Incertezze
Cap.8
- L'edera lascia i segni
Dylia
dormiva da un tempo che non riusciva a quantificare; le
sembrava di non essere mai stata sveglia, che il sonno fosse da sempre
la sua
normale condizione d’esistenza.
Quella fastidiosa
luce che le
stuzzicava le pupille insinuandosi fra le ciglia e il ronzio sommesso
di una
qualche apparecchiatura tecnologica sistemata al suo fianco, sembravano
timidi
tentativi dell’universo di ridestarla dal torpore. Ad un
certo punto credette persino di udire la voce di un bimbo.
“Svegliati!”, diceva, ma lei
era stanca e
voleva solo riposare, neanche avesse lottato contro il mondo intero.
Avrebbe
continuato a dormire per chissà quanto se non le fosse
apparso lui in sogno.
Dylia, naturalmente, non aveva realizzato subito che era tutta
un’illusione e
aveva protratto le braccia verso quel bambino vivace con gli occhi
furbi che le
correva incontro.
«Che
ci fai qui tutto solo? Come
ti chiami?», aveva chiesto. Ma lui
continuava a
fissarla con quel visino innocente senza parlare, come se non avesse
compreso
le domande. Il suo aspetto, oltretutto, aveva qualcosa di familiare.
La
ragazza provò a istigarlo. «Sono sicura che un
nome ce l’hai. Vediamo, sarà
forse…»
«Elar»,
rispose velocemente, prima che lei se ne uscisse con
qualche ridicolo
miscuglio di lettere.
Nel
sentire quel nome il cuore di Dylia ebbe un sobbalzo.
«Devi
aprire gli occhi», disse il bimbo. «Ti devi
svegliare», le ordinò.
La ragazza sorrise e
gli
passò una mano tra
i capelli neri scompigliandoglieli un po’.
«Puoi
insegnami come si fa?», chiese.
«Sì…
abbracciami.»
Dylia
si inginocchiò ed Elar si tuffò verso di lei. Le
sembrava
incredibile che un bambino potesse avere tutta quella forza: la sua
stretta le
impediva quasi di respirare. Chiuse gli occhi e quando li
riaprì si ritrovò
stesa nel lettino della stanza d’un ospedale. Dalla finestra
proveniva una luce
accecante. A sinistra un macchinario piuttosto complesso
registrava i
suoi valori vitali emettendo un bip ritmato. Sul comodino, poco
più in là,
qualcuno aveva lasciato un videogiornale; si sporse per leggere i
titoli in
prima pagina, ma fu trattenuta da una manciata di fili attaccati al suo
corpo.
A quel punto, colta da un moto di nervosismo, si tolse l’ago
della flebo e lo
getto via, staccò anche le ventose
dell’elettrocardiogramma e i tubetti per
ossigeno che terminavano dentro le narici, così, finalmente
riuscì ad alzarsi.
Non c’erano notizie significative; il mondo sembrava non
interessarsi alla sua
avventura con Shulik. Un attimo dopo notò la data
sull’angolo in alto e capì di
aver dormito per ben tre giorni.
Nel
momento in cui scese dal lettino entrò
un’infermiera piuttosto trafelata,
allarmata dal fatto che le apparecchiature per il monitoraggio degli
impulsi
vitali, dopo essere state staccate, avevano smesso di trasmettere.
«Non
mi dica di rimettermi a letto, sto bene e posso camminare»,
esordì Dylia
accennando qualche passo verso la donna.
«Dov’è l’uomo che stava con
me?»
L’infermiera
rimase per qualche istante stranita, senza saper bene che cosa fare.
«Ehm, non si agiti troppo, non le farà
bene… vado a chiamare il
primario», disse infine.
«No,
io devo sapere! Dov’è la persona che stava con me?
E mio robot?»
«Non
c’era nessun robot con lei. Si calmi adesso.»
Cercò di farla sedere nel
lettino, ma Dylia non l'ascoltò e si precipitò
fuori dalla stanza.
Il corridoio
terminava con una porta-finestra che dava su una terrazza.
