Alphabet
– Eebiishii
Die Liebe von A bis Z –
L’amore dalla A alla Z
“Arrogante.”
Fu la prima cosa che pensarono l’uno dell’altro,
quando Kaltz li presentò.
Nonostante entrambi avessero sentito parlare della persona che avevano
di fronte – il Kaiser era una leggenda e il portiere
nipponico si portava dal Giappone la fama di essere imbattibile
– si scoccarono appena un’occhiata fugace, che
però bastò.
Genzo vide l’austerità di Schneider nel suo
sguardo glaciale e sorrise.
Karl notò subito l’espressione di sfida del
portiere – non era per niente intimidito- e
ammiccò.
Dai loro visi trasparivano la stessa sicurezza nelle proprie
capacità e un’infinita determinazione.
Si strinsero la mano, guardandosi negli occhi: sarebbero andati
perfettamente d’accordo.
Berretto,
l’onnipresente accessorio di Genzo che aveva dato origine a
una serie di leggende metropolitane: cosa c’era sotto di
esso?
Hermann una volta aveva esclamato che serviva a nascondere una calvizie
incipiente, ma si era guadagnato un manrovescio e neanche mezza
conferma.
Nonostante le congetture e gli agguati, nessuno aveva mai scoperto cosa
si celasse sotto quel feticcio – persino negli spogliatoi
Genzo riusciva a sfuggire alle occhiate indiscrete.
Nessuno, tranne Schneider, che, la prima volta che lo
spogliò, commentò, ghignando bastardo:
“Bei ricci, Raperonzolo!”
Il segno del morso di Genzo fu visibile sul collo niveo del Kaiser per
diversi giorni.
Caustico e
pungente, Genzo non era una persona con la quale era facile
relazionarsi. Metà dei compagni di squadra
dell’Hamburg lo teneva alla larga e, quando arrivarono i suoi
connazionali dal Giappone per l’amichevole, litigò
con gran parte di essi.
Era acido e permaloso, con la risposta pronta e il cazzotto facile, ma
Karl lo amava anche per questo: con lui era impossibile annoiarsi.
Ma quando, il giorno del loro anniversario, bussò alla sua
porta con in mano il contratto di acquisto di una casa tutta e solo per
loro due, Schneider rimase senza parole: non finiva mai di
sorprenderlo.
“Donzella
spaurita, altro che Kaiser!” lo sfotteva Genzo quando erano
stesi sul prato e Karl si dimenava in modo davvero poco dignitoso per
scacciare un insetto che gli si era avvicinato troppo.
Schneider aveva una sacrosanta paura degli insetti
dall’età di cinque anni: in campeggio in Provenza,
un suo cugino più grande gli aveva messo accanto al cuscino
una locusta stecchita.
Non si era mai più ripreso dallo shock.
Genzo all’inizio sghignazzava senza remore, ma poi lo
prendeva per la vita e sussurrava: “Tranquillo, ti proteggo
io.”
I prati erano luoghi molto più ospitali tra le forti braccia
del portiere.
Esibizionismo,
una cosa che non sopportava del suo fidanzato.
Non solo in campo dava spettacolo inventandosi parate spettacolari da
sostituire a semplici prese vecchio stile, ma lo aveva addirittura
costretto a fare outing improvvisamente, durante la conferenza stampa
dell’Hamburg.
Senza pensarci troppo, alla domanda: “Schneider, come mai uno
bello come lei non ha ancora la ragazza?” il portiere lo
aveva baciato con passione, incurante – ma compiaciuto
– dei click delle macchine fotografiche attorno a loro. Karl,
dapprima contrariato, gli aveva poi preso il viso tra le mani e lo
aveva sovrastato.
Era pur sempre il Kaiser, doveva mantenere una parvenza
d’autorità.
Fame,
quell’atavico bisogno che partiva dallo stomaco e che
gorgogliava fino al cervello, impedendogli di pensare ad altro che al
cibo. Anche l’amore che provava per Genzo passava in secondo
piano quando Karl aveva appetito.
Le prime volte che Genzo aveva assistito ai pasti imperiali consumati
dal suo – apparentemente -composto ragazzo, era rimasto
basito: era impossibile che riuscisse a mangiare tutta quella roba con
tale foga e rimanere comunque magro. Col tempo ci aveva fatto
l’abitudine, fino a riuscire a pranzare con lui senza
sentirsi incredibilmente anoressico.
