E
alla fine venne il giorno.
Purtroppo.
Nonostante fosse
tornato a dormire appena da qualche ora, con la speranza di
risvegliarsi dopo l’incoronazione, quando Hanzo aveva aperto
gli occhi si era reso conto che la realtà era ben diversa ed
era giunta l’ora di fare i conti con le
responsabilità che aveva tentato inutilmente di tenere
nascoste nei meandri della propria mente per anni consumando
inesorabilmente le poche forze che il suo stile di vita gli aveva
lasciato: appena qualche ora ed avrebbe avuto in mano le redini di un
intero pianeta, avrebbe dovuto iniziare a sedere all’Aeternum
insieme agli altri consiglieri ed ai propri genitori, a smettere di
essere così dannatamente impulsivo per riuscire a guidare un
esercito in guerra.
E ne era terrorizzato,
lo era sempre stato: il terrore, quello reale, Hanzo non lo aveva mai
provato veramente, nemmeno quando aveva toccato il fondo più
profondo che conosceva, eppure la paura di non essere
all’altezza lo stava soffocando dal primo istante in cui
aveva messo piede nella sala del trono, ed era la stessa sensazione che
ora avrebbe bussato alla porta della sua coscienza.
Fortunatamente la
porta alla quale sentì bussare fu ben altra, e
cioè quella della sua stanza:
«Buongiorno
Vostra Altezza Reale, con permesso.» annunciò una
voce maschile poco prima di entrare chiudendosi la porta alle spalle
accompagnando il tutto da un sonoro tintinnio metallico; Hanzo aveva
impiegato giusto qualche minuto per mettere a fuoco la losca figura che
aveva temuto trattarsi di suo padre, ma quando aveva messo a fuoco la
cosa aveva anche tirato un profondo respiro di sollievo: Daisuke era
ben lungi dall’essere l’Imperatore in persona, lui
era più l’umile servo che suo padre gli aveva
regalato come dimostrazione che se voleva iniziare ad immedesimarsi
nella vita di corte avere uno schiavo personale era il minimo.
Se non fosse che ad
Hanzo fregava di tutto tranne che di continuare a sfogare le proprie
frustrazioni su qualcuno che non fosse il vecchio Bone, per cui si
limitava a fargli fare qualcosa quando ne aveva davvero bisogno e
comunque, sinceramente parlando, non riusciva nemmeno a far fare ad
uomo di mezza età ciò che avrebbe benissimo
potuto fare lui con la metà dello sforzo.
Quella mattina
però, per quanto si fosse sforzato a fare presa con il
braccio sulla parete, Hanzo aveva dovuto fare affidamento al vecchio
servitore per riuscire ad alzarsi e mettersi in piedi, anche se a
giudicare dalla fitta lancinante che gli aveva percorso la gamba
arrivando fino alla spalla nell’istante in cui
l’aveva poggiata a terra forse sarebbe stato decisamente
meglio dormire ancora un po’:
«Vi sentite
bene, mio signore? Volete che chiami il medico di corte?» gli
aveva chiesto senza lasciarsi sfuggire la smorfia di dolore apparsa sul
suo volto per qualche secondo, ma se c’era una cosa che Hanzo
voleva evitare era di essere compatito, non in quel giorno:
«Non ho
intenzione di vedere nessuno, vedrò fin troppa gente oggi:
piuttosto dammi quella fottutissima armatura e facciamola finita una
volta per tutte con questa dannata cerimonia, mi si stanno
scartavetrando le palle a furia di pensarci.» gli
ordinò trascinandosi non senza fatica fino alla finestra per
crogiolarsi ancora qualche istante nella vita da persona normale.
Più o meno
normale, va beh.
L'uomo lo aveva
guardato con uno sguardo confuso per qualche istante tuttavia, quando
aveva capito che Hanzo era irremovibile sulle sue posizioni, si era
prontamente ritirato nell’insistere:
«Comprendo
la vostra intenzione di non chiedere nulla, mio signore, ma avete
bisogno di aiuto per indossare la vostra armatura? La vostra spalla non
è ancora completamente guarita, non vorrei che un eccessivo
sforzo possa compromettere la guarig…»
«Sto bene,
ti ringrazio per l’interessamento ma sto bene: vai pure,
penso di essere ancora in grado di vestirmi da solo.» rispose
stizzito senza nemmeno degnarlo di uno sguardo, così
l’altro si limitò ad un breve inchino e si
dileguò velocemente.
Compassione, ecco
cos’era quella sensazione, pura e caritatevole compassione
verso la sua persona: d’altronde poverino, lui era quello
cresciuto con disturbi mentali perché non aveva ricevuto
l’amore di una famiglia, quello che era passato dal freddo
cemento di una cella ad un letto imbottito con le piume recuperate
dalla muta stagionale delle fenici e cuscini tessuti con la soffice
pelliccia dei branchi di honoki delle stalle reali.
La gente parlava e
Hanzo, suo malgrado, la sentiva fin troppo bene.
E
faceva male.
Ma avrebbe cambiato le
cose quel giorno, sarebbe riuscito a far capire che lui non era
ciò che tutti avevano creduto che fosse fino ad ora: lui era
il figlio dei sovrani del pianeta, era il principe ereditario di Iga,
non il criminale che le persone si ostinavano a vedere, non del tutto
almeno.
E forse era stato
proprio per dimostrare a se stesso di essere cambiato davvero che si
era ostinato a volersi infilare in quel groviglio di acciaio e oro da
solo, senza dover fare affidamento su nessuno che non fosse se stesso,
il tutto nonostante le fitte che sentiva ad ogni più piccolo
movimento del braccio: Daisuke aveva ragione nel dire che non si era
ancora ristabilito del tutto, ma l’idea di doversi abbassare
al chiedere aiuto ad un servo gli faceva ghiacciare il sangue nelle
vene, soprattutto quel giorno, quello in cui avrebbe dovuto dimostrare
ad un intero pianeta la propria volontà di diventare il
sovrano di un cumulo di roccia, uccelli abnormi e unicorni alati
parlanti.
Eppure, per quanto
fosse disturbato da quello spiacevole pensiero, alla fine aveva dovuto
cedere quando aveva sentito un dolore lancinante in mezzo al petto che
lo aveva fatto piegare in due da quanto era stato intenso: non oggi,
non adesso, pensò fra sé e
sé, vedi di
resistere almeno qualche ora, poi possiamo anche morire e dimenticarci
tutto.
Aveva impiegato
qualche minuto per riuscire a rimettersi in piedi e ritrovare
l’equilibrio, poi si era deciso a chiamare Daisuke sperando
che fosse ancora nei paraggi per dargli una mano a indossare quella
fottutissima armatura che suo padre aveva tanto preteso di vedergli
addosso:
«Avrai anche
il sangue di tuo padre nelle vene, ma la testardaggine l’hai
presa decisamente dal sottoscritto, e se devo essere sincero mi
commuove questa notizia.» aveva sentito dire da una voce che
non era chiaramente quella del servo, che tra l’altro non si
sarebbe mai potuto permettere certe osservazioni senza rischiarci una
mano.