Spalancò l’uscio e
si riversò all'esterno, ma si immobilizzò subito
attanagliata da una morsa di freddo:
nevicava e i fiocchi grigiastri le venivano spinti contro il viso dal
vento
gelido. Si strinse nelle spalle e, opponendo resistenza alle raffiche,
si
avvicinò alla ringhiera. Si trovava parecchio in alto: da
lì si vedeva l’intera
città e non era di certo l’ambiente arido e caldo
da cui proveniva lei. Verso
l’orizzonte, cinque palazzi disposti a semicerchio si
innalzavano fino a
sfiorare le nuvole. C’era solo un posto in cui era possibile
trovare simili edifici: Mlad, la gigantesca megalopoli del nord.
«Ma
è impazzita a stare qui fuori? Venga dentro prima di
prendersi una polmonite!», disse la voce di un uomo.
L’infermiera aveva chiamato i rinforzi e così era
giunto il primario che
l’aveva presa per le spalle e l’aveva
riaccompagnata dentro. Nel suo camice
leggero da paziente Dylia tremava come una foglia. Il freddo
risvegliò il
dolore della ferita alla spalla e sul suo volto comparve una malcelata
smorfia
di sofferenza. Fu ricondotta nella sua stanza e gli fu somministrato un
antidolorifico.
Il
giorno dopo, mentre ancora si crucciava sulla sorte dei suoi due
uomini, Dylia
ricevette una telefonata. Le portarono il ricevitore a letto
dicendole che si trattava di qualcuno di piuttosto preoccupato per
lei. Inutile dire che fu alquanto delusa nel sentire la voce roca del
suo capo
dipartimento.
«Come
sta il mio miglior agente di trasposizione?»
«Male.
Un imbecille dei servizi segreti mi ha sparato addosso. Come dovrei
stare
secondo lei?»
Si aspettava che l’altro le
rinfacciasse il fatto di essersi
messa in mezzo per difendere Shulik – perché
sicuramente era stato avvisato di
come erano andati i fatti - ma sorprendentemente l’altro non
disse nulla al
riguardo. La apostrofò, tuttavia, per il tono poco
rispettoso con cui si era
appena rivolta.
«Il
posto alla E-Security
è ancora
tuo,
se è questo che ti stai chiedendo», disse.
«Dai rapporti degli agenti che
hanno preso parte all’imboscata è chiaro che
è stato tutto un incidente. Ti trovavi nel posto sbagliato
al
momento sbagliato. In ogni caso poteva andare peggio e almeno
adesso non
dobbiamo
più
preoccuparci per quel criminale. Se quella
leggenda sull’inferno fosse vera, il mondo intero
sentirebbe le sue
urla attraversare le dimensioni
iota fino a noi»,
concluse.
Dylia
deglutì prima di intervenire con tono incerto.
«Scusi, credo di non capire.»
«Questo
non è il mezzo ideale con cui scambiarsi informazioni
riservate. L’importante è
che tu ti rimetta presto e…»
«Aspetti!»,
la voce le uscì strozzata. Con il pensiero era rimasta
ancora alla frase
precedente. «Non è possibile che… che
lui sia…», non trovava nemmeno la forza
di dirlo. «La navetta. C'ero anch'io...»
«Sì,
lo so. Shulik ti ha presa in ostaggio per fuggire, ma il mezzo su cui
eravate è precipitato. È una fortuna che
tu sia sopravvissuta. Probabilmente non sai nemmeno come sei arrivata
in ospedale, vero?»
La
ragazza non disse nulla.
«Come
immaginavo... Tra qualche giorno verrò
lì, così potremo discutere meglio.
Rimettiti in forze.» Detto questo riattaccò senza
lasciare a Dylia il tempo di
controbattere.
Abbandonato
il ricevitore sul letto andò verso la finestra; fuori
continuava a nevicare.
Si domandava come riuscisse la gente a vivere con un clima
così rigido e se il
grigiore di quei fiocchi contenesse sostanze nocive o fosse una
tonalità del
tutto innocua. Probabilmente gli spalaneve erano costantemente al
lavoro per
assicurare ai cittadini la possibilità di uscire di casa,
oppure in quella
megalopoli avevano sviluppato una qualche tecnologia che impediva al
ghiaccio
di attecchire sulle strade. Sì, era più probabile
la seconda.
