchimia, per poter giungere alla creazione (sempre se possibile) di un cunicolo spazio-temporale artificiale. Troppo, decisamente troppo poco.

Doveva sperimentare un'altro approccio.

Si alzò dunque, di fretta, correndo rumorosamente giù per le scale. Dal giardino, Akamaru abbaiò non appena riconobbe i suoi passi.

<< Dove vai? >> chiese sua madre dal salotto, abbassando il volume della televisione.

<< Esco >> rispose criptico, mentre si infilava di nuovo i sandali abbandonati all'ingresso appena un quarto d'ora prima.

<< Non hai risposto alla mia domanda >> fece notare la donna.

Lui sbuffò. << In biblioteca >> disse poi, aprendo la porta di fretta.

<< DOVE?! >> sentì esclamare dal salotto << cos'è, sei impazzito?! >>

<< La diagnosi è quella >> ironizzò amaramente, prima di richiudersi la porta alle spalle e patire a passo veloce verso la biblioteca. Una corsa delle sue avrebbe sicuramente strappato i punti, e non ci teneva a sanguinare per la strada.

 

 

Appena mise piede all’interno della biblioteca, il rivoltante odore di chiuso e di carta rattrappita invase le sue narici con sottile violenza.

C’era gente, al mondo, che lo riteneva il profumo più buono esistente. C’erano anche persone, incredibilmente, che prima di leggere un libro ne annusavano le pagine come se fossero sature un meraviglioso aroma.

Lui non lo poteva sopportare. Non solo perché sentiva gli odori molto più intensamente di altri, ma soprattutto perché odiava qualsiasi riferimento, anche casuale, a interi volumi scritti in minuscolo che non contenevano nemmeno un disegno. Per la sua mente, abituata a leggere fumetti, tutto ciò non era contemplabile.

Tuttavia si fece forza e avanzò all’interno dell’edificio. Beato Akamaru che doveva forzatamente aspettarlo fuori, almeno lui si risparmiava il voltastomaco.

Passò davanti alla bibliotecaria trattenendo il respiro e, al suo gesto cortese di benvenuto, si esibì in un impacciato saluto alla Robocop; era così rigido e teso che sembrava avere i muscoli fatti di vetro.

Non si trovava a suo agio, no. Aveva una repulsione naturale, c’era poco da fare.

Una volta che la donna ebbe rivolto ad altro la sua attenzione, e che tutte le persone nel primo angolo lettura ebbero terminato di indicarlo come se fosse stato chissà quale alieno piombato da chissà quale navicella spaziale, si fermò indeciso davanti ai primi due scaffali visibili, recanti targhette d’ottone con le lettere A-C in uno e D-F l’altro.

Bene, perfetto: ordine alfabetico. Così non poteva sbagliarsi per forza.

Sì… ma cosa cercare?

Non credeva proprio che nello scaffale della lettera “p” vi fosse qualcosa con il titolo “Ponti di Einstein-Rosen”, come non riteneva nemmeno pensabile che vi fosse una biografia stramba dal titolo “Einstein: Vita, Morte e Miracoli”.

Non era nemmeno possibile che fosse esistito un Einstein, in quel mondo.

Sospirò rassegnato, arrendendosi già da subito ed evitandosi una full immersion in mezzo alla polvere.

Fu in quel momento, mentre tornava indietro convinto che annoiarsi a casa sua fosse la cosa migliore da fare, che gli cadde l’occhio su una bacheca in legno grande quanto una lavagna, appesa al muro di fianco al bancone della bibliotecaria e piena zeppa di foglietti.

Si avvicinò, incuriosito.

Su ogni foglietto vi erano scritte piccole descrizioni di azioni, a volte condite con qualche dialogo, e tutte improntate su situazioni più disparate: c’era chi si inginocchiava davanti ad una ragazza su una terrazza al tramonto, chi lottava contro un mostro a forma di lucertola gigante, chi mercanteggiava sulla via per un villaggio nascosto nella foresta e chi si preparava all’imboscata ad una tenda di ladri per recuperare tesori rubati.

<< Scusi? >> attirò l’attenzione della bibliotecaria senza nemmeno girarsi a guardarla: << cosa sono questi fogli? >> chiese, scorrendo con lo sguardo le varie calligrafie.

<< Un gioco di ruolo >> rispose la donna, attirando finalmente la sua attenzione completa. Kiba infatti si girò in sua direzione, e lei ebbe modo di continuare: << è anonimo. Ognuno si crea un personaggio fittizio e fa coppia con un altro personaggio libero in lista. Dopo di che il Master, che in questo caso sono io, da disposizioni perché comincino varie missioni e i personaggi devono portarle a termine. Più si guadagnano punti, più il personaggio creato impara tecniche e diventa forte >> spiegò professionale, sorridendogli cortesemente.

A Kiba venne quasi da ridere, ma si trattenne invocando quella poca cortesia che possedeva. Dei ninja che giocavano ai ninja! Questa non l’aveva mai sentita!

Però poteva essere un modo per passare il tempo, magari.

<< Posso partecipare anche io? >> chiese dunque, avvicinandosi alla donna di qualche passo. Lei annuì sorridente, afferrando dei moduli e passandoglieli con assoluta precisione insieme ad una matita e ad un dado. << Compila questo, è la tua scheda personaggio. Quando avrai finito mostramela, ti accoppierò con la persona che più si adatta alle tue caratteristiche >> disse, lasciandogli spazio sufficiente per poter lavorare.