E infatti era suo
nonno Akihiro che lo guardava stizzito con le braccia incrociate
standosene comodamente poggiato sullo stipite della porta di ingresso
della sua stanza:
«Finirai per
ammazzarti se continui ad essere così ostile al farti
aiutare da qualcuno che non sia tu, te stesso e te medesimo,
è così difficile da capire?»
domandò ottenendo come risposta solo un sospiro annoiato, ma
Hanzo non sembrava interessato a parlare anche con lui:
«Se sei
venuto a farmi la predica anche tu puoi anche risparmiartela, non
voglio sentire un’altra persona che viene qui a raccomandarmi
di seguire tutto questo teatrino, penoso aggiungerei.»
rispose malamente continuando imperterrito a fare ciò che
stava malamente facendo.
L’uomo non
si era fatto problemi ad entrare chiudendosi la porta alle spalle senza
fare rumore, poi si era avvicinato al nipote e gli aveva preso di mano
il pezzo dell’armatura nera che stava ancora maneggiando con
una certa insicurezza:
«Vuoi una
mano o preferisci fare da solo? Non vorrei essere nei tuoi panni se
dovessi arrivare in ritardo, soprattutto con Ignis in giro.»
disse ridendo, umorismo che però Hanzo non riuscì
proprio a cogliere nonostante ci avesse anche provato:
«Sono
abbastanza grande da essere capace di infilarmi nei vestiti con le mie
mani, non sopporterò l’umiliazione di essere
ricordato come quello che non è nemmeno riuscito a indossare
la propria armatura, non so se tu e il tuo perbenismo lo
capite.» rispose malamente facendo per riprendersi
ciò che gli era appena stato tolto, ma il solo sbilanciarsi
per allungarsi un po’ gli aveva provocato una fitta
all’anca che per poco non lo aveva fatto spiaccicare male a
terra, ma fortunatamente Akihiro ebbe la prontezza di tendergli la mano
per aiutare a riprendere l’equilibrio:
«Allora, la
vuoi una mano o no?» chiese un’ultima volta,
l’ennesima durante la quale calò il silenzio.
Non
avrebbe dovuto
accettare, non doveva farlo: era capace di fare tutto da solo, non
serviva l’aiuto di qualcuno che non fosse lui stesso per
assolvere un compito così stupido, lo avrebbe dimostrato a
tutti, si sarebbe ripreso il minimo di dignità che gli
spettava.
E invece no, come per
un gesto involontario aveva annuito tenendo la testa bassa, abbastanza
per non incontrare lo sguardo di pietà dell’altro
ma non tanto da risparmiargli quella scena pietosa: aveva cercato di
annullare ogni sensazione che fosse umana quando aveva sentito il
freddo pungente scavare solchi invisibili sulla pelle nuda, di
estraniarsi da quell’involucro vuoto che si trascinava dietro
da ventisette anni e di rifugiarsi solo per qualche istante in un
angolo buio della sua mente che teneva sgombro dal suo tormentato
passato, ma nonostante lo sforzo quando l’acciaio gli aveva
sfiorato la profonda cicatrice rosea e lucida che attraversava
diagonalmente il petto la sua coscienza era tornata al suo posto e,
come era solita fare, aveva iniziato a tormentarsi riportando a galla
troppi ricordi.
Mentre
l’altro gli sistemava un pezzo di metallo dopo
l’altro, Hanzo era impegnato a chiedersi se anche suo nonno
si fermasse davanti ad ogni singolo taglio che gli si presentava
davanti come invece aveva fatto Mizuki la prima volta che lo aveva
visto: sommergerlo di domande non era certo stato il modo migliore per
approcciarsi con il figlio che non vedeva da ventidue anni, eppure non
si era fatta problemi a rigirare il coltello nelle ferite fino a quando
non era riuscita ad annichilire quel poco di dignità che
sette anni di catene gli avevano concesso di tenersi.
Akihiro no, lui
sembrava stranamente a suo agio con il nipote che non aveva mai
conosciuto, non faceva domande né richiedeva risposte che
sapeva già non avrebbe avuto, e ad Hanzo la cosa andava
più che bene, almeno quel giorno:
«Abbiamo
quasi finito, ancora un po’ di pazienza e ti lascio
libero.» gli aveva detto mentre stringeva e bloccava con cura
la placca pettorale dell’armatura nemmeno fosse il corsetto
di una nobildonna di altri tempi, forse anche con troppa cura a
giudicare da quanto stava stringendo:
«Devo
allentare la presa o va bene?» si permise di domandare con
prudenza notando che forse era decisamente troppo stretto ma Hanzo,
forse per rispetto dell’unica persona che sembrava capirlo o
forse per semplice noia, aveva scosso la testa limitandosi a trattenere
il respiro un po’ più del solito, il tutto
ovviamente senza proferire parola.
Alla fine della
complicata operazione, durata poco più di una ventina di
minuti con l’aiuto di suo nonno rispetto all’ora
buona che avrebbe impiegato se avesse deciso di fare tutto da solo,
Hanzo aveva sentito l’ansia pre-incoronazione attanagliargli
lo stomaco più di quanto avesse fatto fino a quel momento
perché adesso
non si tornava più indietro, non
c’era modo né voglia di farlo.
E, per quanto si
stesse sforzando di nascondere la preoccupazione, l’altro
l’aveva notata già da un pezzo, motivo per cui
stava già ponendo rimedio:
«Sbaglio o
qui qualcuno sta pensando di non varcare la porta della propria
camera?» chiese dandogli una pacca sulla spalla che per poco
non lo aveva fatto sobbalzare
«Non
è così difficile ciò che devi fare:
arrivi, fai un’entrata trionfale, te ne stai in piedi qualche
decina di minuti ad ascoltare tua madre che ti legge il giuramento,
dici due cazzate in croce per convincere gli ambasciatori, che in un
modo o nell’altro ti accetteranno per forza di cose alla
guida di Iga, e prendi la spada che ti spetta, assicurandoti che tuo
padre te la passi per l’elsa piuttosto che per la lama,
quell’uomo farebbe di tutto per non vederti costantemente
seduto sul tuo regale trono.
Semplice no? Devo
ripeterti qualche passaggio?».
No, non avrebbe dovuto
ripetere nulla, odiava l’idea di dover far
perdere altro
tempo a suo nonno, che sicuramente aveva in mente progetti ben
più interessanti dello stare ad ascoltare le lagne di un
povero disgraziato come suo nipote: perché Hanzo non era
interessato a parlare, non voleva fare o sentire nulla che non fosse lo
starsene da solo rinchiuso fra quelle quattro mura che, almeno fino ad
ora, non gli avevano fatto mancare nulla.
Nulla, certo, nulla se
non la sensazione di essere a casa, quella non l’aveva mai
avuta.
Poi, proprio quando
l’altro era intento a continuare a parlargli voltato di
spalle e girovagando per la stanza, gli era improvvisamente caduto lo
sguardo su una delle spade solitamente appese alla parete fra le quali
una, forse per uno strano scherzo del destino, era invece poggiata su
un tavolino distante nemmeno un braccio: se avesse allungato la mano
probabilmente sarebbe riuscito ad afferrarla, e nel caso…
no, non doveva pensare a quel genere di cose, non ancora.
O forse sì,
chissà… di certo nessuno avrebbe sentito la sua
mancanza, i suoi genitori no di certo, magari Chiharu si sarebbe messa
a versare qualche lacrima, ma alla fine lo avrebbe dimenticato come si
dimentica il primo amore: nessuno era indispensabile, nemmeno lui.