Una cosa, però, rimaneva certa: non lo avrebbe mai portato
fuori a cena.
Golia e
Davide, i personaggi biblici, spuntavano frequentemente nei loro
allucinati discorsi post sesso. Rimanevano ore svegli a parlare e molte
volte finivano per discutere a proposito dei rispettivi paesi.
Era stato il Kaiser a soprannominarli la prima volta Davide e Golia,
commentando la vittoria della nazionale nipponica sulla sua squadra con
un: “D’altronde, anche Davide era sfavorito,
piccolo e inesperto, eppure lo ha ammazzato, il gigante
Golia.”
Il portiere non aveva afferrato subito il paragone, ma poi era
scoppiato a ridere, pensando che lui non aveva avuto bisogno di una
fionda per far capitolare Schneider: era bastato un sorriso.
Hamburg
aveva diverse discoteche, una più bella
dell’altra. La migliore era “Grosse Freiheit
36” (1): ci andavano spesso, con la squadra, a festeggiare
qualche vittoria o semplicemente a fare casino, sebbene il capitano
odiasse i nightclub. C’era troppo rumore e poi lui era del
tutto negato a ballare, quindi rimaneva tutto il tempo incollato al
tavolino.
Questo fino alla sera in cui Genzo lo aveva preso per mano e trascinato
in pista, ignorando le sue proteste. Aveva fatto spallucce:
“Non c’è gusto, senza di te.”
Suo malgrado, il Kaiser si era sentito costretto a tornarci ogni volta,
in quel dannato posto.
Irritante e
invadente, questi erano gli epiteti più gentili che a volte
Karl si trovava ad associare a Hermann. Non era colpa sua se non
riusciva a pensare ai suoi due amici come a una coppia che aveva
bisogno di intimità, ma, semplicemente, era sempre in mezzo
alle palle quando il Kaiser aveva voglia di fare
qualcos’altro con il suo fidanzato, oltre che giocare alla
Play.
Spesso era tentato di urlargli dietro, poi desisteva, notando lo
sguardo di Genzo. Così faceva buon viso a cattivo gioco,
pensando che, in fin dei conti, si sarebbero rifatti più
tardi del tempo perduto.
Jeans,
quegli stupendi Jeans Levi’s, i preferiti di Genzo. Erano
molto belli: chiari, con dei piccoli strappi sulle ginocchia e
aderenti, tremendamente aderenti. Gli fasciavano il culo in un modo
così perfetto che era difficile per Karl staccarne gli occhi
e, anche se si sforzava, il suo sguardo tornava sempre sui quei glutei
sodi.
E alla domanda del portiere: “Che cosa stai guardando con
tanta insistenza, Karl, me lo puoi spiegare?” dissimulava,
con nonchalance degna di un attore professionista: “Nulla,
figurati.”
Nessuno avrebbe mai dovuto sapere che lo stoico e insospettabile
Schneider era in realtà un allupato di dimensioni cosmiche.
Kaiser era
l’ormai fantomatico soprannome di Karl che da anni circolava
nell’ambiente calcistico.
Genzo non sapeva chi fosse stato il primo a chiamarlo in quel modo, ma
concordava del tutto con Hermann sul fatto che il nomignolo gli
calzasse a pennello, non solo perché Schneider aveva un
carisma e una classe degna di un imperatore, ma anche per via della sua
alterigia e capricciosità, che lo facevano sembrare una
principessa viziata.
Si era trovato un po’ meno d’accordo con Kaltz sul
fatto che, come suo consorte fisso, il suo soprannome non avrebbe
dovuto essere Super Great Goal Keeper, bensì Kaiserin.
“Liebe
macht blind” (2) diceva spesso la madre di Karl, pensando al
grandioso amore tra lei e Schneider Senior, prima che i problemi si
accavallassero e creassero quella spaccatura così difficile
da ricucire che faceva soffrire tanto i figli.
La donna aveva preso Genzo in simpatia e gli raccontava di come fosse
stata cieca quando aveva sposato il grande calciatore, pensando che lo
sport non avrebbe creato barriere tra loro due.
Genzo annuiva, anche se non condivideva per niente quel proverbio: lui
vedeva ogni più piccolo, insignificante e sfumato difetto di
Karl ma, probabilmente, proprio per quello lo amava così
tanto.