Il primo foglio erano le istruzioni, abbastanza semplici in realtà. Una volta accoppiati, i due personaggi avrebbero dovuto seguire le indicazioni del master per completare le missioni. Si comunicava tramite foglietti sulla bacheca, utilizzando pseudonimi, dunque non conoscevi per nulla la persona con cui stavi giocando. Si doveva aprire con una frase di saluto poi, se l’altro avesse accettato il tuo personaggio come partner, sarebbe cominciato il gioco vero e proprio.

Fu facile anche compilare la scheda, una volta che ebbe imparato a cosa corrispondevano i tiri del dado. Non gli venne un personaggio da buttare; era bello e forte dato che aveva avuto tiri alti sul Carisma e sulla Statura, e possedeva alcune arti magiche niente male, tra cui quelle del tipo fuoco. Era un mezzo stereotipo dell’ Uchiha, ora che ci pensava, ma per non ricadere nell’errore diede ai capelli del suo povero omino un colore rosso acceso.

Una volta terminato, l’indecisione cadeva sul nome. Lui non aveva tutta la fantasia necessaria per crearne uno figo e che suonasse bene, così si limitò a tradurre il suo nella lingua più improbabile che potesse saltargli fuori: l’inglese.

Che in quel mondo nemmeno esisteva. Ma suvvia, era un gioco. Al massimo gli altri giocatori lo avrebbero letto come formato da lettere pressoché incomprensibili, non è che ci perdeva qualcosa, per un gioco.

Scrisse dunque “Fang” nello spazio riservato al nome e, rimirando la scheda completa, la consegnò alla donna.

<< Oh, che strano >> esclamò poi, osservando le lettere che avrebbero dovuto formare il nome: << c’è un altro giocatore che usa questo linguaggio nel gioco. Cos’è, un codice inventato? >> chiese, sorridendo curiosa.

A Kiba per poco non venne un infarto. Cosa voleva dire che A KONOHA c’era qualcun altro che scriveva INGLESE?!

Cercò con lo sguardo l’unico biglietto scritto da sinistra verso destra e, una volta trovato, trattenne il respiro dallo stupore: il messaggio era scritto in calligrafia chiara, corsiva e leggermente tondeggiante. Pendeva verso destra e recitava parole che, lette senza pensare ad un qualsivoglia contesto, riflettevano il suo stato d’animo dell’ultimo pariodo:

 

Something somewhere out there keeps calling.

 

“Qualcosa là fuori continua a chiamare.” …sembrava rinfacciargli la consapevolezza. Sembrava dirgli “io so, tu racconti il vero, non stai mentendo. C’è qualcuno che ti sta chiamando, ascolta!”.

E poteva sembrare un miracolo già di per sé se non fosse che, oltre alla lingua e al significato che lui leggeva in quelle parole, la frase in sé non fosse stata… una citazione.

Precisamente, una strofa di una canzone intitolata “Gravity” che lui aveva sentito e risentito nelle settimane in cui era rimasto intrappolato nel sogno/realtà chiamato St. Michael.

Spostò gli occhi sul nome del personaggio, e anche quello non lasciò dubbi: “Apocalypse”.

Sì, qualcuno lo stava veramente chiamando…

Fece rapidamente in modo che il suo personaggio venisse accoppiato con Apocalypse. Doveva capire se quel messaggio di poche lettere era falso oppure opera di qualcuno che sapeva qualcosa della dimensione che aveva visitato.

Si fece consegnare un foglietto, scrisse il nome “Fang” in alto a destra e, quando fu il momento di rispondere al messaggio lasciatogli, ci pensò sopra.

C’erano molte domande nel testo di “Gravity” che avrebbe potuto porre. Ma era convinto che, andando avanti per quella assurda strada, sarebbe riuscito a porlo comunque, anche senza scriverle subito.

Scelse dunque una seconda strofa che rispondeva a quella lasciatagli. Nella sua calligrafia un po’ spigolosa rispose:

 

Will I hear someone singing solace to the silent moon?

 

“Sentirò qualcuno cantare con sollievo verso la silenziosa luna?”.

Stava effettivamente chiedendo se gli avrebbe risposto, in definitiva. E ci sperava… ci sperava sin troppo.

 

 

Passò praticamente tutto il pomeriggio in biblioteca, ma della persona che aveva il dono innaturale di poter scrivere (e dunque di sapere) l’inglese non vi era traccia.

Inizialmente l’aveva aspettato seduto all’angolo lettura più vicino, di modo da tenere d’occhio la bacheca. Se si fosse avvicinato per rispondere al suo messaggio, pensava, l’avrebbe visto e avrebbe finalmente potuto interrogarlo su tutto ciò che gli passava per la mente… letteralmente.

Poi, però, aveva riflettuto; se non lo aveva contattato direttamente e aveva preferito mettere un biglietto in un posto che aveva poca probabilità di frequentare, probabilmente non voleva incontrarlo per nulla, ma mantenere solamente rapporti impersonali di quel genere. Di conseguenza, se lo aspettava al varco non si sarebbe mai mostrato.

Per tale motivo cambiò posizione, andando a mettersi fra i due scaffali più vicini alla bacheca, assicurandosi di essere sufficientemente nascosto. Doveva vedere senza farsi vedere, solo così poteva trarre in inganno il suo inglesino preferito e costringerlo a sputare il rospo.