Non capì se
era stato l’istinto a muovergli le dita per stringere
l’impugnatura fino a quando le nocche non avevano iniziato a
fargli male, come anche non seppe mai quale voglia primordiale di
mettere fine alla sua vita lo avesse assalito proprio ora che aveva
tutto ciò che poteva desiderare, stava di fatto che si era
trovato in modo quasi inaspettato gli artigli di ghiaccio
dell’acciaio che abbracciavano il calore del sangue mentre la
carne molle faceva spazio a quella danza mortale della quale Hanzo non
sembrava nemmeno consapevole, almeno a giudicare dal suo sguardo perso
nel vuoto.
Uccidersi avrebbe
risolto tante cose, anche troppe: Chiharu non avrebbe più
dovuto nascondersi e avrebbe potuto trovare qualcuno da amare alla luce
del Sole, Soichiro non si sarebbe più preoccupare che
qualcuno gli rubasse la corona, Mizuki forse sarebbe tornata ad
occuparsi delle sue sacerdotesse piuttosto che di quella palla al piede
che lui era diventato con il tempo, magari anche Akihiro avrebbe
trovato sollievo nel dedicarsi a qualcosa o qualcuno di più
vivo di suo nipote.
Hanzo voleva solo
morire, morire e basta, non avrebbe chiesto nulla di più.
E sarebbe anche
riuscito nel suo intento se l’altro non si fosse girato per
il rumore metallico che aveva sentito e gli avesse stretto il polso in
una morsa che gli aveva fatto cadere la spada dalle mani: avanti, non
poteva nemmeno morire in pace?
Perché
tutti lo volevano vivo?
Perché
tutti dovevano decidere cosa fare della sua vita, tutti
tranne lui?
Akhiro lo aveva
sbattuto con una violenza che non pareva appartenergli contro il muro
tenendolo inchiodato alla parete senza curarsi del sangue che colava
sul metallo lucido dell’armatura disegnando intricate forme
rosso vivo:
«Cosa
diavolo ti salta in mente? Cosa vuoi dimostrare?» gli
urlò in faccia afferrandogli il mento per costringerlo a
guardarlo, ma quell’aria assente continuava a persistere:
«Ti vuoi
ammazzare? E’ questo ciò che vuoi? Rispondimi!
Fallo o giuro che ti ammazzo io!» gli chiese furioso mollando
la presa e costringendolo a cercare qualcosa per reggersi che potesse
compensare l’improvviso calo di pressione che gli aveva fatto
perdere le forze per un istante che era parso infinito ad entrambi.
Ed era proprio mentre
Hanzo si accingeva ad afferrare più o meno saldamente il
bracciolo della poltrona lì vicina per rimettersi in piedi
che aveva sentito fin troppo chiaramente la mano di Akihiro schiantarsi
con una certa violenza contro la sua guancia in uno schiaffo che,
umiliazione più umiliazione meno, lo aveva quasi fatto
crollare in ginocchio:
«Non ti
azzardare mai più a buttare via la tua vita in un modo
così dannatamente stupido, abbi un minimo di rispetto per te
stesso almeno!» insistette mantenendo l’aria severa
di poco prima, ma era durata ben poco quando l’altro era
riuscito a rialzarsi alla bene e meglio ed aveva incontrato il suo
sguardo accusatorio:
«Smettila di
farti del male Hanzo, per favore: hai già abbastanza
cicatrici da sfoggiare, probabilmente anche più di quante ne
abbia tuo padre, non meriti altri dolore, non oggi.»
Oh invece
sì che lo meritava, lo aveva sempre meritato: lo meritava
quando era venuto al mondo senza chiederlo togliendo a sua sorella e
suo fratello il diritto al trono, lo meritava quando era sopravvissuto
ad entrambi, lo meritava quando era riuscito a farla franca anche dal
carcere grazie ai complotti tra una lucertola abnorme e quella
marionetta di suo padre.
Aveva sempre meritato
di soffrire, lo sapeva fin troppo bene, ma Akihiro aveva
tutt’altra idea su cosa suo nipote si meritasse dalla gabbia
dorata in cui lo avevano rinchiuso:
«Ciò
che sei non è colpa tua, anche se probabilmente tuo padre
pensa il contrario: ora che ci penso mi ha sempre rimproverato di aver
conservato i geni giusti per te piuttosto che per lui.»
osservò lasciandosi scappare una risata;
«Geni
giusti? Tu li chiami seriamente
geni giusti?
Se papà vuole i
miei poteri glieli cedo volentieri, non è che mi servano a
molto negli ultimi tempi, in realtà non me ne sono mai
fat-»
«Oh
sì, decisamente
giusti, abbastanza perché non ti
abbiano ancora ucciso male come è successo a qualcuno dei
tuoi antenati, ma smettiamola di preoccuparci del passato e
preoccupiamoci più del fatto che stai sanguinando come se
non ci fosse un domani: avanti, stai fermo e fammi vedere quella
fottuta gola prima che ti cada per terra la trachea.»
asserì afferrando un pezzo di stoffa che aveva trovato
lì vicino e avvicinandosi ad Hanzo per fermare almeno la
perdita di sangue.
O almeno lo avrebbe
fatto se per ogni passo che l’altro faceva per avanzare lui
ne faceva uno indietro fino a quando non si era trovato con la schiena
al muro:
«Non credo
ce ne sia bisogno, davvero: sto bene no? Sono vivo, vivo e vegeto, non
c’è bisogno di insistere con il dover controllare
chissà cosa, sul serio.» fece notare
mentre la
mano che teneva premuta contro la gola si colorava di dense gocce
rosso-bluastre che strisciavano fra le dita;
fu allora che Akihiro,
con un’espressione a metà fra il compiaciuto e
l’ammiccante, gli si avvicinò ulteriormente
afferrandogli il polso noncurante del sangue che colava:
«Cosa
c’è Hanzo, qualcosa che non dovrei sapere
forse?» domandò mentre il poveretto,
nel vano
tentativo di sopportare quello sguardo accusatorio, stava letteralmente
sbiancando:
«Non
c’è nulla, non ho nulla: ora, con il
tuo permesso,
devo andare perché si sta facendo tard-»
«Oh no, non
è mai troppo tardi per assicurarsi che il proprio nipote
stia bene: sposta la mano avanti, non fare il bambino!»
«Ma
perché? Ti ho detto che sto bene!»
«Smettila o
te la stacco quella mano!»
«No! Ho
detto di no ed è no!»
«Taci e fai
la persona adulta, è solo una dannata mano! Se non hai nulla
da nascondere allora fammi vedere la tua fottutissima gola!»
«Non ho
intenzione di cedere a certi ricat-»
E invece Hanzo
cedette, oh se lo fece, soprattutto quando suo nonno gli aveva stretto
così tanto il polso che aveva sentito un brivido freddo
corrergli lungo il braccio; l’uomo lo aveva guardato
incrociando le braccia e annuendo soddisfatto e, al contrario di
ciò che pensava Hanzo, del tutto poco sorpreso dalla
situazione:
«Come
pensavo, non sei così stupido da suicidarti inutilmente,
d’altronde…» gli disse tastando con la
mano la pelle ed i muscoli macchiati di sangue che lasciavano
intravedere delle striature bianco avorio che, anatomicamente parlando,
non avrebbero dovuto trovarsi lì:
«Tu
sapevi
fin dall’inizio che non saresti morto.»