Guardando
giù, oltre il vetro,
verso la città, si vedevano chiaramente le linee
nere
serpeggianti delle vie tra le
abitazioni. Era così intenta a osservare quel curioso
particolare che sussultò
quando dalla porta entrò l’inserviente che
spingeva il carrello con il pranzo.
Si girò e rimase spiazzata, lo sguardo fisso in quello
dell’altro.
«Oliwar,
sei proprio tu? Come stai?», gli chiese dopo essersi ripresa
dalla sorpresa.
«Sai
che potrebbe investirmi una pattuglia di demolitori provvisti di
frantumatore atomico
e io sopravvivrei comunque.»
La
ragazza sorrise: nella risposta aveva percepito una sfumatura di
ironia.
Qualcuno doveva avergli installato un nuovo cip per upgradargli le
funzionalità
di humor. Gli corse incontro e, investendo il carrello con i piatti
destinati ai pazienti, circondò tra le sue braccia
l’amico
ritrovato.
«La
tua ferita?», chiese lui.
«Fa
ancora un po’ male, ma sta migliorando.» Si sciolse
dall’abbraccio ed esitò
qualche secondo. Poi schiuse le labbra intenzionata a parlare, ma
distolse immediatamente
lo sguardo da quello di Oliwar temendo che potesse leggerle negli occhi
la
domanda e finisse per darle una risposta che non voleva sentire.
«I
miei sensori mi dicono che vuoi chiedere qualcosa.» La pelle
sintetica, bianca
e perfetta del viso del robot si piegò leggermente agli
angoli della bocca, in
quello che doveva essere un sorriso cortese.
«Chi
ha provveduto a ripararti e aggiornarti?»
«Mi
ha preso in custodia un medico. Voleva farti una sorpresa per quando ti
saresti
svegliata e così mi ha installato anche le
funzionalità emotive superiori.»
«Dovrò
ringraziarlo quel medico benefattore. Dove posso trovarlo?»
«Prima
mangia qualcosa.»
Dylia
sbuffò. In cuor suo cercava solo una scusa per fuggire da
quel maledetto
ospedale che le metteva una tale tristezza.
Oliwar
riprese parola dopo aver depositato due piatti sul comodino.
«È uno nuovo, non
ha un orario fisso. Quando c’è bisogno lo chiamano
e lui arriva. Prima o poi te
lo presento.»
La
ragazza osservò distrattamente il pranzo: una porzione di
carne cotta tagliata
a cubetti, uno strano impasto rosa e delle strisce bianche di un
vegetale
che non riusciva a classificare. Il robot era già
sulla soglia della
porta quando Dylia lo bloccò.
«Aspetta!
Devo chiedertelo o non avrò pace: tu ne sai qualcosa di
Shulik?»
«Shulik?
È
stato dato per disperso.»
“Disperso
non vuol dire che è morto, vuol dire che si sono smarrite le
sue tracce.
Potrebbe essere da qualsiasi parte, no? Quindi? Questo non cambia
niente… non
c’è nulla che io possa fare.”
Dylia
continuava a sentirsi afflitta da certi pensieri e la neve grigia che
scendeva lenta oltre la finestra della sua stanza di certo non aiutava.
Quando verso sera smise di
nevicare, entrò nel camerino riservato ai cambi
d’abito dei medici e
prese in prestito un paio di scarpe della sua taglia e un cappotto,
dopodiché
uscì in strada. C’era qualche mezzo di soccorso
automatizzato fermo poco
distante dall’entrata principale in attesa di una chiamata
d’emergenza. In
confronto alla strada pulita e facilmente praticabile, il marciapiede
era
totalmente coperto di neve. Dylia mosse qualche passo
sprofondando con le scarpe su quel manto soffice e farinoso. Il respiro
si
condensava nell’aria e si perdeva nell’atmosfera
silenziosa. Solo il rumore di
qualche auto in lontananza e i passi ovattati di qualche coraggioso
avventuriero interrompevano la quiete del paesaggio ghiacciato.