Tuttavia, nonostante le svariate ore passate a fissare la reception da una fessura fra i libri, la persona che gli interessava scovare non si fece vedere. All’inizio un giovane biondino gli aveva dato la speranza, avvicinandosi alla bacheca, ma il biglietto che aveva attaccato era scritto in kanji e non rispondeva a “Fang”, bensì ad un altro giocatore.

Fu quando ormai la biblioteca era in orario di chiusura che finalmente uscì, respirando con evidente sollievo l’aria fresca e umidiccia della sera. Tirava una leggera brezza da nord-ovest che portava con sé l’odore lieve e dolciastro delle magnolie.

Scendendo gli scalini dell’entrata si stiracchiò sbadigliando, posando meccanicamente una mano sulla testa di Akamaru quando il cane gli venne incontro trotterellando.

A giudicare dal buio dovevano essere come minimo le dieci di sera… era preoccupato del fatto che sua madre non avesse mandato le squadre di soccorso quando non lo aveva visto rientrare per cena.

E a proposito di cena, cominciava ad avere una certa fame.

<< Andiamo Akamaru, non vedo l’ora di mettere qualcosa sotto i denti! >> disse rivolto all’amico, incrociando le braccia dietro la testa e cominciando a percorrere la strada a ritroso, verso casa. Non pareva esserci molta gente in giro, solamente alcuni giovani che volevano fare baldoria e uomini sbronzi che puzzavano di saké, ma a lui sembrava non interessare molto.

Anche se la sua giornata d’appostamento non aveva dato i risultati sperati, il solo fatto di aver trovato una piccola possibilità di sapere era sufficiente a risollevargli il buon umore perduto.

Aveva la possibilità di ricredersi, di dimostrare che non mentiva, che non era un folle. Avrebbe potuto conoscere la verità, finalmente.

Sorrise al nulla, ridacchiando da solo contro il silenzio della notte. << Been a long road to follow, been there and gone tomorrow, without saying goodbye to yesterday… >> canticchiò quasi soddisfatto, a bassa voce, fischiettando il seguito della canzone lungo tutto il tragitto di casa.

Chissà, magari avrebbe potuto anche chiedere di lui. Come stava, per esempio. Oppure se era ancora… vivo.

Scosse il capo, non ci doveva pensare. Shikamaru stava bene per forza, ne era sicurissimo. Si erano salvati tutti, magari avevano anche sconfitto Orochimaru e adesso se ne stavano a poltrire all’accademia ascoltando le lezioni del maestro Kakashi, oppure cercando di non rimanere vittime delle esplosioni artistiche di Deidara.

Il sorriso divenne malinconico al ricordo del gruppo e della vita che aveva lasciato indietro… eppure, in un qualche modo, si sentiva persino in colpa ad avere nostalgia, dato che quella al villaggio era la sua reale vita.

Sembrava come… se avesse trovato un modo di vivere che gli piaceva molto di più. E non doveva, perché in un qualche modo sapeva che era sbagliato, e ingiusto nei confronti della famiglia e degli amici che aveva lì, a Konoha, a casa sua.

<< Maybe this time tomorrow, the rain will cease to follow, and the mist will fade into one more today… >> canticchiò ancora, guardando il cielo. A causa della brezza era una nottata limpida, la volta celeste era piena di stelle e, in mezzo a tutte, non faticava a riconoscere le principali costellazioni che gli avevano insegnato in accademia ninja.

Doveva distrarsi. Se portava la sua attenzione su qualcosa che non fosse Shikamaru, probabilmente avrebbe sentito meno nostalgia… e di conseguenza meno malinconia.

Arrivato davanti a casa, la prima cosa che fece fu dare da mangiare ad Akamaru. Era rimasto ad aspettarlo fuori dalla biblioteca per tutto il giorno, si meritava le sue dovute attenzioni.

Una volta che ebbe terminato, e che ebbe osservato il proprio cane mangiare a fauci spalancate, decise ardentemente che toccava a lui una cena con fiocchi e controfiocchi. Il suo stomaco era così vuoto che ormai non aveva nemmeno più la forza per contorcersi nei tipici crampi della fame.

Salì velocemente i pochi gradini il legno che lo speravano dal pianerottolo, e in alcuni scricchiolanti passi si avvicinò all’entrata.

Aveva già una mano sulla maniglia e l’urlo pronto con un “tadaima!” fra le labbra, quando una voce particolare, che non apparteneva né a sua madre né a sua sorella, gli arrivò alle orecchie.

Era Madamigella Tsunade. Ne era quasi sicuro, contando che la sentiva provenire dalla finestra aperta della cucina.

Esitò, ascoltando. Non credeva affatto che Tsunade e sua madre fossero vecchie compagne d’accademia e che la vecchia fosse venuta da loro per un tè e un piatto di pasticcini.

Tutt’altro. Poteva esserci un solo motivo per cui l’hokage si disturbava a fare visita a casa Inuzuka…

<< E’ una fortuna che Kiba non sia in casa >> stava dicendo la Quinta: << posso parlarle francamente e senza risentimenti >>.

Fece scivolare la mano dalla maniglia, richiudendola a pugno e lasciandola andare lungo il fianco. Ascoltò, nonostante fosse quasi un suicidio intellettuale farlo, evitando anche di respirare troppo rumorosamente per non coprire con esso le parole che sentiva.

<< Mi dica tutto, Godaime-sama >> rispose la madre con voce seria, tuttavia macchiata di una piccola nota di esasperazione.

Probabilmente, pensò Kiba, era stanca quanto lui di sentire la stessa solfa ancora e ancora…

<< Sono preoccupata per Kiba >> arrivò subito al punto Tsunade, professionale nonostante l’ora fosse quella del sakè serale. Probabilmente era più seccata di tutti loro, quella donna, che aveva sempre e perennemente il suo caso sotto al naso.