Il
gelo.
Silenzioso, cupo
e irritante gelo.
E quella faccia
soddisfatta, era quella ciò che gli stava facendo
accapponare la pelle: lui sapeva, sapeva tutto, Akihiro aveva sempre
saputo tutto.
Ma non gli aveva detto
nulla, né aveva lasciato intendere che fosse a conoscenza di
qualsiasi cosa che non avrebbe mai dovuto sapere: aveva osservato, lo
aveva lasciato fare e niente, gli aveva fatto capire che se Soichiro
fosse venuto a conoscenza di quello probabilmente avrebbe anche potuto
trovarsi un altro posto in cui vivere, o meglio sopravvivere.
E forse fu proprio per
quel terrore che Hanzo cercò rifugio premendo la schiena
contro il muro fino a quando non sentì le vertebre imprecare
per il trattamento che gli stava riservando, il respiro che gli si
smorzava in gola e gli occhi sbarrati nemmeno fosse un cerbiatto
davanti ai fari di un’auto che lo stava per investire;
Akihiro, a giudicare dall’espressione confusa e dispiaciuta
che aveva assunto, aveva colto le condizioni psicologicamente pietose
in cui versava il nipote:
«Se la tua
paura è che dica a tuo padre di quello che sta avvenendo qua
dentro smettila di preoccuparti, a differenza sua non sono il genere di
persona interessata a rovinare la vita agli altri» lo aveva
rassicurato togliendogli un gran peso dallo stomaco e permettendogli di
tornare a respirare più o meno normalmente.
Ma era chiaro che non
si era lasciato scappare la cosa, ovviamente:
«Da
quanto?» domandò secco lasciandogli il tempo per
capire e rispondere alla domanda, ma la verità era che Hanzo
sapeva già cosa voleva e pretendeva di conoscere adesso;
dopo qualche istante di esitazione si era convinto che continuare a
stare sulla difensiva sarebbe stato inutile quanto controproducente per
lui e per la fiducia che suo nonno sembrava disposto a dargli,
così si decise a rilassarsi e sedersi sul letto con lo
sguardo verso il pavimento:
«Sette anni,
mese più mese meno… è stato sette anni
fa, ma brucia come allora: lo fa sempre, ogni dannata volta, quella
fottuta… cosa o come diavolo si chiam-»
«Osteogenesi
rigenerativa, prego, diamo il giusto nome alle cose» lo
interruppe ridendo, ma Hanzo non sembrava troppo d’accordo
con quell’interruzione:
«Come? Da
quando sei anche medico?»
«Ammetto di
non conoscere la medicina, ma se c’è una cosa che
conosco fin troppo bene sono le conseguenze dei tuoi poteri, o almeno
di ciò che ne rimane, che poi sono anche i miei
quindi beh, ne so abbastanza per dirti che sei già fortunato
a non essere morto per un polmone perforato da una costola che si
è ramificata decisamente troppo, tutto qui.»
spiegò come se quelle parole avrebbero dovuto dargli
sollievo
«Purtroppo
per me non ho tutte queste qualità nipote caro, i miei
poteri si sono limitati a rendermi un sociopatico che ha instaurato una
tirannia su Iga per decenni, ma non so quanto avrei voluto essere al
tuo posto per farmi crescere ossicine random senza control... ti sto
mettendo a disagio, vero?
«Abbastanza.»
rispose semplicemente distogliendo lo sguardo.
In quella situazione
non era ben chiaro chi fosse più imbarazzato dal discorso
fra i due, ma alla fine fu Akihiro a rompere nuovamente il ghiaccio:
«Allora la
smetto, mi dispiace figliolo ma è passato tanto tempo dalla
mia incoronazione e ricordare gli sguardi della gente quando ha capito
che sarebbe stata la pecora nera della famiglia a dettare legge sul
pianeta non è piacevole nemmeno per me, sono cose che ho
pregato e pregherai anche tu di scordare... quegli sguardi.»
si scusò mentre i suoi occhi assumevano una piega di
malinconia che durò poco più di un secondo,
sostituita subito dopo da un sorriso che, se era seriamente falso,
allora era davvero ben falsificato:
«Dimmi un
po', hai un cavallo con il quale arrivare al tempio per la cerimonia?
«Sì,
certo, ho Aerand-»
«Aerandir
è il cavallo di tua madre, non vale.»
«L’ho
sempre cavalcato io, è il mio caval-»
«Solo
perché lei gli ha ordinato di farsi cavalcare, non credere
che quell’equino ti sarà fedele:
certamente, se
Mizuki gli dice di proteggerti e diventare il tuo animale domestico lui
lo fa, ma non è a te che ha giurato fedeltà,
capito?» domandò mentre l’altro lo
guardava confuso e amareggiato allo stesso tempo: avanti, ora non aveva
nemmeno un cavallo tutto suo?
Akihiro
però aveva la soluzione a tutto, anche alla mancanza di una
cavalcatura:
«Non
arriveremo al lago Yuna in tempo se andiamo a piedi, e di certo
l’erede al trono non può arrivare senza nemmeno un
animale da sella: che dici, facciamo attendere la plebe e andiamo a
procurarcene uno, Vostra Maestà?» propose
entusiasta.
Hanzo non aveva
nessuna dannatissima idea di cosa suo nonno avesse in mente, ma il solo
fatto di ritardare ulteriormente quell’umiliante cerimonia
gli aveva fatto salire un’improvvisa voglia di rischiare la
pelle in chissà quale impresa così, dopo aver
dato un’ultima sistemata all’armatura ed essersi
assicurato che fosse tutto al proprio posto, aveva seguito
l’altro fino alle stalle reali dove Soichiro e Mizuki
tenevano i loro animaletti da soma personali insieme a quelli dei
rispettivi eserciti.
Appena entrati erano
stati accolti dai nitriti sorpresi di alcuni degli stalloni di Mizuki
intenti a sgranocchiare carote e fieno che li avevano guardati
sprezzanti per qualche istante, per poi subito dopo emettere una serie
non meglio definita di sbuffi annoiati da quell’improvvisa
visita non programmata; Akihiro si era mosso con cautela fra quegli
animali, cercando di tenersi il più lontano possibile dalle
giumente gravide per non scatenare l’ira dei maschi,
chiedendo ogni volta ad Hanzo se ce ne fosse uno che gli piacesse
particolarmente.
Ma la risposta,
ahimè, era stata sempre la stessa: un secco e freddo no,
nulla di più.
Scartati i cavalli di
sua madre erano allora passati agli honoki, creature simili a grossi
cervi che Soichiro amava particolarmente utilizzare in guerra per la
loro estrema fedeltà e resistenza, per non parlare
dell’aggressività con la quale reagivano se il
loro padrone era in pericolo:
«Te ne piace
qualcuno?»