Minare le
certezze degli altri e sbattere in faccia le loro debolezze era sempre
stata tra le pratiche preferite di Genzo: si divertiva come un matto a
sfottere e punzecchiare.
La sua sincerità esagerata urtava molti in Giappone, e anche
in Germania era stata notata dai suoi nuovi compagni di squadra, che ne
avevano sperimentato un po’ sulla loro pelle. Ma quando aveva
suggerito a Schneider di correre diversamente perché
sembrava una papera, questi lo aveva rimbeccato: “Non fare lo
stronzo con me, Wakabayashi, tanto sai che non attacca.”
Per la prima volta in vita sua, Genzo era stato zittito.
Nuotare, una
delle poche cose che il portiere nipponico non sapeva fare.
Avevano provato a insegnargli, ma non c’era stato verso:
finiva sempre e comunque mezzo affogato. A complicare le cose,
c’era anche il fattore paura: non lo avrebbe mai ammesso ma
era terrorizzato dall’acqua. Soprattutto, era terrorizzato
dall’acqua fredda.
Motivo per cui, quando avevano proposto una scampagnata al mare con
picnic sulla spiaggia e bagno corredato, si era sentito morire. Era
stato trascinato controvoglia su quella spiaggia, ma, con Karl in
costume accanto a lui, diafano e bellissimo, forse quella non era una
giornata del tutto buttata nel cesso.
“Oh
cazzo.” Questi due flebili suoni, usciti dalla bocca di Karl
con un tono a metà tra l’indispettito e il
rassegnato, erano bastati a far svanire tutta la magia che aleggiava
nella stanza in quel momento. Genzo aveva grugnito, contrariato
perché l’altro aveva smesso di dedicare quelle
piacevoli attenzioni linguistiche al suo ombelico, ma non aveva avuto
bisogno di girarsi per capire cosa avesse distratto il capitano dalla
sua importante occupazione.
Era stato sufficiente il commento piatto e disincantato di Schneider:
“Kaltz, chiuditi la mascella e levati dalle palle, per
favore. Non vedi che siamo occupati?”
Sbuffò: erano stati sgamati.
Passione e
perfezionismo, due elementi che li accomunavano.
Erano entrambi esigenti con loro stessi e per questo si trovavano ogni
pomeriggio al campetto, per allenarsi.
Schneider provava e riprovava il suo FireShot, rendendolo sempre
più potente.
Genzo invece saltava, si buttava, cadeva, falliva e si rialzava,
tentando di bloccare quel tiro micidiale.
Venne il giorno in cui lui riuscì a fermare la palla prima
che superasse la linea bianca di porta.
Quel pomeriggio il Kaiser gli si avvicinò e disse, un attimo
prima di baciarlo: “Ben fatto, Wakabayashi.”
Da allora i loro incontri si fecero molto più frequenti e
appassionati.
“Quanti
giorni sono che non fate il bucato, ragazzi?” commentava
schifato Hermann quando trovava cumoli di panni da lavare negli angoli
più insospettabili.
Sia Schneider che Genzo erano spaventosamente disordinati: da bravi
bambini viziati, non erano avvezzi ai lavori domestici ed sembravano
due bradipi tanto erano pigri.
Quando se ne erano andati di casa, avevano detto che “se la
sarebbero cavata da soli”. O con l’aiuto di un
amico, comunque. Fatto stava che Kaltz, irrimediabilmente schiavizzato,
doveva passare da loro almeno una volta alla settimana per fare una
lavatrice, altrimenti l’Ufficio d’Igiene, allertato
dalla puzza, avrebbe arrestato i due inquilini.
Russava, il
suo fidanzato, e anche in modo piuttosto vigoroso.
Aveva il sonno più pesante di un macigno, si agitava, tirava
calci e agitava le braccia come un forsennato.
Non che non fosse carino, eh: quando dormiva i suoi lineamenti si
rilassavano e sembrava tranquillo, angelico, quasi, con quella pelle
diafana e i capelli biondi.
Non era carino, era bellissimo, e lui non si stancava mai di ammirarlo,
dal suo lato del letto.
Soltanto, alla quinta volta in una notte che si svegliava per i rumori
molesti, Genzo si chiedeva chi gliel’avesse fatto fare, di
andare a convivere con Karl.
Schuster e
Margas erano ormai delle presenze fisse nella loro vita.