<< Le da altri motivi di preoccupazione? >> chiese la madre, quasi incoraggiandola a continuare.

<< Non più del solito >> rispose l’hokage: << è la sua testardaggine, la ragione per cui sono qui. Continua a sostenere la sua storia, ancora e ancora, e siccome sono convinta che non possa essere assolutamente vera, mi chiedo perché insista a raccontarla >> disse, facendo una domanda implicita all’altra donna.

Sua madre non rispose subito, probabilmente contemplando le parole che le venivano rivolte. << Godaime-sama, se posso permettermi: non aveva detto che le convinzioni su cui persevera quel degenerato di mio figlio apparivano vere, ai suoi occhi? Non mi aveva garantito che era una sorta di trauma psicologico causato dalla ferita? E’ perché ero convinta di questo che non ho spinto il ragazzo a raccontare anche a me questa cosa… ora mi sembra che si stia rimangiando la parola >> argomentò, trovando come al solito ogni appiglio possibile su cui poteva attaccarsi.

<< Ha ragione >> rispose la vecchia: << ma è impensabile che, dopo due settimane, Kiba soffra ancora degli effetti del trauma. Soprattutto con i medicinali che gli abbiamo dato. Dunque, posso solo pensare due cose: o Kiba racconta quella bugia per coprire un suo comportamento particolarmente grave, oppure è partito tutto da uno scherzo di cattivo gusto e adesso regge la farsa per non perdere la faccia >> disse lei.

Kiba aggrottò la fronte a quelle parole, storcendo il naso in un’espressione disgustata. Uno scherzo, addirittura… era questo il meglio che riusciva a pensare l’hokage? Era questa la sensazione che dava la sua versione dei fatti?

Nessuno aveva contemplato, anche solo di sfuggita, il fatto che stesse dicendo la verità? Proprio a nessuno era venuto questo dubbio?

No, Kiba, non lo sai? Se dici di raccontare una verità in cui non credi completamente nemmeno tu, è logico che vieni respinto e additato come bugiardo e meschino.

A denti stretti restò in ascolto, senza muovere nemmeno un muscolo.

<< E da me cosa vorrebbe sapere? >> rispose a tono la madre, mantenendo però la cordialità dovuta ad un’ospite: << se so in quale casino si sia cacciato Kiba? Se ho notato qualcosa di strano nel suo comportamento? >> chiese, concisa.

<< Sì, esattamente >> rispose l’hokage, a sua volta pratica e veloce.

<< Beh, sì. Ho notato che un ragazzo casinista ed esageratamente loquace all’improvviso parla solo se interrogato. Ho notato che una persona che saltava persino la cena per bighellonare con gli amici, improvvisamente vive chiusa in camera sua. Ho notato le pastiglie, e le interminabili ore di sonno che le accompagnano. Ho notato tutto questo, Godaime-sama, ma non è nulla di più e nulla di meno di quello che, sono sicura, abbia notato anche Okita-sensei >> rispose la donna, per poi continuare: << io non credo a ciò che racconta mio figlio, sia chiaro. E sono sicura che stia affrontando un qualche problema. Ma il nostro clan è fatto così: anche se può sembrare una bastardata, i ragazzi crescono contando quasi esclusivamente su loro stessi. Se Kiba ha un problema, dovrà risolverselo da solo. Un capoclan fa questo ed altro >> aggiunse, brusca.

Tsunade rimase in silenzio per qualche istante, in una copia della contemplazione che aveva eseguito l’altra per prima.

Poi, sospirando, aggiunse: << spero anche io che ne venga fuori… perché se continua così, sarò costretta a radiarlo dall’albo dei ninja di Konoha. Senza di lui non posso far muovere la sua squadra con nessun altro, e ora che Kurenai è in ferie a causa della gravidanza sono costretta a tenere a riposo anche Shino e Hinata. Non posso perdere due ninja per uno solo. Se non si risolverà entro breve, lo sostituirò ufficial… >>

Kiba, in un qualche modo, sentì che il discorso continuava, ma ormai non era più in grado di rimanere concentrato sulle parole.

Le frasi di sua madre erano quasi riuscite a risvegliare il suo orgoglio assopito, ma tutto ciò era servito solamente per far sì che Tsunade lo pugnalasse con sentenze affilate come la lama di un kunai.

Trattenne il fiato e, ignorando il dolore che i punti gli procuravano, con un balzo calcolato saltò prima sulla tettoia, poi sull’acero dietro casa sua. Ignorò gli uggiolii di Akamaru, che non lo seguì, e con qualche rapido passo di corsa prese lo slancio da uno steccato e si mise a correre e saltare sui tetti del villaggio.

Correva per sentire dolore, probabilmente, anche se era una contraddizione. Così poteva trovare una scusa alternativa per le lacrime, che premevano frementi agli angoli dei suoi occhi, desiderose di uscire per dar sfogo alla tristezza nata improvvisamente dentro di lui.

Lo punivano perché raccontava la verità, era questo che stavano facendo? Lo punivano perché non riusciva a conformarsi al volere di una psicologa impaziente, la quale non vedeva l’ora di vincere ancora e liberarsi di lui?

Corse con velocità lungo uno dei tetti del quartiere occidentale, prendendo istintivamente lo slancio necessario a saltare su quello successivo senza fare troppo rumore. Poi su quello dopo, e su quello dopo ancora, senza fermarsi.