«Io non
credo di… cioè… non è che
non mi piacciano, ma… non fanno per me, tutto qui:
probabilmente ho dei problemi mentali, ma no, non me ne piace
nessuno… mi dispiace.» rispose senza nascondere un
certo imbarazzo per avergli fatto perdere tutto quel tempo per aiutarlo
ma Akihiro, anziché assumere quell’espressione
severa che Hanzo si era aspettato a causa della pazienza che gli aveva
fatto consumare, sembrava invece fin troppo felice alla notizia
dell’ennesimo rifiuto:
«Pensi di
riuscire a camminare con la gamba in quello stato diciamo, un
chilometro o poco meno?» domandò curioso facendo
per uscire dalle stalle
«Sì,
o almeno credo… ma anche se non dovessi riuscirci mi
obbligherò a farlo, di questo non devi preoccuparti: ce la
faccio, decisamente.»
«E allora
iniziamo a incamminarci, prima arriviamo meglio sarà: ho io
quello che fa per te, e ti assicuro che sarà ammmore a prima
vista, nipote caro.»
E
in effetti era stato
proprio così.
Akihiro lo aveva fatto
camminare poco più di un paio di chilometri, che gli erano
parsi un’eternità a causa della gamba che pulsava
mentre lui cercava di concentrarsi su ben altro, il tutto per arrivare
alle stalle del proprio castello, poste dietro di esso e leggermente
nascoste da una coltre di ciliegi in fiore, e la differenza rispetto a
quelle di suo padre e sua madre era decisamente evidente:
più che stalle quelle di Akihiro erano vere e proprie
strutture a cupola di dimensioni mastodontiche, sicuramente cinque o
dieci volte le semplici costruzioni degli equini da guerra della
famiglia reale, costituite da spesse pareti di roccia che sembravano
emergere direttamente dal suolo come se fossero un’appendice
dello stesso, la quale si fondeva nella parte superiore da quelle che
sembravano essere lastre di vetro con un’apertura circolare
sulla parte superiore.
La visione di quella
struttura così imponente aveva fatto sentire Hanzo
terribilmente insignificante dinanzi a tanta magnificenza, e certo la
camminata regale di suo nonno nel dirigersi verso l’entrata
di quell’edificio non lo aveva aiutato a sentirsi a proprio
agio; dopo gli ultimi sforzi per arrivare dinanzi a quello che doveva
essere il portone d’ingresso, però, Akihiro lo
aveva fermato:
«Nessuno ha
mai approvato il mio metodo per combattere una guerra, nè ho
cercato l’approvazione per applicarlo al fine di compiacere
qualcheduno, ma ti posso dire una cosa: davanti al mio esercito si sono
inchinati interi popoli, con la loro approvazione o senza non mi
è mai interessato, ma se scegli di seguire questa via non
aspettarti complimenti da nessuno, mai.»
«Non ho mai
ricevuto complimenti, nonno, e non ne voglio nemmeno: per
ciò che ho ottenuto ho dovuto sputare sangue giorno e notte,
non sarà certo il piacere derivato dal sentirsi osannare a
farmi decidere cosa e come farlo, su questo puoi levarti ogni
dubbio.»
«E allora
avanti, ormai sei abbastanza grande per vedere come lavorano i signori
della guerra.» concluse entusiasta spalancando finalmente le
grosse porte, anch’esse fatte da rocce grigiastre coperte qua
e là da macchie nere liquefatte, e aprendo ad Hanzo un
intero
mondo.
No,
non era abbastanza
grande.
No,
non era proprio
pronto.
Sì,
quello
era il modo migliore per far inchinare un popolo.
Appena aveva messo
piede nell’enorme complesso era subito stato assalito da un
intenso odore di zolfo misto a terra bruciata, reso ancora
più pesante e soffocante dalle temperature decisamente
elevate dell’aria presente, che sembrava impregnare ogni
singola trave di legno, ferro o roccia che fosse fino a far dimenticare
il loro vero odore, una nebbiolina semi-trasparente simile a vapore che
risaliva l’edificio fino ad uscire dall’apertura
superiore; ed era lì che li aveva visti, prima nascosti da
quella coltre vaporosa che era andata dissolvendosi quando la porta
aveva fatto entrare aria più pulita, uno dopo
l’altro, uno più magnifico dell’altro:
draghi, draghi ovunque
si girasse, un numero che secondo le sue stime
sfiorava il mezzo migliaio, di tutte le dimensioni e forme che la
fantasia umana potesse immaginare.
La maggioranza di
quelle creature, ovvero quelle che non erano occupate a nutrirsi di
carogne fin troppo simili a resti umani o quelli invece placidamente
addormentati nei loro spazi, si era subito girata quando aveva sentito
il cigolio delle porte, motivo per cui Hanzo si era presto trovato
circondato da draghi che schioccavano le mascelle minacciosi mandando
ringhi ben poco rassicuranti, altri che erano scesi in picchiata verso
il terreno sollevando un gran polverone, altri ancora intenti a
spalancare le ali nella speranza di spaventare gli intrusi.
O meglio
l’intruso, dal momento che appena Akihiro aveva alzato una
mano verso quelle creature la maggior parte di loro si erano calmate ed
erano tornate a farsi gli affari propri, sempre mantenendo un certo
sospetto verso il nuovo arrivato; una minoranza invece, giusto una
decina di quelli più grandi e massicci che aveva notato,
erano rimasti al loro posto senza arretrare e si erano invece
avvicinati frustando l’aria con la coda e ruggendo:
«Io non
rimango s-se devo m-morire male, ti avvis-»
«Non ti
faranno nulla, stai a guardare.» lo rassicurò suo
nonno per poi, avvicinate le dita alle labbra, emettere un fischio
acuto che non sembrava aver sortito nessun effetto su quelle bestie.
Deve essere proprio
schizzato di cervello se crede di mettersi a controllare quei cosi
fischiettando amabili canzoncine, pensò Hanzo
tutt’altro che certo di riuscire ad uscire vivo da quel posto
ma invece, contro ogni sua più rosea previsione, quel suono
aveva assolto i propri doveri alla perfezione.
Fu questione di pochi
secondi prima che un incessante rumore di battere d’ali si
diffondesse in tutta la struttura con così tanta violenza e
prepotenza da scuotere le vetrate circostanti, un suono infernale che
venne poco dopo accompagnato da un ruggito così grottesco da
essere del tutto simile a quello di un corno da guerra di un altro
tempo: una sinuosa figura nerastra era allora entrata
dall’apertura superiore della cupola ed era scesa verso terra
planando con un movimento circolare fino a quando, nel raggiungere il
terreno, aveva allungato le lunghe zampe posteriori dotate di grossi
artigli ricurvi ed aveva iniziato a sbattere violentemente le ali per
trovare l’equilibrio necessario a toccare la superficie in un
modo così tremendamente aggraziato per un essere che
sembrava l’incarnazione della distruzione fatta drago.
O
meglio draghessa.
La creatura si era
pericolosamente avvicinata ad Hanzo e Akihiro a lunghe falcate tenendo
le grandi ali che sostituivano le zampe anteriori parallele al terreno
come se fosse pronta a spiccare nuovamente il volo da un momento
all’altro, il tutto mantenendo le zanne color avorio dalle
quali pendevano qua e là brandelli di carne appartenuti a
chissà chi pericolosamente snudate pronte a strappare
qualsiasi cosa capitasse; quell’avanzata apocalittica era
continuata fino a quando la dragonessa non si era trovata con
l’imponente corpo a pochi metri dai due spalancando
nuovamente le immense ali e lanciando l’ennesimo ruggito: al
solo sentire quel suono persino i draghi più grandi e
minacciosi di prima ora si erano allontanati lanciando ringhi impauriti
o erano indietreggiati con la testa bassa e le ali abbandonate a terra
con la coda fra le zampe in segno di sottomissione.
