Samantha
passò il giorno successivo a sistemare il rover, impedendo a
Realgar di aiutarla, per permettergli almeno di riposare,
visto la brutta ferita.
«Quanto
pensi impiegherai a guarire?» domandò la ragazza, passandosi
il dorso della mano sulla fronte, sporcandosela leggermente
con il grasso da motore.
Realgar
abbassò lo sguardo sullo strato di fango secco che ricopriva
la parte lesa e grattò via il terriccio con la punta
dell’unghia.
A
quella gesto, Samantha sgranò gli occhi. «Ma sei scemo?!»
gli chiese, correndogli vicino.
«Guarda
che ormai si è richiusa...» obiettò lui, alzando lo sguardo
sul volto preoccupato della giovane che si accovacciò al suo
fianco, ispezionandogli il fianco stupita.
«Incredibile…»
mormorò incredula. «È bastata un po’ di melma
per
farti guarire?»
«Il
pregio di vivere in simbiosi con un organismo organico
basato sul silicio invece che sul carbonio» ribatté
sorridente Realgar.
Sam
si morse il labbro. «Ho letto qualcosa negli appunti di mio
padre, ma non ho aperto il file...»
«Roba
complicata» rispose lui, «non saprei spiegartela nei
dettagli nemmeno io. Quello che so, è che nutro il mio
ospite grazie alla fotosintesi e lui mi protegge dalla bassa
pressione marziana. Il colore rosso è dovuto appunto allo
scudo epidermico che produce l’ospite. I coloni mi
chiamarono Realgar proprio perché sembravo fatto di quel
minerale...»
La
ragazza lo ascoltò con attenzione, poi si risistemò gli
occhiali sul naso. «Com’erano i coloni che ti adottarono?»
chiese con curiosità.
Lui
arricciò le labbra, sollevando gli occhi sulla lastra di
quarzo che chiudeva la volta del soffitto permettendo alla
luce del sole di entrare nella caverna, mentre lo sguardo si
perdeva nei ricordi di un secolo prima. Per un attimo gli
parve di tornare nel cratere Loon, mentre i coloni gettavano
le fondamenta della fattoria autosufficiente, dopo che i
ripulitori avevano sgomberato l’area dai phobosiani
presenti. Realgar rammentò lo smarrimento e l’angoscia
dell’essersi trovato solo, nascosto alla vista dei
ripulitori dal corpo di uno degli adulti della tribù. Poi
ricordò gli occhi azzurri, così simili a quelli della
propria gente, di quella strana creatura che lo aveva tratto
in salvo, cercando di curarne le ferite. Fu un periodo
dedicato alla reciproca conoscenza e alla pazienza, poiché
gli insuccessi si ripeterono innumerevoli volte, con errori
da parte di entrambi i fronti.
Lui
strinse le labbra ripensando a Madison e tornò a guardare
Samantha. «Erano pieni di speranza e sognavano di poter far
ritorno sul loro pianeta il giorno in cui l’Umanità avrebbe
risolto il problema dell’inquinamento sulla Terra. Ma alla
fine dei conti erano dei disperati, intrusi in un ambiente
non adatto a loro; hanno cercato di piegare ai propri
desideri Marte, come avevano già fatto con la loro patria.»
Il phobosiano sbuffò, passandosi una mano nei capelli e
scosse il capo. «Quelli della mia razza saranno lenti a
imparare, ma voi umani dimenticate troppo in fretta...»
disse, alzandosi indispettito. Si allontanò verso le sponde
del lago, cercando di reprimere il dolore, mentre i ricordi
gli dilaniavano il cuore. Aveva veduto Madison
sfiorire, piegandosi inesorabilmente allo scorrere del
tempo, aveva visto i suoi sogni venire calpestati dalla
cupidigia che la scoperta del petrosene aveva instillato
nell’animo umano. Aveva seppellito lui stesso Madison,
mentre i pochi rimasti alla fattoria di scannavano tra di
loro, costringendo le strade di molti a dividersi. I pochi
che erano rimasti nell’avamposto rinunciarono a quella vita
di stenti dopo pochi anni e a lui non era rimasto altro da
fare che seguire quella che era diventata la sua nuova
famiglia e mimetizzarsi a fatica tra la popolazione delle
città cupola.
Angoscia.
Opprimente,
sfiancante, infinita angoscia.
Il
viaggio era stato un lunghissimo incubo, dove le brevi soste
nei punti dove, da alcune fenditure della volta, la luce del
sole penetrava nei cunicoli erano uno sbiadito miraggio,
fagocitato dalle tenebre più cupe che Samantha avesse mai
veduto.
Il
bacio del sole sulla pelle, anche se attraverso i vetri
dell’abitacolo, ora le sembrava più passionale e intenso
della sua giovane vita, eppure non riusciva e non voleva
tenere gli occhi chiusi. Quando lo faceva, la paura tornava
a ghermirle il cuore, inondandole l’animo di ansia.