Finché il dolore divenne troppo acuto per essere ignorato oltremodo. La sua improvvisata dimostrazione atletica doveva aver strappato uno o due punti; sentiva l’odore fastidioso del sangue giusto sotto al suo naso e, a causa proprio di questa combinazione, fu costretto a fermarsi nel primo posto possibile.

Nell’ultimo balzo che il suo corpo gli rendeva disponibile adocchiò una strada poco sotto di lui. Aggrappandosi ad uno stendipanni riuscì a frenare la caduta, ma fu comunque costretto a chinarsi su se stesso in un gemito dolorante una volta con i piedi per terra, portandosi la mano sinistra a tenersi la ferita.

Poteva sentire il calore di alcune gocce di sangue sotto le dita, attraverso la stoffa della maglietta a mezze maniche, e di conseguenza il bruciore classico provocato dal contatto della pelle viva con la stoffa.

<< nh… >> gemette di nuovo quando cercò d’alzarsi, vedendosi costretto ad aspettare almeno che il sangue di fermasse.

Se non sbagliava troppo i calcoli, e quello che vedeva in lontananza era veramente il confine del vecchio quartiere Uchiha, non doveva essere tanto lontano da casa di Naruto. Magari avrebbe potuto chiedere ospitalità a lui, per una notte, sempre che non fosse partito per una qualche missione. Ultimamente non sapeva nulla sugli spostamenti delle altre squadre.

Un rumore di passi riuscì però a distrarlo… o meglio, ad attirare la sua attenzione, dato che stava all’erta quasi per abitudine, ormai. Quando la persona in questione si fermò di fronte a lui, e Kiba poté alzare gli occhi, non si sforzò di trattenere un’espressione a metà fra lo sorpreso e il rassegnato.

<< Allora è una condanna! >> borbottò incredulo, riabbassando subito gli occhi ad una ulteriore fitta al costato.

<< Considerando la situazione, direi più una fortuna >> ribatté Shikamaru, non mostrandosi particolarmente risentito per le parole rivoltegli.

Il moro lo osservò per qualche istante, le mani in tasca, per poi chinarsi sulle gambe in modo da poter guardare Kiba negli occhi senza che l’altro si facesse venire il torcicollo. Allungò poi le mani in direzione del lembo della felpa, con l’intenzione evidente di alzarla.

<< Che fai?! >> sbottò subito il castano, muovendo le braccia per scansarlo ma pentendosi subito della mossa quando causò lo strattone doloroso di un punto sulla sua pelle. << Ah! >> gemette, abbastanza forte, affrettandosi a ritornare in posizione.

<< Fammi dare un’occhiata >> disse Shikamaru, sfoggiando un’espressione da apoteosi della calma.

Tragicamente, Kiba fu costretto a lasciarlo fare. Il contatto delle mani del moro sulla sua pelle non lo infastidiva affatto… ed era proprio per questo che non voleva che lo toccasse. Ma non poteva tirarsi indietro, ora come ora, dato che da solo (ammetterlo era peggio che ardere vivi su una pira!) non sapeva nemmeno come curarsi.

Nara fu inaspettatamente professionale. Si limitò ad osservare il taglio, i relativi punti e lo stato della cicatrizzazione, toccando solamente la pelle intorno e senza infierire ulteriormente in quanto dolore. << Si sono strappati due punti >> decretò poi << nulla di grave, è solo l’infiammazione che lo fa bruciare in modo esagerato >> concluse, rialzandosi e tendendogli la mano.

Mano che il castano osservò titubante. << Ce la faccio da solo >> borbottò scorbutico, alzandosi con relativa difficoltà ed attenzione, di modo da non farsi troppo male.

Shikamaru fece spallucce, ritirando la mano. << Andiamo >> aggiunse poi, rimettendosi le mani in tasca e incamminandosi verso sud.

<< “Andiamo” dove? >> domandò Kiba con un sopracciglio alzato.

<< A casa mia >> rispose voltandosi: << quel casino è da disinfettare >> aggiunse poi, indicando con un cenno del volto lo stomaco del castano.

A casa sua?! Sì, certamente, era già là! Già cercava di distanziarlo quando lo beccava per strada, figuriamoci se era ospite in casa sua! Lui si stava sforzando come un maledetto per non averlo intorno, per non pensare all’altro Shikamaru o ai paragoni che venivano inevitabili, ma sembrava che Nara (o il destino) si divertisse a piombargli addosso nei momenti in cui era meno preparato. E nel contempo non ci faceva nemmeno una bella figura, se per difendersi era costretto a fare lo scontroso con un suo vecchio amico a cui, tra l’altro, teneva ancora.

<< Sto bene! >> rispose cocciuto: << non ho bisogno di- >>

<< O ci vieni sulle tue gambe o ti ci trascino, Kiba >> lo interruppe il moro, perentorio.

Non ebbe possibilità di ribattere. Qualcosa, nello sguardo di Shikamaru, gli disse che non era il caso di stare a discutere troppo.

Sospirando seccato, lo seguì.

 

 

Ricordava benissimo dove abitava Shikamaru.

Nonostante il nome del suo clan fosse annoverabile fra quelli più in vista della Terra del Fuoco, e possedessero altresì una consistente parte della foresta che circondava Konoha, lui e i suoi genitori vivevano in una casa di media grandezza circondata dagli alberi.