«Così
diventerai un surgelato.»
Dylia
si voltò verso l’uomo che si era fermato a qualche
passo da lei. Era talmente
imbacuccato che gli si vedevano malapena gli occhi, ma la sua voce non
le era
nuova.
«Comunque
mi fa piacere vederti in forze», continuò,
sistemandosi meglio la sciarpa
davanti la bocca. «Piaciuto l’aggiornamento al tuo
robot?»
Una
strana eccitazione si fece spazio nella mente della ragazza, scese in
gola e si
fermò all’altezza del petto.
I medici
di Terratre non erano solamente persone che sapevano
come
curare un corpo umano prescrivendo terapie, erano qualcosa di molto
più
sofisticato: esperti in tecnologia, le loro abilità si
avvicinavano moltissimo a
quelle di un hacker. C’è n’è
bisogno, quando l’unico modo per salvare la vita a
qualcuno è guidare una squadriglia di nanomacchine in un
labirinto di
arterie e capillari.
Visto
che Dylia non accennava a spiccare parola ed era rimasta come pietrificata,
il
medico sbuffò e la
condusse gentilmente verso la
porta. «Entriamo, qui si congela. E comunque…
questo cappotto mi ricorda molto
quello della dottoressa Janner.»
Detto
questo, abbassò il cappuccio e si srotolò la
sciarpa rivelando il suo volto a
una Dylia totalmente sotto shock. Nel viso dai lineamenti aggraziati,
dietro un paio di occhiali
con la
montatura azzurra, due iridi scure si
soffermarono su di lei con un accenno d’intesa. Elar Shulik
un medico? Da
quando in qua Elar Shulik, pluriricercato a livello mondiale per aver
causato
caos e terrore in diverse città, aveva sentito il desiderio
di
salvare la gente? E com’era possibile che nessuno lo
avesse
riconosciuto? D’accordo, si era lasciato crescere una corta
barba e portava gli
occhiali, ma per il resto era sempre lui: il solito diabolico angelo
dai capelli neri come la notte. Dylia lo seguì con
lo sguardo mentre
entrava in un reparto riservato ai medici. Prima di
chiudersi
la porta alle spalle si girò un’ultima volta e le
fece l’occhiolino.
Dopo
quell’incontro, la ragazza cercò Oliwar in tutto
l’ospedale e quando lo trovò a
ricaricare i distributori automatici in un'ala secondaria
dell'edificio,
sfogò su di lui
tutta la frustrazione. Era sollevata nell’aver constatato che
Shulik non era
morto, ma allo stesso tempo si sentiva presa in giro e confusa. Si
piazzò
davanti al robot con un’espressione corrucciata:
«Senti, fino a prova contraria sono ancora io la
tua padrona, ok? Non puoi mentirmi, dunque perché non mi hai
detto chi era
veramente il medico che ti ha riparato?!»
L'altro appariva
sereno. «Non
pensavo ti importasse tanto di Katerino Atvor.»
«Ma
che stai dicendo!? Lui è Shulik, Elar Shulik!»
«Ti
sbagli, la navetta con cui stava cercando
di fuggire è
esplosa. Ti procurerò i videogiornali. Si vede il momento in
cui il mezzo
supera l’ultimo strato di atmosfera e poi viene avvolto dalle
fiamme.»
Dylia
scosse la testa. Evidentemente Shulik aveva creato dei
falsi
ricordi nella mente dell’automa, provò quindi con
un’ultima domanda: «E come ti
spieghi l’impressionante somiglianza tra i due? Prova a
metterli a confronto con il software per le identificazioni.»
Se
ne sarebbe accorto chiunque che sembravano gemelli.
Ciò che Dylia non
sapeva era che, in quella metropoli, le centrali di polizia
consideravano gli
identikit dei criminali materiale riservato da non divulgare presso i
civili. Nessuno, quindi, avrebbe mai
sospettato
di nulla.