E Hanzo capiva
perché lo facessero, oh se lo capiva: nonostante le
dimensioni mastodontiche il suo corpo era incredibilmente sinuoso e
aerodinamico rispetto alla costituzione massiccia degli altri
lì intorno, una gamma di colori che andavano dal beige al
rosso mattone fino al grigio antracite delle striature che correvano
dalla sommità del capo fino alla punta di coda ed ali, la
testa coperta da una moltitudine di corna a spirale posizionate quasi a
formare un’improbabile quanto inquietante corona nerastra
simile a quelle che ricoprivano parte del collo e delle esili ma
robuste zampe posteriori mentre la coda, di una lunghezza spropositata
rispetto al resto, nella parte anteriore sembrava la continuazione
delle appuntite membrane alari che andavano diradandosi per finire con
una sottile quanto letale frusta scarlatta.
Akihiro allora, giusto
per stare in tema di prese per il culo inerenti alla giornata, aveva
ripreso con discreta violenza il polso al nipote e gli aveva allungato
la mano fino a quando non si era trovata ad un metro scarso dal muso di
quella creatura; le imprecazioni furono inevitabili:
«Cosa cazzo
stai facendo? Mollami! Mollami o ti ammazzo male! Ti ammazzo
malissim-»
«Taci o ti
rompo il braccio come ha fatto il tuo amico mercenario, ma non ci
metterò tutto l’ammmore che ci ha messo lui,
chiaro figliolo?»
«Non me ne
frega nulla! Staccami un braccio, fallo! Staccamelo ma non avvicinarmi
quella lucertola o giuro che mi faccio salire l'omicidio!»
«Sssh,
finirai solo per farla agitare» gli
suggerì mentre
la draghessa aveva evidentemente sviluppato un certo interesse verso
quella mano ed aveva chinato il muso iniziando ad annusare circospetta:
«Non ti
farà del male, fidati di quello che ti dico: un drago non
attacca se non ha motivo di farlo, né ti darà la
sua fiducia se prima tu non gli dai la tua.»
continuò facendo per mollare la presa e giustamente, vedendo
che Hanzo aveva una certa voglia di tirarla indietro appena ne avrebbe
avuto l’occasione, decise di specificare la cosa:
«Se tiri
indietro la mano la prenderà come un’offesa che
non lascerà sicuramente correre, se ti va bene ti troverai
carbonizzato in qualche secondo senza poterti rendere conto
dell’accaduto, se ti andrà male beh…
non ho mai sperimentato di persona, ma so per certo che
Sheki’nah ha un caratterino niente male per essere una
dragonessa da guerra.»
Sheki’nah,
ora quel rettile aveva anche un nome, per niente rassicurante tra
l’altro.
Riuscire a resistere
alla tentazione di fare marcia indietro e fuggire fino a quando ne
aveva ancora la possibilità era difficile, tremendamente
difficile, soprattutto quando la draghessa lo aveva
osservato con
quelle fessure rossastre qualche secondo prima di spalancare le
mascelle ruggendogli praticamente in faccia: aveva sentito il terrore
attanagliargli ogni singola fibra del corpo fino a non consentirgli
più di ragionare sul da farsi, ma alla fine Hanzo aveva
costretto le proprie gambe a rimanere dov’erano
anziché andare da sole verso l’uscita sperando di
sopravvivere.
I secondi che erano
passati da quel ruggito a quando Sheki’nah aveva avvicinato
ulteriormente le proprie fauci alla sua mano gli erano sembrati
interminabili, anche perché ogni secondo in più
significava una possibilità sempre maggiore che quella
signorina cambiasse improvvisamente idea e volesse fare uno spuntino,
ma la scelta di restare al proprio posto era subito risultata la
migliore: fu questione di pochi attimi prima che Hanzo si vedesse la
propria mano accarezzare senza volerlo il grosso muso della dragonessa,
la quale nel frattempo aveva assunto un’espressione rilassata
e stranamente compiaciuta da tutte quelle moine, che se ne stava
bellamente a proprio agio mentre l’altro per poco non si
prendeva un infarto.
Akihiro gli si era
affiancato sorridendo soddisfatto:
«Direi che
gli piaci più di quanto mi aspettassi, di solito un assaggio
alla carne lo da sempre: è stato così terribile
come pensavi?» domandò curioso mentre Hanzo, con
la dovuta cautela, continuava a passare la mano fra le squame lucide
quasi ci avesse preso gusto:
«No, non
è male, oserei quasi dire che è…
terapeutico.» azzardò sembrando però
decisamente più tranquillo di prima, poi però
ebbe come una cupa illuminazione:
«Quando
dicevi che avremmo trovato una cavalcatura per me non intendevi lei,
vero?
No perché,
amore a parte, non è che mi ispiri troppo eh, senza offesa
ovviamente…» chiese per poi ritirare la mano
sfregandola nervosamente sull’altra.
Akihiro lo aveva
guardato qualche secondo, poi era scoppiato a ridere:
«Oh avanti,
seriamente credi che ti faccia cavalcare proprio lei?
Davvero?» domandò ridendo di gusto, poi si riprese
tornando serio e prese la testa della draghessa fra le mani appoggiando
la propria fronte su quella dell’altra:
«Sheki’nah
è la dragonessa ideale per quanto riguarda
fedeltà e forza di combattimento, ma è anche
difficile da gestire se non si ha una certa esperienza e sangue freddo:
non preoccuparti, non ti darò una bestia simile come
cavalcatura, sarebbe un suicidio per entrambi se dovesse perdere
l’assetto di volo e spiaccicarsi contro una
roccia… proprio un peccato,
già…» spiegò continuando a
ridere e facendosi da parte ed avviandosi in fondo
all’immensa cupola, seguito ovviamente da Hanzo e dalla
dragonessa che, come aveva ironicamente notato, quando camminava ed
utilizzava le ali per sostenersi assumeva un’andatura
alquanto buffa simile ad un enorme pollo:
«Ho in mente
qualcosa di meno impegnativo di questa signorina, ma non sono proprio
certo che faccia per te quindi te lo dico subito: non sfidare la
pazienza di un drago, se senti che non fa per te lascia stare e
torniamo alle stalle dei tuoi genitori vedendo di farti andar bene un
cavallo o magari un honoki, ma ti prego di tirarti indietro se sai di
non poterlo gestire, capito?» domandò mentre
continuavano a camminare e l’altro, per quanto avesse la
mente annebbiata da una valanga di dubbi, aveva quasi inconsciamente
annuito.
