Batte nervosamente sul profilo dei jeans scoloriti.
Double croche.
Il clap
delle bacchette sul denim, netto e preciso.
“Nh.”
Ottiene solo un cenno del capo.
Partecipe, emette un lungo
fischio.
Flam.
Incalza, alternando il battere e
levare dei polsi a intervalli sempre più brevi.
Lo spilungone non batte ciglio.
Tenta il tutto e per tutto.
Interrompe la sequenza brutalmente e lancia le Vic Firth in aria.
Resta a guardare, soddisfatto,
mentre ruotano coordinate per due metri in salita.
Poi la destra s’impiglia nel
telaio portante dei riflettori.
La sinistra ne colpisce uno di
punta, con precisione.
E le
mille schegge di vetro infranto sono l’unica cosa a ricadergli tra le mani.
Dom
getta un’occhiata casuale allo spilungone, fingendo d’ignorare l’apocalisse
scatenata nei cinquanta secondi precedenti.
“Così… tu sei gay, eh?”
Stefan
lo fissa dall’alto, puramente interdetto.
“A quanto pare.”
Un ulteriore
scroscio di vetri colorati gli strappa una smorfia esaurita.
Dom
ghigna nervosamente.
“Già. Bella storia!”
~ Black
Plant.
~ Why
would you say “sorry”?
Oh, why
would you?
C’è un po’ di Brian nel vetro. Tagliato
in specchi buoni da bere. Belli da farci l’amore.
Stringe le dita sudaticce attorno
al filtro della Lucky Strike.
Dovrebbe tornare
a fumare roba seria, si dice.
Matthew
ondeggia con la morbidezza dei brilli, attaccato in entusiasmi puerili al collo
della Bud. La mezzaluna della figura si staglia
contro il fondo scuro del backstage, dando all’aria quel colore nervoso che ha
la sua musica.
Può quasi sentirla, contro la
carta della sigaretta.
Le mille repliche di vetro
arricciano il naso perfetto in una smorfia che lo sconcerta. Non può farne a
meno: stenta a riconoscersi con quell’impronta
addosso.
C’è più di Bellamy
sulla sua pelle che nel corpo lì davanti.
Prova a schermarsi col fumo,
ignorando il fremere lieve delle gambe che non gli riesce di
arrestare. Certo non costa quanto quell’attesa
stentorea.
Alla fine dei suoi giochi da
spettro, può ben esser grato perché è Matt ad esordire.
“Allora… cosa c’è?”
Reprime l’istinto fugace di
spegnergli la cicca sulle labbra.
Violentemente erotico.
“Sicuro di volermi ascoltare? Non
preferisci forse finire le scorte del tour?”
Accenna eloquentemente alla
bottiglia piena di sé.
Matthew
segue il suo sguardo con stupore crescente, che sfuma in una più quieta
meraviglia.
“Non credo ci sia questo pericolo.
Dom ha preso tanta birra che ci basterà fino ai
prossimi EMA!”
Persino il sorriso che segue,
così vitale da sembrare autentico, non riesce a
strozzargli l’ira in gola.
La sta
affrontando nel modo sbagliato, Brian ragiona. Dovrebbe seguire i
consigli della sua psicoterapeuta e ri-las-sar-si,
una buona volta.
Peccato solo sia facile parlare,
per una vecchia zitella del New Hampshire con cui non
sostiene che conversazioni telefoniche. Gran parte delle quali spesa a iperventilare,
va detto.
Con un leggero slancio
all’indietro si accomoda sull’accogliente polvere di un Marshall
abbandonato. Prende una boccata di fumo più lunga, rovesciando intenzionalmente
il capo per fissare il soffitto.
Non avrebbe
dovuto tagliarsi i capelli, lo sa. Ora si ostinano a crescere con quella
strana forma a budino – se neppure Alex ha avuto il
coraggio di negare, allora è peggio di quanto pensasse.
“Brian…”
Registra distrattamente il
piacere di quell’invocazione – perché è così, oh, così che deve andare.
“… se non hai nulla di intelligibile da dire io torno di là. Devo controllare le
chitarre.”
Dritto a schiantarsi contro la
prepotente realtà della sconfitta.
Niente da fare. Matthew Bellamy ha ingoiato le
ultime stille della sua dignità insieme alla doppio malto.
Cerca di rivestirsi d’autorità,
assimilando nicotina con la furia dell’orgoglio che scema, maledettamente duro
a morire.
“Frena. Non ho ancora iniziato.”
Almeno sapesse
perché diamine si trovano lì, farebbe un favore ad entrambi.