Oliwar,
per la prima volta da quando era stato assemblato, parve trovarsi in
difficoltà. Il dubbio che la
sua padrona aveva posto in essere gli provocò un sussulto:
iniziò a tremare scosso dalle convulsioni, poi roteo gli
occhi e scivolò
seduto sul
pavimento. Dylia, preoccupata, gli prese il volto tra le mani e
cercò di capire
quale fosse il problema. Sembrava una tipica reazione da
“accesso negato”, come
se il suo cervello fosse stato programmato per rifiutarsi di rispondere
a quel
genere di questioni. Gli passò una mano sulla nuca e
cercò con i polpastrelli
la lieve scanalatura per il riavvio d’emergenza; quando la
trovò e la premette,
Oliwar smise di tremare e chiuse gli occhi come caduto in un improvviso
sonno
profondo. Dylia gli si avvicinò di più e lo
tirò a sé. Gli arti sciolti del robot erano
abbandonati lungo il corpo, la testa si adagiò
sulla spalla di Dylia
che poté sentire la morbidezza dei suoi capelli sintetici
solleticarle il collo.
«Mi
dispiace, non volevo», sussurrò all'orecchio di
Oliwar. Un attimo dopo lui
riaprì gli occhi e tornò ad animarsi.
«Inizializzazione
completata. Riavvio cip istallati completo. Riattivazione dispositivi
di
sicurezza in corso...»
Le
mani dell’automa si sollevarono e risposero
all’abbraccio della ragazza
cingendole dolcemente il corpo; rimasero
così per qualche secondo prima di rialzarsi.
«Ho
rilevato un problema: un archivio della mia memoria era stato
manomesso. Ora
ricordo cose che non sapevo di conoscere», disse lui.
«Shulik e il medico
Atvor sono la stessa persona, inoltre so come ha inscenato la sua
morte, perché l’ho
aiutato io.»
“Che
cosa provo realmente per quell’uomo?”, si
chiedeva Dylia mentre sostava nella saletta d’attesa
all’esterno del reparto
di chirurgia dove le avevano detto che si trovava lui per
un’urgenza. Nel posto
c’erano altre persone oltre ai parenti di qualcuno che al
momento era sotto
operazione. Una donna in particolare aveva il viso sconvolto; quegli
occhi
arrossati dovevano aver versato così tante lacrime da averla
prosciugata di
tutte le forze, ecco perché per mantenersi in piedi si
aggrappava al ragazzo
più giovane di fianco a lei. A causa di un’embolia
suo marito aveva
avuto un infarto ed era stato scortato in fretta al pronto soccorso.
Dylia fantasticò sulla loro storia: immaginava
si fossero conosciuti trent’anni prima mentre si contendevano
un parcheggio;
dai rimproveri erano passati alle risate e uno dei due aveva proposto
di risolvere la questione in modo amichevole
in un locale. Con il tempo si erano innamorati e dalla loro unione era
nato
quel giovane ragazzo che, soffocando la preoccupazione, si fingeva
impassibile per
offrire un braccio forte e sicuro alla madre.
Aveva forgiato questa
immagine mentale mentre attendeva; non osava
muoversi e controllava persino il respiro, temendo di disturbare
quell’atmosfera raccolta che
si era creata. Ad
un certo punto la porta della chirurgia si aprì e ne usci
Elar; in testa aveva
ancora il casco con annesso schermo virtuale per guidare
l’operazione. I
parenti del ricoverato si avvinarono timorosi: nei loro occhi si celava
la
paura e la speranza compressi in un impercettibile luccichio che sa
riconoscere
solo chi ha sperimentato situazioni simili.
Elar
tolse il casco svelando un sorriso rassicurante:
«L’intervento è andato bene.
Il paziente è fuori pericolo e si
riprenderà.»
Poi
gli occhi di Elar si posarono su Dylia che si alzò
bruscamente e uscì in
corridoio, una mano posata sul petto come per cercare di controllare il
battito
del suo cuore.