Era fuori dal villaggio, appena inoltrata nella foresta, immersa nella natura e allo stesso tempo collegata direttamente con il villaggio. Di fatti, dalla finestra della camera di Shikamaru, fra le fronde degli alberi si potevano benissimo vedere i tetti delle case più esterne del villaggio.

In poche parole era la periferia, della periferia, della periferia. I volti di pietra degli Hokage avevano quasi la stessa dimensione di una moneta, da quella distanza.

<< Di sicuro è un posto tranquillo >> disse fra sé e sé, osservando quel piccolo scorcio di cielo che le foglie lasciavano osservare agli abitanti della casa. Notte serena e piena di stelle. Se non avesse avuto tutti quei problemi, sarebbe stata una serata stupenda da spendere in giro a far danni con Akamaru e Naruto.

Il rumore della serratura che scatta lo fece voltare, ormai con relativa tranquillità, finchè la figura di Shikamaru non entrò nel suo campo visivo. Nonostante la stanza fosse fiocamente illuminata dalla luce esterna e solo da quella, poteva benissimo leggere il nome del disinfettante che il moro portava in mano e sentirne l’odore disgustoso anche attraverso la plastica.

Storse il naso, movimento che Nara non si lasciò sfuggire.

<< Ancora allergico ai disinfettanti? >> chiese con un mezzo sorriso, poggiando la bottiglietta incriminata e la rimanente attrezzatura sul mobile accanto al letto.

<< Già… >> fu la laconica risposta. Non parlava troppo per non tradirsi, ma non riusciva a staccargli gli occhi di dosso qualsiasi movimento facesse. Era uguale, compresi movimenti ed espressioni, allo Shikamaru dell’accademia.

Stessi occhi, stessi atteggiamenti, stessi sorrisi, stesso tono di voce.

Chissà, magari… stesse labbra?

Sospirò, dandosi dello scemo e scostando lo sguardo da lui. Certo che poteva evitare di farsi del male in quel modo, no?

<< Ok, direi che ho tutto l’occorrente >> decretò il moro, tirandosi le maniche della maglia oltre i gomiti: << solleva la maglia e stenditi >> disse poi, indicando l’unico letto presente con il volto.

Kiba, contrariamente a quello che avrebbe voluto fare, tacque. Non era il caso di continuare la farsa dell’improvviso asociale… oltre che somigliare a Sasuke “I Miei Sorrisi sono una delle Specie Protette” Uchiha si rendeva conto di stare creandosi una pessima reputazione. Cioè, nel caso esistesse ancora una sua reputazione da peggiorare, ovviamente.

Seguì in silenzio le istruzioni, buttandosi a pancia in alto sul letto e sollevando la maglia con entrambe le mani. Appena il materasso ebbe finito di sobbalzare, Shikamaru vi si sedette stringendo con la destra un batuffolo di cotone idrofilo imbevuto di disinfettante. Contrasse i muscoli quando, toccando con esso la sua pelle, le parti ferite cominciarono a bruciare, ma trattenne l’imprecazione sorta spontanea mordendosi il labbro inferiore e trattenendo il respiro.

<< Scusa, brucia un po’ >> si scusò prontamente Shikamaru, continuando però il lavoro di disinfezione.

<< Nh… me ne sono accorto! >> ribatté Kiba spontaneamente, rilassandosi solamente quando si abituò al costante bruciare provocato dal batuffolo.

Nel seguente silenzio, fu lo stesso Inuzuka a non riuscire a trattenere la voce. << Tua madre è gentile come sempre >> esordì, fissando per l’ennesima volta il manto notturno all’esterno della finestra: << penso sia la prima persona che non mi abbia fissato con tanto d’occhi da due settimane a questa parte >> aggiunse, stirando appena le labbra in un sottile quanto invisibile sorriso.

Shikamaru si fermò per un istante, alzando gli occhi scuri su di lui per osservarlo. << Lo è solo con gli ospiti. Con noi è una iena >> fu la risposta, data mentre si tendeva per afferrare forbicine e pinzette cavaciglia.

Kiba ridacchiò appena, rilassato. Doveva ammettere che una tranquillità così, da quanto era “tornato”, non l’aveva mai avuta.

<< Non ridere, sono armato >> lo riprese bonariamente, esitando con le forbicine impugnate allo sobbalzare del torace del castano, dovuto alla risata.

<< Ah, scusa >> borbottò quello in risposta, sospirando per rimanere serio.

Avvicinandosi con il volto per poter vedere il punto giusto da tagliare, fu Shikamaru a parlare questa volta: << come mai questo cambiamento improvviso? >> chiese, evitando di guardarlo con la scusa della concentrazione sulla ferita.

Nemmeno Kiba girò lo sguardo, nonostante la domanda lo avesse colto alla sprovvista. << In che senso? >> chiese, facendo il finto tonto nonostante immaginasse che, con Shikamaru, una scusa del genere non funzionasse.

A ragione: Nara non solo non cascò nella trappola, ma si fermò venti metri prima. << Non giocare a fare l’asino, è da quando sei uscito dall’ospedale che non ti si può parlare >> disse deciso, riuscendo delicatamente a prendere con le pinzette il punto mezzo strappato e a sollevarlo abbastanza da farci passare sotto la lama delle forbici. Tagliò con un colpo secco, sfilando al contempo il punto dalla pelle di Kiba non senza un piccolo sobbalzo dell’interessato.

<< Ahi! >> si lamentò il castano, osservandolo posare forbici e pinzette per prendere ago e filo: << cos’è, ti improvvisi ninja medico? >> domandò a bruciapelo, inquietato da quell’ennesima abilità di Shikamaru.