Proprio nel mezzo di
quella camminata circondati da rettili che sonnecchiavano o si
contendevano cadaveri animali non meglio definiti
l’attenzione di Hanzo era stata catturata da un punto
indistinto dove Sheki’nah li aveva preceduti ed aveva
spalancato le ali ruggendo con violenza, ruggito al quale ne era
seguito uno altrettanto intenso, così si era fermato insieme
alla draghessa sporgendosi da dietro una delle sue grosse zampe, e
allora si era preso un mezzo infarto: in quel piccolo angolino angusto
se ne stava un drago di dimensioni più contenute rispetto
alla sua nuova amica squamosa, il corpo snello e robusto che andava da
un verde appena accennato al verde smeraldo man mano che si avvicinava
alle spesse placche che andavano da sotto il muso fino
all’attacco della coda, la quale era sovrastata e
parzialmente coperta da una specie di lungo e largo nastro di varie
sfumature d’azzurro recante il marchio della casa di suo
nonno, una soffice peluria verde chiaro che spuntava qua e
là dalla parte posteriore delle zampe e in quella superiore
della lunga coda a frusta, la testa ornata da una folta criniera
verdastra che lasciava intravedere appena un paio di corna affusolate
ed altre due grosse corna ricurve da ariete, il tutto completato,
nemmeno fosse una presa per il culo, da un paio di quelli che
sembravano essere a tutti gli effetti degli orecchini con disegni
identici al nastro che ricadeva sulla coda.
E catene, soprattutto
quelle: alle zampe, al collo, intorno alla vita e forse
precedentemente, vedendo a terra un pezzo di metallo dorato semi
liquefatto, anche sul muso.
Quel drago non
sembrava pericoloso, era quella la prima cosa che aveva pensato, non
quanto Sheki’nah almeno, eppure era certo che se Akihiro
aveva deciso di incatenarlo lì e non lasciarlo libero come
gli altri allora un motivo doveva esserci, e lo aveva scoperto presto:
c’era voluto poco perché il drago passasse dal
semplice ringhiare al lanciare una fiammata di fuoco color smeraldo
contro la draghessa, e c’era voluto altrettanto poco tempo
perché questa rispondesse con una cascata di fiamme
scarlatte così scure da sembrare quasi nere in una danza
che, Hanzo ne era certo, sarebbe stata mortale.
Nonostante
l’altro uomo avesse continuato a camminare doveva essere
stato attirato dai ruggiti infernali delle due bestie che, se non fosse
stato per le catene che stridevano ad ogni affondo di artiglio del
drago più piccolo, si sarebbero sicuramente ammazzate a
vicenda:
«Shangri-La
no! No! Stai buona santo cielo, buona! Avanti!»
era
intervenuto Akihiro dando uno strattone alle catene ancorate alle zampe
posteriori facendole l’equilibrio costringendo quindi la
dragonessa a terra:
«Ho detto di
stare buona, stai solo peggiorando le cose! Shangri-La no, smettila
cazzo!» aveva insistito ma, vedendo che quella
continuava a
dimenarsi furiosa, si era avvalso dell’aiuto con
l’aiuto di Sheki’nah, che aveva posato i propri
grossi artigli sull’altra per tenerla ferma, per bloccarle
ogni movimento con una spessa catena recuperata all’ultimo
minuto.
C’erano
voluti diversi istanti perché si decidesse a calmarsi, se si
poteva intendere calmo un rettile di sei metri che continuava ruggire
dimenando la coda pericolosamente, e la cosa aveva lasciato Hanzo
abbastanza interdetto e con ancora più dubbi di quanti ne
avesse prima:
«Era lei, il
drago di cui parlavi?» chiese a suo nonno, che nel frattempo
stava passando le mani fra le molteplici corna della propria draghessa
per riportarla alla calma a sua volta:
«Cosa? No,
assolutamente no, non riesco nemmeno io a domarla, figurati cosa
farebbe a chiunque altro che provi anche solo ad avvicinarsi: stai a
guardare.» rispose con tono severo assumendo
un’aria cupa, poi appoggiò appena una mano sul
muso di Shangri-La prendendosi di rimando un ruggito accompagnato da
delle sottili fiammelle verdastre appena visibili fra le fessure delle
zanne:
«E’
troppo pericolosa per tutti, me compreso, e forse anche per se stessa:
lasciala perdere se ci tieni alla pelle, dico sul serio.»
consigliò al nipote alzandosi e facendogli strada.
Ma Hanzo non voleva
vedere altri draghi, non dopo aver notato i due grossi anelli argentei
dai quali pendeva un nastro decisamente più lungo con
disegni e colori identici a quelli del nastro che copriva la coda che
sembrava simile a delle briglie, anelli che le penetravano la carne nei
punti in cui avrebbero dovuto trovarsi le ali ma che ora, a giudicare
dalle cicatrici presenti prima nascoste dalla lunga criniera, erano
ridotte a due monconi appena accennati; Akihiro aveva notato come il
nipote guardasse quei segni, e forse era stato per quello che si era
girato sospirando:
«Quando
l’ho trovata nella foresta le avevano strappato le ali, gli
uomini che l’hanno fatto sono finiti arrosto mentre
imploravano la mia pietà: la mia gliela avrei anche data, ma
ho lasciato a Sheki’nah la scelta, e lei era
d’accordo con ucciderli molto, molto male, abbastanza per
fargli provare quello che un drago sente quando gli togli
ciò per cui è nato… ma non stiamo qui
a dilungarci su quanto i miei sforzi nel far sì che lei si
fidasse di me siano stati vani, piuttosto andiamo a scegliere il tuo
drag-»
«Io voglio
lei, nessun altro drago: lei e basta, niente discussioni.»
E allora Akihiro era
diventato di pietra.
Nessuno aveva
proferito parola in quella circostanza, persino Shangri-La aveva smesso
di ruggire e muoversi furiosamente, forse per l’imbarazzo
generale o forse per adattarsi all’espressione perplessa e
preoccupata dell’uomo:
«Hanzo, fai
il serio, ti prego… ho abbastanza draghi fra cui puoi
scegliere, ma non lei, assolutamen-»
«Ho detto
niente discussioni, toglile quelle catene e lasciami
fare.»
«Non se ne
parla» disse assumendo uno sguardo severo «Stammi a
sentire, se ti dico che è meglio lasciar perdere quella
dragonessa allora tu la lasci perdere, chiaro?»
«Non
costringermi, per favore, non farlo.»
«A fare
cosa?» domandò preoccupato, ma non ci volle molto
perché le azioni rispondessero al posto delle parole: forse
Akihiro era particolarmente sprovveduto quel giorno, ma ad Hanzo non
c’era voluto molto per sfilargli la spada dal fodero che
portava sul fianco e tenerla davanti a sé
«Nessuno mi
dice cosa devo fare, nemmeno tu: mi dispiace, davvero.» si
lasciò scappare per poi tirare un fendente ai punti dove le
catene erano ancorate al terreno spezzandole di netto, ovviamente
liberando la draghessa che si era subito impennata sulle zampe
posteriori sputando un muro di fuoco verso Sheki’Nah
sfiorandola di poco.
O gli andava bene o
moriva carbonizzato, le alternative erano poche.
Se fosse stato
minimamente interessato al continuare quella misera vita che lo
aspettava dietro le sbarre d’oro di quel castello forse Hanzo
avrebbe continuato a portare con sé la spada nel momento in
cui si era pericolosamente avvicinato a quella creatura che scalpitava
furiosamente fendendo l’aria con le fauci, ma dato che a lui
di tutta la burocrazia di corte interessava ben poco aveva abbandonato
la lama a terra trovandosi ad appena qualche decina di centimetri da
lei, che nel frattempo era decisamente troppo occupata a lanciare
artigliate all’altra.