Spesso, Karl prendeva e andava da Franz, per aiutarlo a risolvere
l’ennesimo problema con Manfred; non aveva bisogno di dire
dove stesse andando, bastava un’occhiata eloquente a Genzo,
accompagnata dal nome Schuster, ed era tutto chiaro.
Quando Schneider era occupato a sbrigliare le seghe mentali del
regista, Margas non doveva essere presente: così passava dal
numero uno dell’Hamburg. Per non farlo sentire solo, si
giustificava, ma Genzo sapeva perfettamente che anche lui aveva bisogno
di sfogarsi.
Così si ritrovavano a sparlare dei propri fidanzati, con una
birra in mano.
Tsubasa era
la persona più stupida e ottusa che avesse mai incontrato.
Kojiro Hyuga compreso.
Per carità, Genzo stimava Ozoora: era un giocatore
fantastico, ma non brillava certo per intelligenza e presenza di
spirito.
Eppure in quel frangente aveva sperato che il neurone solitario del
capitano giapponese riuscisse a connettere e ad assimilare
l’informazione.
Ma, ovvio, non era stato così.
Quando aveva appreso che Wakabayashi e Schneider stavano insieme,
Tsubasa aveva sfoggiato l’espressione più
ritardata del suo repertorio e aveva chiesto, candidamente:
“Stanno insieme in che senso?”
Genzo dovette impedire fisicamente a Kaltz di fargli un disegnino
esplicativo.
Uno, il
numero del primato.
Il numero uno troneggiava sulla schiena di Wakabayashi e, raddoppiato,
su quella del Kaiser.
Sia Karl che Genzo avevano sputato sangue per raggiungere il massimo e
meritare l’appellativo di “numeri uno”:
avevano fatto enormi sacrifici per raggiungere il loro obiettivo, ma,
alla fine, ce l’avevano fatta.
Schneider aveva riabilitato il suo cognome nell’ambiente
calcistico e Genzo si era affermato come grande portiere anche in
Germania.
Ma, sulla vetta, avevano capito che l’eccellenza non serve,
se non puoi condividere le tue gioie con qualcuno. E loro, due numeri
uno, si erano incontrati, per formare una coppia.
Vincere la
finale contro Karl era stato incredibile.
Sapeva sarebbe stato divertente – la rivalità tra
di loro non si era mai assopita – ma non aveva idea che, dopo
la vittoria, si sarebbe sentito in colpa.
L’adrenalina gli scorreva nelle vene e i tifosi lo esaltavano
ancora di più, ma era quasi insopportabile la vista della
testa bionda di Karl china verso il terreno.
Poi Schneider aveva urlato: “Smettila di fare quel muso e
festeggia, idiota!”, tutte le remore erano andate a farsi
fottere e aveva promesso che quella vittoria gliel’avrebbe
rinfacciato a vita, a quel pallone gonfiato del suo ragazzo.
Wüster
e crauti era stato il primo piatto tipico tedesco che aveva assaggiato.
Genzo da sempre amava la carne, ma in Giappone questo alimento veniva
utilizzato poco, per cui aveva dovuto farne a meno.
Quando era approdato in Germania aveva trovato la terra dei suoi sogni:
praticamente ogni pasto era a base di carne. E quando Kaltz gli aveva
messo davanti i wüster per la prima volta, ne era rimasto
estasiato, decidendo di eleggere quel piatto come suo favorito.
Inutile dire quale tipo di battute avesse sollevato questa passione,
una volta venuta alla luce la sua storia con il Capitano.
“X-mal.”
(3) fu la risposta di Karl quando il suo fidanzato gli chiese, in un
momento di intimità: “Lo rifaresti?”
“Rifare cosa?”
“Metteresti ancora in gioco la tua carriera, il legame con la
tua famiglia, i rapporti con la squadra pur di stare con me?”
Era serio, Genzo, per una volta.
Il biondo lo aveva guardato in tralice: “Che razza di domande
fai?”
“Quindi la risposta è sì.”
Genzo aveva ghignato soddisfatto e compiaciuto, riacquistando quella
spacconeria che gli era caratteristica.
“Lo sapevo: non puoi fare a meno di me.”.
Schneider aveva sbuffato, piccato: “Sei un idiota. Lo rifarei
mille volte.”
“You
don’t have to be rich to be my boy! You don’t have
to be cool to rule my world!” (4) gorgheggiava Genzo sotto la
doccia, nonostante Karl lo supplicasse di risparmiargli lo show.