<< Non cambiare discorso >> fu però la risposta disinteressata e al contempo pressante del compagno.

Kiba sbuffò, chiudendo gli occhi. Perché non riusciva a stare zitto, o a fingere, in sua presenza? Era la stessa, identica, stramaledetta sensazione che provava a cospetto dello Shikamaru dell’accademia. Del suo Shikamaru; anche a lui non riusciva a mentire o a nascondere le cose.

<< Non mi credete, no? >> fu dunque la risposta, pronunciata voce debole e segnata da una sorta di rassegnazione.

Nara gli lanciò un’occhiata, senza però riuscire ad incontrare i suoi occhi. << Chi non ti crede? >> chiese dunque, sottolineando con la voce il “chi”.

<< Voi >> chiarì il castano. << Tutti voi. Perciò non trovo motivo di sorridere come uno scemo o di scherzare come prima. Vedo come mi guardano tutti quelli del villaggio, non sono stupido, e nemmeno così disperato da far finta di niente come fa Naruto >> aggiunse, in una sorta di sfogo pacato.

<< Naruto non è disperato, se ne infischia e basta >> disse il moro, disinfettando la punta dell’ago e posizionandosi per rimpiazzare il punto appena tolto con uno nuovo: << cosa che dovresti fare anche tu se credi davvero in quello che dici, e smettere di fare l’eremita scontroso >> aggiunse sbrigativo, infilando l’ago nella pelle a tradimento.

<< Come ti perm- AHIA! >> si lamentò improvvisamente, stroncando la frase a metà: << bastardo, potevi almeno avvertirmi! >> sbottò alzandosi sui gomiti.

<< A che pro? Avrebbe fatto solo più male >> osservò il moro, strappando con i denti il filo e annodandolo abbastanza stretto per far sì che la ferita non potesse riaprirsi. << E se stavi per dire “come ti permetti” ti do un consiglio: stai a sentire le persone fino alla fine, prima di sbraitare >> sentenziò, posando l’ago e cominciando a scartare qualche cerotto.

Kiba storse il naso, assottigliando al contempo gli occhi in una smorfia seccata. << Sentiamo allora >> decretò subito, ben posizionato sui gomiti e con gli occhi fissi su di lui. Lo avrebbe ascoltato per l’equivalente di cinque secondi, poi un calcio ben assestato non glielo levava nessuno.

Rispondendo per un istante al suo sguardo, Shikamaru iniziò: << quando Tsunade-sama ci ha convocati per comunicarci le tue condizioni, le voci avevano già cominciato a girare. Sapevamo ormai tutti a che livelli era arrivato lo scetticismo del villaggio e, al contempo, sapevamo già a grandi linee la versione che sostenevi >> disse, posizionando il primo cerotto sulla parte lesa della ferita. << Tsunade non ti credeva, e così anche altri ninja, tra cui Neji e Ten Ten. Lee non prendeva posizione e Ino e Sakura non sapevano cosa pensare, ma erano d’accordo con Tsunade sul fatto che la tua storia fosse improbabile >> continuò, attaccando il secondo cerotto accanto al primo e il terzo subito a fianco.

Alzò poi lo sguardo, fissandolo seriamente. << Kiba, devi ammettere che la tua versione dei fatti, oltre a non combaciare con le altre riportate, è poco credibile >> disse, per poi aggiungere: << nessuno ci crede >>.

Kiba fu sicuro di sentire il suo cuore mandare un battito a vuoto. Deglutì faticosamente, aggrottando le sopracciglia in uno sguardo da orgoglio frantumato.

<< Che cazzo ti ascolto a fare, se mi ripeti con altre parole quello che ho appena detto io? >> sputò rabbioso, mettendosi seduto con la ferma intenzione di andarsene.

Ma fu bloccato, con il semplice gesto del moro di mettergli la mano sulla bocca.

Shikamaru lo guardò dritto negli occhi, continuando imperterrito il suo discorso: << quando la Godaime ci ha parlato del tuo possibile licenziamento, Naruto l’ha zittita. Ha urlato come un forsennato che tu non dici bugie, che ti conosceva e che si fidava di te. Chouji l’ha spalleggiato e Shino ha aggiunto del suo, dicendo che preferiva di gran lunga credere nel suo compagno di squadra che in una psicologa mai vista prima >> sorrise nel racconto, osservando pian piano l’espressione di Kiba farsi sempre più sorpresa. Abbassando la mano che teneva premuta sulle sue labbra, riprese: << Hinata ha balbettato qualcosa di simile a quello detto da Naruto, solo un tantino più educatamente. Kurenai-san ha ribadito che, per la sua esperienza avuta con il team, se sostieni le tue teorie con tanta insistenza c’è sicuramente un motivo serio e Asuma-sensei le ha dato ragione. Metà dei jounin che ha rapporti con il tuo clan ti sostiene… e io sono d’accordo con loro. Ti risparmio l’uscita di Gai-san e Lee sui problemi dell’odierna gioventù >> terminò, osservandolo con un mezzo sorriso.

<< Ma… >> esitò Kiba, confuso e al contempo sollevato da quelle affermazioni: << ma se hai appena detto che non credi in quello che dico!? >> sbottò sorpreso, evidenziando il controsenso.

<< Sì, è vero. Non riesco a credere nella storia che racconti >> disse l’altro: << ma credo in te. Ci conosciamo da quando eravamo bambini, Kiba, e sono sicuro che c’è un motivo se continui a sostenere le tue parole. Non lo faresti se non ci fosse sotto qualcosa di serio >> asserì pacatamente, sicuro di quello che diceva come se parlasse di se stesso.