Sam
faticava a credere che quell’odissea nell’oscurità fosse
finalmente giunta al termine, nonostante di fronte a lei si
stagliasse l’imponente sagoma dell’Olympus, il vulcano più
alto dell’intero sistema solare. Era così grande, che le sua
pendici si perdevano oltre l’orizzonte Una parte di lei
temeva che quello fosse solo un sogno, un’effimera realtà
frutto della sua mente spezzata dalla follia con cui le
tenebre l’avevano maledetta.
La
giovane spostò lo sguardo su Realgar, che le dormiva
accanto, al posto di guida. Quel tour sotterraneo aveva
sfiancato anche lui, che aveva dovuto gestire gli attacchi
di panico che avevano colpito Samantha, la quale gli doveva
aver dato decisamente troppi grattacapi.
Il
segnale acustico avvisò che le batterie solari avevano
raggiunto la massima carica.
Sam
raddrizzò la schiena e controllò lo stato delle celle
d’ossigeno della propria maschera, poi il brontolio dello
stomaco attirò insistentemente la sua attenzione. La ragazza
prese la cassetta delle razioni, sospirando rassegnata.
Estrasse l’unica confezione rimasta e controllò l’interno
della scatola, nella vana illusione di trovarne altre.
Nonostante lei e Realgar se ne fossero concesse una ogni tre
giorni, quel viaggio era durato più del previsto.
«Mangiala
pure.»
Samantha
sussultò e guardò il mercenario, il quale le sorrise senza
aprire gli occhi. «Tu è cinque giorni che non mangi, mi hai
ceduto la tua all’ultimo pasto» obiettò.
Realgar
aprì le palpebre e puntò gli occhi azzurri sul volto della
ragazzina. «Ma ora c’è il sole; grazie alla luce e a un po’
di terriccio mangerò come uno della Fratellanza» ironizzò,
prima di stiracchiarsi la schiena. Si sporse verso i comandi
e iniziò a digitare al computer. «Avanti, mangiala. Avrai
bisogno di energie.»
Sam
si mordicchiò il labbro inferiore. «Sei sicuro di volerlo
fare?»
«Ti
ho detto che non ho bisogno di mangiare ora!» assicurò lui.
Lei
scosse il capo, risistemandosi gli occhiali sopra il naso.
«Mi riferivo a Kain...»
Realgar
arricciò le labbra in una smorfia incerta, accarezzò il
volante e annuì, senza guardare l’interlocutrice. «Sì, se la
caverà benissimo» rispose risoluto. «Mangia pure e poi
affronteremo l’ultima tappa del viaggio. Per ora» aggiunse,
sollevando lo sguardo sull’imponente cono vulcanico che si
protendeva verso rade nubi di diossido di carbonio e
polvere.
Il
mercenario prese la mappa e la stese davanti a sé.
«L’Olympus Mons è situato in una depressione e, come
lasceremo la copertura delle rocce, le sentinelle ci
individueranno subito e, se ci andrà bene, i Custodi ci
piomberanno addosso.»
«E
se andrà male?» domandò sottovoce Samantha.
Realgar
la guardò e poi le indicò il vulcano. «Li vedi quei punti
dove la luce del sole si riflette?» Quando Sam annuì,
proseuguì: «Sono gli sportelli delle bocche da fuoco. È più
facile che ci sparino direttamente addosso.»
La
ragazza deglutì. «Perché dovrebbero farlo? Anche a Olympus
arriveranno dei viaggiatori, no?»
«L’ingresso
è consentito solo tramite rotaia o via aria» spiegò Realgar.
«I veicoli vengono contattati via radio e invitati a tornare
indietro. La nostra fortuna è che il rover è piccolo e
maneggevole, è difficile da prendere di mira. Con l’ultimo
panetto di petrosene, posso lanciarlo al massimo della
velocità e coprire il tratto più breve per le pendici
dell’Olympus in meno di un minuto. Una volta là, sarà al
riparo dai cannoni e a quel punto i Custodi usciranno per
eliminare gli intrusi.»
«In
un minuto ridurranno Kain a un colabrodo» commentò Samantha,
sgranocchiando nervosamente la galletta. «Hai detto che si
accede tramite treno, no? Quindi questi sarebbero le
rotaie?»
«Sì,
sono giganteschi ponti su cui corrono anche i tubi di
rifornimen...» Realgar aggrottò la fronte senza finire la
frase, mentre la ragazza sorrise.
«Credi
che rischierebbero di colpire uno dei ponti, magari quando
passa un treno?» gli disse.
Lui
la guardò compiaciuto. «Sei un piccolo demonietto. Mi piace
quest’idea, anche perché ci permetterebbe di arrivare dentro
alla montagna molto più velocemente.»
Samantha
guardò la mappa e poi di nuovo Realgar. «Vuoi sfruttare uno
dei treni? Non sappiamo nemmeno quando ne passerà uno!»
«In
quanto phobosiano, sono in grado di percepire le vibrazioni
molto più di un umano. Per questo dormivo in tutta
tranquillità in un bozzo. Sento distintamente i micro
tremori che ne prennunciano crollo e non mi sono mai fatto
sorprendere.»
Sam
lo guardò incredula. «Chi diavolo te ha fatto fare di
dormire in un bozzo? Sono altamente instabili!»
«Ma
costano una sciocchezza...» ribatté lui divertito.