In risposta alle sue lamentele, il giapponese alzava il volume della
voce, aggiungendo colore alla performance con mosse stile Michael
Jackson, finché il Kaiser, esasperato, non spalancava la
tendina della vasca e ringhiava:
“Wakabayashi, o la pianti o passo alle vie di
fatto!”
Al che, il portiere, malizioso, lo trascinava sotto l’acqua e
lo baciava.
“Non aspettavo altro.”
Karl ghignava: quel trucco riusciva sempre a farlo tacere.
Zucche,
zucche e ancora zucche. Zucche dappertutto!
Era il primissimo Halloween che festeggiava, ma sapeva che sarebbe
stato anche l’ultimo.
Non riusciva a capacitarsi di come si fosse lasciato convincere da
Marie – microscopica ma sadica fotocopia del fratello
– a giocare con lei e le sue amiche ai travestimenti.
Solo a tarda sera il Kaiser aveva recuperato il suo fidanzato, con una
dose abbondante di ombretto sulle palpebre.
Dopo che ebbe salvato il portiere, Karl gli sussurrò
all’orecchio: “In questo momento il soprannome
Kaiserin ti si addice proprio, sai?”
Dopo questa infelice uscita, Schneider rimase in astinenza forzata per
una settimana.
Ventisei sono le lettere dell’alfabeto e ventisei sono le
lettere che compongono quella frase che aleggia tra Genzo e Karl, che
racchiude tutto il loro amore.
„Ich liebe
dich, mein lieb Gegner.“ (5)
Note:
(1). Locale esistente nella realtà ad Hamburg
(2). Proverbio equivalente al nostro “l’amore
è cieco”
(3). Letteralmente “un numero imprecisato di
volte”, qui assume il significato di “mille
volte”
(4). Indovinate che canzone sta cantando
Genzo?
Massì, proprio Kiss di Prince^^ Per esigenze di trama ho
cambiato girl in boy.
(5). Ti amo, mio caro avversario. Questa frase è composta da
26 lettere, e la frase precedente da 26 parole! xD
*.*
E dopo questo, posso definitivamente affermare che i pochi neuroni che
sopravvivevano a stento nel mio cervellino baKato di fangirl si sono
sterminati tra loro, vittime di un meccanismo omicidio-suicidio che si
è innescato non appena la sottoscritta, arrivata alla
lettera G, ha cominciato ad avere crisi di isteria.
Lo so, ho iniziato a sclerare fin troppo presto, ma comprendetemi,
questo è il mio approdo sul fandom di CT e non ho mai
slashato nessuno prima d’ora ù.ù
Eppure, dopo numerose maledizioni lanciate al mio povero computer
– che, per una volta, non c’entrava nulla
– e diversi insulti in direzione di Pucchyko_girl (Pucchy non
me ne abbia male), ci sono riuscita: ho finalmente concluso questo
delirio.^^
Come avrete notato, non tutte le drabble sono ambientate durante la
relazione tra i due piccioncini, ma ci sono diversi stralci del loro
rapporto prima della lettera P.^^
Ho inserito diverse parole in tedesco, in primis il nome di Amburgo,
Hamburg, perché credo sia giusto lasciare i nomi originali
alle città. Il titolo è l’accostamento
dei due termini che traducono, rispettivamente in tedesco e giapponese,
la parola alfabeto.
Per altre traduzioni vi rimando alle note^^
Non sono pienamente soddisfatta del risultato, devo dire: non mi sembra
di padroneggiare benissimo i due personaggi e di sicuro il mio lavoro
è mooooolto inferiore agli altri ispirati a questa
Challenge. Ci ho messo però il cuore, impegnandomi a fondo e
non gettando la spugna. Da questo punto di vista sono abbastanza fiera
di me stessa! xD
Questa fic è dedicata a Pucchyko_girl, che ha ideato questa
fantastica tortura e che mi ha brillantemente iniziata al mondo dello
slash in CT. La lettera S in particolare è stata scritta per
lei.
Grazie, Pucchy.
E io neppure ti conosco… Vabbè.
E grazie anche a tutte le altre autrici (Melanto e Maki, le ideatrici
di ELF, kitsune999, berlinere e altre) che mi hanno trasformata in
slasher convinta ù.ù
Elena
Commenti bene
accetti, anzi graditi *smile*
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