“Che
cosa provo realmente per quell’uomo?”,
ripeté mentalmente continuando a
camminare con passo incerto mentre la vista iniziava ad annebbiarsi a
causa
delle lacrime. Era entrata troppo in empatia con quella famiglia e la
bella
notizia l’aveva talmente toccata che stava per abbandonarsi
a un pianto
dirotto. Dimostrarsi fragile era l’ultima cosa che voleva
in quel momento, così finì per sferrare un pugno
alla parete. Quando si
girò per tornare indietro, si
trovò faccia a faccia con Elar Shulik, il camice da
medico sbottonato e
quello sguardo che, se osservato in profondità, nascondeva
ancora l’ombra del
suo passato.
«So
quello che stai pensando», cominciò lui.
«Hai
imparato a leggere nella mente?», chiese lei con sarcasmo
cercando
di dominare le
emozioni.
«No.»
Dylia
cambiò discorso. «Tra qualche giorno
verrà qui il mio capo. È meglio se non ti
fai vedere mentre c’è lui in giro.»
Elar
storse la bocca. «Ho imparato a leggere dentro le
persone.»
«Al
mio capo non importerà granché, a meno che tu non
riesca anche a leggere i pensieri di un indiziato
che non vuole parlare… ma anche in questo caso
temo…»
«Grazie»,
la interruppe. Si fissarono per qualche istante senza dire nulla, poi
lui la
scansò e
proseguì lungo il corridoio credendo che avesse tutte le
ragioni per trattarlo freddamente.
Era incredibile. Shulik
sembrava un’altra persona.
“Che
cosa provo per lui?”, si chiese nuovamente la ragazza
girandosi a guardarlo
mentre si allontanava.
Poteva definirlo sia il
suo miglior amico
che il suo peggior nemico. Al di là della
crudeltà di certi suoi gesti compiuti, lui era riuscito a
trasmetterle qualcosa di positivo. Senza volerlo le aveva insegnato che
anche
nella
persona più malvagia si può nascondere la luce e
da questo era giunta alla conclusione che anche nell'individuo
più calmo e gentile
possono albergare
oceani assassini in tempesta. Un giorno lei aveva guardato nei suoi
occhi e
l’aveva visto, aveva visto il sole che aveva dentro: qualcosa
di bellissimo e
allo stesso tempo dolorosissimo. La sua anima era
incandescente e
quando a Damon la sua mano aveva sfiorato il viso di lei,
parte di quella fiamma
si era trasferita lasciandole un segno invisibile.
Non
le era mai capitato di vedere in quel modo una persona, di vederla
oltre a ciò
che mostrava, oltre all’apparenza e il retaggio del suo
passato. Quella sua bellezza
non si poteva definire una casuale
combinazione di atomi; il suo volto angelico era un riflesso di
ciò che
custodiva sigillato nella cassaforte dell’anima, quando
ancora non era stata
contaminata dall’odio.
Quel
giorno, alla stazione Damon, la trasposizione li aveva fusi e nel
momento
del ritorno qualcosa non era andato per il verso giusto. Come l'edera,
strappata a forza dal tronco di un albero, lascia i segni nella
corteccia su cui
era ancorata da anni, così le loro anime si erano
avvinghiate e graffiate tanto che non
sarebbero mai più state le stesse.
L’equazione
di Dirac spiega bene l'accaduto: quando
due insiemi vengono a contatto
- anche solo per un brevissimo istante - si influenzano, e nel momento
dell’allontanamento continuano a ricevere l'influsso
dell’altro. Le distanze
sono annullate; non esistono spazi sconfinati o universi infiniti
capaci di
interrompere il legame. Ciò può essere una
fregatura, ma anche una benedizione.
Come sempre, tutto è relativo.
In quell'istante Dylia
capì che non poteva lasciarlo andare, perciò gli
corse in contro e lo
fermò
trattenendolo per un braccio. Non sapendo bene cosa dire sorrise
nervosamente, poi
si schiarì la voce: «Perché prima mi
hai
ringraziata?»
«Ti
ho ringraziata per aver migliorato la mia vita», disse lui.
Nello sguardo aveva una
luce particolare, come se si sentisse sollevato dal fatto di averla di
nuovo
vicina. «Il giorno dell’imboscata»,
continuò, «mi sono reso conto che non
provavo piacere nel vederti star male. Fino ad allora il dolore degli
altri era
un lenitivo per me. Che cos’hai tu di speciale per farmi
vacillare? Non sono
riuscito a trovare una risposta soddisfacente», concluse.