Lo sente avvicinarsi, il
ticchettio sicuro dei tacchi squadrati sulle travi – come un dannato cowboy. Al diavolo il giorno in cui gli è venuta su Knights Of Cydonia.
Ne avverte
la presenza a meno di un palmo, con quel caratteristico odore d’alcool e canto
che si porta dietro, e ancora nessun contatto. Quasi a
giocare con le differenze di posizioni, mai tanto evidenti quanto nella favola
del backstage.
Reclina la testa in avanti e lo
scopre a ghignare.
Proprio non capisce con che
coraggio la gente gli dia dell’isterico. Sta con
quella sottocategoria di frontman, dio santo. Ha
tutte le stramaledette ragioni del mondo per essere isterico.
La camicia di Matt
è improponibile, al solito. Con quel dannato bavero
luccicante che chiede solo d’essere afferrato e scosso, fino a spogliarsi di
ciascuna schifosa paillette.
Si trattiene. Più probabilmente,
perché sa che al minimo tocco scoppierebbe di nuovo l’insana brama che lo
trasforma in ogni molecola.
Nemmeno un sintomo onorevole. Solo sudori vari e vagamente imbarazzanti, di quelli che si portano
dietro il timore dei cattivi odori e l’incubo della pelle lucida sotto il
trucco.
E c’è di
peggio.
Ha quella voglia stupida di
abbracciarlo. Posargli le mani schiuse sui fianchi, dapprima mollemente; poi
pressare per imprimersi più a fondo sulla stoffa della camicia, e scorrere
lungo il bacino ossuto arrivando alla schiena. Sgattaiolare a
dita tese sotto il cotone, per sentire le vertebre flettersi dolcemente.
Assaporarne infine il calore, prima di attrarlo a sé con quell’urgenza esasperante.
Sta perdendo il contatto col suo
stesso corpo. L’unica cosa che gli sia mai rimasta fedele.
“Lascia che indovini…”
Matthew
lo canzona senza fiele, fissandolo a capo inclinato.
L’attimo dopo Brian sente la
testa girare. Scivola nelle braccia sottili del folletto, allargando
maldestramente le gambe per tenersi in equilibrio.
Contro il petto di Bellamy c’è una profusione di odori
che lo aggredisce senza possibilità di discernimento. Barcolla vergognosamente
per non premersi sulla sua camicia – i lustrini potrebbero
infettarlo; finisce col pestargli un piede scioccamente corazzato.
Leva il capo con una mezza
intenzione di scusarsi, ma l’altro è più svelto.
Lo cerca con una dolcezza molle e
improvvisa, intima in un modo che è diverso dai bordi delle lenzuola. È uno
sfiorarsi pudico di nasi, un contatto tremulo di fronti; è una bocca che sfrega
sulla sua, lentamente e con attenzione. Un’umidità che non
esita e non s’impone, che canta senza rumore.
Brian accoglie le labbra di Matthew e vorrebbe morire per come
riesce a sentirle.
Non sa dire chi dei due ingrani
la marcia per primo. Troppo occupato a soffocare un unico,
prolungato grido di frustrazione, per resistere alla sfida iniqua di quella
lingua tanto perfetta.
Può muoversi davvero
maledettamente bene, il ragazzino. Quando non è sul
palco.
Matt si
tira indietro e tutto crolla.
Il bip incessante nelle orecchie
sembra perforargli il cervello. Quasi come avere un
elettrocardiogramma inerte che rimanda sempre lo stesso suono pulsante.
“… ti mancherò da impazzire, mh?”
Se il primo istinto è quello di
deriderlo, è al secondo che cede inevitabilmente.
Non è come lo aveva
immaginato. Troppo brutale il modo in cui strattona quell’oscenità di paillettes,
tanto per cominciare. E i fianchi neppure
entrano in causa, soppiantati nel ruolo di lento collante da una foga infantile
che punta dritta alla schiena spigolosa. La morsa preme sulle
costole tanto da far male, ci scommette, così come la totale assenza di
sensualità.
Ma anche
questo, Brian, è un abbraccio.
L’“ouf”
sommesso che Matt si lascia sfuggire, spia di un
principio di soffocamento da inusitato slancio di tenerezza, diventa facile da
ignorare troppo presto. All’incirca, quando sono le mani
dell’elfo a posarsi sui suoi fianchi.
In altri momenti, suppone,
ritroverebbe quella punta di invidia furiosa che lo
assale ad ogni sold out dei Muse, ad ogni autografo firmato, ad ogni plauso
della critica e ad ogni fottuto EMA. Che lo colpisce
con una scarica di colpevole inadeguatezza tutte le volte in cui l’elfo gli mostra quel candore.