Kiba rimase letteralmente senza parole.

Non sapeva cosa dire di tutto quello che gli aveva detto, come non sapeva se credergli o meno.

Ma Shikamaru non gli aveva mai mentito. E per tutto ciò che li legava, fosse amicizia o amore, fosse una dimensione o l’altra… si era sempre fidato di lui.

Sempre. Addirittura senza rendersene conto.

Per la prima volta in due settimane non si sentiva… solo.

<< Eh… >> esclamò sorridendo come uno scemo, portandosi al contempo la mano destra agli occhi: << fa quasi piacere sentirselo dire >> bofonchiò, sorridendo come un ebete.

Era una liberazione, sentire quelle parole.

<< Che fai ora? Piangi? >> ironizzò il moro, facendo il suo classico sorrisetto sbieco.

<< Macché, è il taglio che brucia >> si coprì subito il castano, alzando gli occhi su quel sorriso proibito che aveva imparato ad adorare e che ancora, anche se fatto da una persona diversa (ma diversa quanto, alla fin fine?) da quella che glielo aveva rivolto per la prima volta.

Non riuscì più a zittire, in quel modo, il bisogno pressante che lo opprimeva.

<< Chiudi gli occhi >> disse, sfoggiando un sorriso dolce e al contempo beffardo.

Shikamaru inarcò un sopracciglio, stranito dalla richiesta. << Cosa devi fare? >> chiese, un sorriso agitato malamente mascherato.

<< Non hai appena finito di dire che ti fidi di me? >> ribatté furbo l’Inuzuka, allargando quello stesso sorriso. << Tranquillo, non ti molesterò >> ironizzò divertito.

<< Non è di questo che mi preoccupo… >> fu il sussurro del moro, che però Kiba ignorò nel momento stesso in cui Shikamaru seguì il volere del castano e chiuse gli occhi.

Si avvicinò lentamente, socchiudendo gli occhi in un’espressione quasi malinconica ora che il moro non poteva vederlo.

Se escludeva il luogo, il contesto, i problemi… le inibizioni che si era posto apparivano come semplici ostacoli fatti di nebbia e rugiada.

Deboli.

Se si lasciava andare, se annullava le distanze come le differenze, rimaneva solamente l’anima di Kiba Inuzuka e quella di Shikamaru Nara, vicine ed inseparabili, nell’amicizia come nel tempo.

Un bacio. Solo un bacio.

Sbagliato quanto proibito. Ma non poteva impedirsi di avvicinarsi ancora, di accorciare la distanza fra le loro labbra, ancora e ancora, quasi casualmente ma in realtà volutamente.

Però si fermò.

A poca distanza, pochissima, dal bacio che aveva bramato da quando era ritornato “se stesso”. A qualche centimetro dai suoi sentimenti e dalla replica degli stessi.

Il suo bisogno di Nara era insano. Era una goccia in più nel bicchiere già colmo della sua pazzia.

Ma non era giusto. Perché lui non era quel Shikamaru.

E non poteva… rovinare in un soffio un’amicizia così bella.

Non poteva.

Si morse il labbro silenziosamente, scansando le labbra del moro e appoggiando la fronte sulla sua spalla.

Il cuore batteva veloce, ogni respiro faceva male, ma la ragione gli diceva insistentemente che era meglio così.

Quant’era difficile, far prevalere il cervello e sotterrare l’istinto...

<< Avevi bisogno di farmi chiudere gli occhi per appoggiare la fronte sulla mia spalla? >> chiese quasi divertito Shikamaru, riaprendo gli occhi.

<< Ti saresti spostato >> fu la scusa del castano, che approfittò biecamente del fatto che poteva nascondere il viso agli occhi dell’altro per mentire senza sforzo. Si sentì appoggiare la mano sulla testa e, quasi in risposta, chiuse gli occhi.

<< Smetti di trarre conclusioni affrettate >> fu la replica.

Gli attimi di silenzio che seguirono furono interrotti solamente da un bussare secco alla porta, che portò i due a separarsi.

Qualche istante dopo, il volto di Shikaku Nara, padrone di casa, comparve dalla porta. L’espressione grave del volto non presagiva niente di buono.

<< Ragazzi, è meglio se venite a dare un’occhiata >> pronunciò con voce profonda, lasciando la porta aperta e incamminandosi lungo il corridoio in direzione dell’ingresso di casa.

Si guardarono per un istante. Ma bastò quel semplice sguardo per farli alzare dal letto e seguire Shikaku, in piedi sulla porta di casa insieme alla moglie.

<< Che succede? >> chiese Shikamaru, affiancandosi ai genitori insieme a Kiba.

Lo spettacolo che si mostrò ai loro occhi lasciò sbalorditi i due ragazzi, ultimi spettatori di quel fenomeno particolare quanto inquietante.

Dal cielo completamente sgombro da nubi, in un clima estivo tipico di inizio luglio, scendevano ondeggiando quelli che avevano tutta l’aria di essere fiocchi di neve.

<< Non può essere neve… >> disse la donna con un moto di stupore.

<< Non lo è >> le rispose Shikamaru, ritirando la mano dopo aver preso uno dei fiocchi.

Non era bagnata, non era fredda e, soprattutto, non era bianca.

No, non era neve…

… era cenere.

 

 

Chapter No.14 ~ End.

   
 
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