Dylia gli
scostò un ciuffò che gli ricadeva sulla fronte,
poi lasciò scivolare delicatamente la mano di lato, sostando
più a lungo sulla sua guancia, mentre gli occhi si posarono
sulle labbra di lui svelando il desiderio nascosto. Senza indugiare
oltre lo baciò. Nell’ambiente
circostante c’era l'odore del
disinfettante e il rumore di qualche barella trascinata in un corridoio
lontano, ma quel contatto, che sapeva di vita e speranza, aveva
trasportato entrambi in un altro mondo lontano anni luce da
lì.
Qualche
mese dopo Dylia tornò al lavoro al solito
distretto, sotto il comando di quel
simpatico vecchietto fanatico dei sigari che era il suo capo. Si
domandava per
quale fortunata concomitanza di eventi gli agenti dei servizi segreti
avessero tralasciato
certi dettagli compromettenti dai loro rapporti. Ricevette
l’indizio chiave una
sera, sotto forma di buono per un acquisto al
negozio di
robotica, accompagnato da un biglietto firmato da Saati: forse
l’interesse che quello svampito aveva
mostrato nei suoi
confronti non era tutta finzione.
Altre
novità riguardavano il metodo d’azione del
dipartimento di trasposizione. Erano
state apportate delle migliorie: ora si potevano usare
contemporaneamente più
dispositivi per la distorsione del campo elettromagnetico. Ne erano
stati
dislocati un po’ ovunque nelle principali metropoli del
pianeta. Ovviamente ci
si poteva collegare a uno solo alla volta, ma questo garantiva comunque
una più
veloce entrata in azione. Uno di questi era collocato al nord e
precisamente a
Mlad, dove Elar continuava il suo filantropico lavoro di redenzione
all'ospedale civile.
Ogni tanto, se era
sicura che i suoi spostamenti non erano monitorati, accendeva il
macchinario e
andava a trovarlo. Gli sedeva accanto quando, durante l'orario di
riposo, sostava sul
muretto
esterno della clinica; si godeva quella vicinanza e la particolare
atmosfera del posto raccolta in un silenzio meditativo.
Nell’attesa che Elar
trovasse un modo sicuro per tornare
a circolare liberamente per il pianeta, si accontentavano di quel
contatto a
metà per non creare sospetti. Anche
se lui non poteva vederla, percepiva la sua presenza. Fu
così
che un giorno, stringendo tra le mani il DSZ potenziato da un
particolare algoritmo di sua invenzione, si
girò verso il nulla permeato dal gelo del nord e disse:
«Sai, forse ho trovato la soluzione.»
Il giorno dopo un blackout di proporzioni globali colpi Terratre
per cinque minuti e quarantanove secondi. Quando tornò
l'elettricità, nessuno si accorse che gli archivi
con i dati
compromettenti che incastravano Shulik erano stati totalmente
cancellati.
Nella città in cui risiedeva Dylia era notte fonda. Oliwar
captò un segnale anomalo in entrata nel sistema domotico
dell'appartamento; lo scrisse in un biglietto che appoggiò
sul
comodino della ragazza prima di stendersi al suo fianco nel letto.
Il messaggio tradotto corrispondeva a due sole lettere: E.S.
The End/
To Be Continued...
Note autore:
Lo
so,
lo so! Questa conclusione lascia aperte le porte alla
possibilità di
scrivere un seguito! Ve lo già detto che io non sopporto i
finali? E allora, visto che posso scegliere, scelgo di
lasciare i
miei affezionati personaggi in una parentesi temporale; congelati fino
al momento in cui mi verrà l'ispirazione per scrivere un
sequel.
Le manie di onnipotenza degli autori nei confronti dei
propri
racconti. ♥ Comunque... immagino abbiate capito a che cosa
si riferiscono le due lettere, no?
Spero davvero di avervi
regalato qualcosa di positivo e come
al solito sono benaccette le critiche costruttive.
Ci
si rivede in una nuova avventura
fantascientifica: variabili del caso permettendo. :)
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