Ma un
abbraccio, Brian Molko, è qualcosa di diverso.
Si abbandona al sospiro più muto
che può, mentre il suo perfetto copione – amorevolmente preparato nella privacy
discreta delle sue fantasie adolescenziali – viene
recitato da un altro attore.
Non che abbia
da obiettare. Bellamy scorre sulla pelle
seguendo i versi della sua immaginazione, magicamente in sincrono con l’agire
idealizzato per le mani.
Neanche improvvisa. Quando i polpastrelli scivolano oltre la giacca che indossa, Brian
sa esattamente quale sensazione daranno a contatto con la carne nuda.
Peccato non riuscire a dominare il brivido che portano, però.
Il liquore del tempo trema fra i
loro corpi, diffondendo nell’aria l’odore inconfondibile dell’alcool zuccherato
– di un male dolcissimo, di un male da nausea. Matt non si allontana, ma la stessa urgenza mielata
traspare dal modo in cui gli parla all’orecchio.
“Sta’ tranquillo. So che non
volevi lasciarmi partire senza aver definito le cose. Va tutto bene.”
S’irrigidisce nella stretta senza
flettere un muscolo.
Poi
respira. Attentamente e a fondo, senza sprechi.
Com’è che non riesce a sentirsi
preso in giro?
Perché è
questo che sta succedendo, no? Bellamy non può
seriamente pensare di sistemare tutto strusciandoglisi
contro.
Che il
“tutto” sia la totale assenza di determinazione in quella cosa che è piombata
fra loro, è solo parte del problema.
Il punto è l’assimilazione.
È tipico di Brian risolvere
qualsiasi dilemma con il corpo. Sfregando, succhiando o scopando, non ha mai
fatto differenza. Fottendo
al prossimo il cervello, quando altro
non avrebbe aiutato.
Che il folletto possa prendere quell’atteggiamento,
è una prospettiva che lo distrugge.
Reagisce ancorandoglisi
ulteriormente al costato, mandando a puttane in un secondo tutti i suoi
scrupoli. La delicatezza con cui Matthew ha preso a
sfiorargli i capelli-budino è qualcosa cui non può
proprio rinunciare, non adesso.
“Ti chiamerò ogni sera, quando starai per andare a dormire. Anche se, pensandoci bene,
avremo qualche problema a calcolare il fuso orario visto che il tour si muove
da una costa all’altra.”
Suon
genuinamente perplesso per un istante, prima di ritrovare il brio perduto.
“Vorrà dire che telefonerò a
cadenze di un’ora ogni giorno, e quando smetterai di rispondermi saprò che stai
dormendo! Nel tuo letto e da solo, ti auguro.”
L’ultima parte è ingiunta tanto
sottovoce che stenta a coglierla. Poi riesce. E avverte
un rossore irritato salire a velargli le guance.
Le dita d’artista sono sul suo viso, adesso. Lo accarezzano senza forza, prima
di flettersi sul profilo della mascella per indurlo ad alzare gli occhi.
“Brian.”
Non vorrebbe. Escono da sole,
quelle piccole sillabe.
“Mi dispiace.”
È quieta l’indagine che lampeggia
nello sguardo dell’elfo, riflessa nel tocco pigro dei polpastrelli sul collo.
“Per cosa?”
Così è stato più
semplice, Brian osserva. Ci si può rammaricare anche senza colpa, solo
per il dolore di un altro.
Le scuse presuppongono il torto.
Non gli si può chiedere anche
questo.
Matthew
non indugia nell’attesa di una risposta che sa restia ad arrivare. Continua a
tessere debolmente le trame del suo viso, precipitando sulla
labbra ancora lucide di baci.
“Brian.”
Interpellato, schiude dolcemente
la bocca, carezzando maldestramente quell’unico dito
giunto a saggiarla.
Non è sicuro di cosa l’altro stia per dire, quando ne riscopre la voce malferma.
“Brian. Renditene conto. Io sono totalmente
soggiogato da te.”
Baciarlo adesso, dopotutto, è più
difficile.
Labbra contro labbra
e lo stesso fiato di zucchero.
È lui a ritrarsi, stavolta.
Respinge l’elfo per accogliere il coraggio assurdo di quella liberazione.
Prima che parli ancora, in
fretta.
Prima di una nuova invocazione.
“Ti amo.”
Le odia nel momento stesso in cui
vengono fuori, dure come sono, e sfiatate.
Però Matthew non sembra badarvi.
Dopo, è solo lingua e un
singhiozzo che si perde – da qualche parte fra gli abiti.
“Bella storia!”
Stefan
distoglie lo sguardo, apertamente nauseato.
“… Certo che ce ne stanno
mettendo di tempo, ne? Voglio dire, saranno… venti minuti che si sono appartati
lì dentro?”
Dom
accenna ad un risolino forzato.
“Cosa
mai avranno da combinare, è un mistero!”
Il bassista
si volta lentamente, l’espressione di chiaro scherno.
“Già. Un vero mistero.”
Lo deride con calma, forse
aspettandosi qualche reazione.
Che attesti segni di attività cerebrale, magari.
“Hey, aspetta un
attimo.”
Se non è
chiedere troppo.
“Tu credi che…?”
“Che diventerai zio? No, non esattamente. A meno che uno dei
due opti per il cambio di sesso, il che esclude Brian,
lo garantisco. Ma forse il tuo cantante potrebbe trarne dei vantaggi. Sai, per il falsetto.”
Stef
non è sicuro che l’altro abbia davvero capito.
Si limita a sbiancare, vistosamente.
“Oh. Oh, nnngh.”
~.~.~
Proviamo a procedere per gradi ^o^
Se siete arrivati fin
qui, con ogni probabilità avete letto tutta la storia – e già per questo vi
ringrazio. In caso foste lievemente confusi su qualcosa,
permettetemi di fare luce.
Partiamo dall’inizio.
Il titolo. “Black Plant” è una canzone dei Last Shadow Puppets,
i cui lyrics (in apertura: “Why would you say sorry?
Oh, why would you?”) hanno ispirato le scuse di Brian.
Scuse per cosa, come si chiede anche Matt? Direi che qui si procede per libera interpretazione,
ma chi di voi avesse letto .Undertone. potrebbe facilmente
collegarle a quella situazione. Quella in cui, per
rinfrescarvi la memoria, Brian ha svelato la sua relazione con Matt in diretta tv, e in maniera non troppo ortodossa.
Contesto. I Muse
stanno per partire con il nuovo tour – il che mi auguro sia di buon auspicio,
visto che la release dell’album è prevista entro quest’anno *w* – e Brian non è proprio pazzo di gioia. Soprattutto,
non vuole che Matt stia via tanto a lungo senza prima aver appreso dei suoi sentimenti. Che vengono buttati fuori alla fine, in fretta, quasi con
rabbia; Bells però è lungi dal prenderla male ù_ù.
I siparietti iniziali e finali tra Dom e Stef xD. Mi sono divertita immensamente a
immaginare le possibili reazioni di Muse e Placebo al coming
out dei rispettivi frontman. Evidentemente, Stefan non è turbato dalla cosa quanto lo è Dom, per ovvi motivi. Si presume che i loro dialoghi
avvengano sempre nel backstage, mentre aspettano che Brian e Matt riemergano dall’angolino in
cui si sono appartati. I più puntigliosi potrebbero chiedersi che ci fa il bassista al commiato dei
Muse: semplicemente, ha accompagnato il suo povero piccolo frontman
dal cuore spezzato. Non è adorabile? :3 (LOL. xD)
Mi scuso con Chris
e Steve per averli lasciati fuori. Solo che purtroppo
Hewitt non fa più parte della band T__T, e dovendo ambientare
la storia nell’anno corrente sono stata costretta a tener conto del
particolare. Inoltre Dom e Stef
vengono dipinti come i più vicini ai rispettivi
cantanti,quindi mi intrigava un confronto tra loro.
A questo
proposito: le diciture in corsivo nel dialogo d’apertura. Double croche e Flam sono colpi di batteria, mentre
le Vic Firth bacchette.
Le scarpe indossate da Matt.
Stivali col tacco a banana. Brian fa riferimento a Knights Of Cydonia, un video che sicuramente voi
tutte conoscete: penso di non dovermi dilungare oltre.
Gli accenni tutt’altro
che casuali agli EMA (Europe Music Awards). Ricorderete che i Muse
hanno vinto il premio per il Best Alternative all’uscita di “Absolution”. Premio consegnato nientepopodimenoche
da Brian Molko in persona xD poveretto. Mi diverte pensare che conferire quel
titolo ai Muse lo abbia fatto rosicare parecchio!
Suppongo sia tutto. Se
siete arrivati fin qui meritate una
scatola di cioccolatini virtuali a forma di cuore. <3
Grazie di cuore alle mie lettrici e
recensore abituali ^o^. Vi aspetto al prossimo post
di .:Second Sight:. .
Bacione!