Akihiro lo aveva
guardato sconvolto per qualche istante, quelli che gli erano bastati
per rendersi conto che era troppo tardi per convincere suo nipote che
non sarebbe servito a nulla cercare di domare quel mostro come lui non
era riuscito a fare in anni ed anni di impegno costante che gli erano
costati solo graffi e ustioni ben difficilmente dimenticabili; ci aveva
anche provato ad aizzare Sheki’nah contro quella belva
famelica, ma la dragonessa si era improvvisamente tirata indietro con
le mascelle serrate e le fiamme che ancora le lambivano le
estremità delle ali, motivo per cui aveva capito fin troppo
bene che, volente o nolente, quella era una questione che si sarebbe
disputata solo fra Shangri-La ed Hanzo: doveva avere fiducia in lui, o
almeno provarci.
Era stata questione di
attimi perché una fiammata verdognola lo costringesse ad
indietreggiare dietro la propria draghessa per proteggersi
dall’attacco alzando una sorta di anello infuocato che lo
aveva definitivamente diviso dall’altro, e allora gli aveva
preso un’ansia terribile: ora era da solo, doveva cavarsela
senza il suo aiuto, senza l’aiuto di chi con i draghi ci
aveva a che fare da quando era venuto al mondo.
Ma Hanzo era abituato
a cavarsela da solo, anche troppo: nonostante avesse chiaramente
avvertire nelle vene il terrore più puro alla vista di tutte
quelle dannatissime fiamme che lo avevano praticamente accerchiato,
aveva raccolto tutta la buona volontà che gli era rimasta in
corpo e si era lentamente avvicinato a quella creatura misurando ogni
passo per cercare di non finire arrosto come immaginava fosse toccato a
tanti altri prima di lui; non c’era voluto molto
perché lei lo notasse e gli piantasse addosso quegli occhi
color smeraldo pieni di rabbia digrignando i denti, ma nemmeno quello
era servito a farlo indietreggiare, anzi era servito a tutto il
contrario:
«Non ho
nulla con me, non credo di poterti ammazzare anche se lo
volessi» aveva azzardato alzando le mani in segno di resa per
poi muovere qualche altro passo insicuro:
«Cerchiamo
di collaborare per favore, non fare scherzi e proviamo a trovare un
accor-» non fece in tempo a finire che una sottile fiammella
dello stesso colore dei suoi occhi gli passasse ad appena qualche
centimetro dal braccio.
Ok, forse quello non
era il modo migliore per approcciarsi con una draghessa selvaggia che
voleva solo ridurlo ad un adorabile involtino arrosto, ma provare non
costava nulla.
Tranne
la vita, ma
quello era un optional.
Non si era fatto
scrupoli, come anche non se ne era fatti quando aveva gettato la
propria esistenza dietro delle dannate sbarre d’acciaio come
se nulla fosse, e forse era proprio per quello che era riuscito, fra
una minaccia di azzannarlo e l’altra, a raggiungere
Shangri-La fino a poterla sfiorare con la mano se solo lo avesse
voluto; Hanzo non sentiva più nulla intorno a se stesso se
non un’ansia crescente che sembrava aver preso il sopravvento
sul coraggio che aveva fino a qualche istante prima tuttavia,
nonostante i ringhi sommessi e la voglia lampante negli occhi di lei di
sbranarlo senza ritegno, non si era mossa più di tanto e lo
aveva anzi lasciato avvicinare assumendo una strana espressione
compiaciuta che lo aveva fatto calmare solo un po’.
Giusto per evitare
dubbi aveva aspettato ancora qualche momento prima di tentare il tutto
per tutto, ma alla fine si era deciso ed aveva allungato lentamente,
molto lentamente, il braccio premurandosi di controllare che fosse
ancora a suo posto ad ogni centimetro che guadagnava; c’era
stato un momento durante il quale l’altra aveva snudato le
zanne bianche ringhiando in modo quasi impercettibile senza
però opporsi ed anzi mostrandosi interessata.
Era stato allora che
Hanzo aveva avuto la conferma che, infondo in fondo, non erano poi
così diversi, lui e Shangri-La: nessuno dei due aveva mai
conosciuto la vera libertà, quella che si provava quando non
si avevano le ali strappate da uomini troppo crudeli o da una vita
dissoluta passata a fottersene male del proprio futuro, e a dire il
vero né l’uno né l’altra
erano riusciti a trovare il loro posto nel mondo, lo stesso mondo che
aveva ridotto lei a diventare un lupo, o un drago, solitario che sapeva
circondarsi solo di catene e lui a perdere ogni interesse in una vita
che non gli era mai appartenuta.
L’aveva
guardata per qualche istante, quelli che erano bastati per perdersi in
quegli smeraldi pieni di dolore nei quali se si impegnava riusciva
ancora a scorgere un minimo di speranza, la stessa che probabilmente
provava verso di lui: non sapeva se fosse solo una sua impressione o se
fosse davvero così, ma gli sembrava che in quel momento gli
stesse dicendo “Aiutami, portami via da qui, portami via da
tutti questi sconosciuti, andiamocene entrambi da questa prigione
dorata e torniamo a casa.”
Era stato fermo per
minuti che gli erano parsi infiniti poi, quasi come un istinto
ancestrale che aveva sopraffatto la draghessa famelica di qualche
istante prima rendendola decisamente più calma, Hanzo aveva
sentito chiaramente la testa di Shangri-La poggiarsi
nell’incavo del suo collo strusciando il robusto collo
coperto dalla morbida criniera sul braccio dell’altro quasi
stesse cercando un rifugio sicuro da tutto il mondo che la circondava,
lasciando Akihiro visibilmente sconvolto.
L’uomo aveva
osservato la scena sbigottito per un tempo che era sembrato infinito,
persino la sua dragonessa aveva assunto un’espressione
confusa e sorpresa allo stesso tempo, e quando aveva fatto per
avvicinarsi al nipote era stato accolto solo da un minaccioso ringhio
da parte della sua nuova compagna di giochi; Hanzo aveva temuto di
perdere il controllo della situazione fin troppo presto,
così aveva subito afferrato il muso di Shangri-La fra le
proprie mani e se lo era stretto al petto:
«Buona
avanti, stai buona, non ti vuole fare del mal… ok, ti ha
tenuta incatenata come un animale ma ehi, era anche colpa tua se ti
comportavi come una sociopatica, vero?» la
rimproverò accennando appena un sorriso, forse
l’unico vero fra tutti quelli che aveva sfoggiato fino a quel
momento.
Ed era allora che
Akihiro non aveva più avuto dubbi, solo conferme di
ciò che pensava, motivo per cui si era girato verso
l’altro ed aveva finalmente allungato una mano per
accarezzare la draghessa:
«Considerala
il mio regalo per la tua incoronazione, d’altronde sei
l’unico in tutti questi anni con cui vada d’accordo
per cui avanti, ora che hai una cavalcatura possiamo anche andare a
vantarcene con tuo padre e quei suoi cervi, non credi?» gli
aveva detto con una serenità disarmante.
Gli
stava davvero
regalando Shangri-La?
Gli
aveva davvero
concesso una delle sue dragonesse da guerra?
A
lui?
Hanzo non aveva saputo
rispondere in modo decente a quell’affermazione se non
balbettando qualche parola senza senso, ma alla fine aveva deciso che
abbracciarlo doveva essere il minimo sindacale per un gesto di quel
calibro; ok, forse gli abbracci non erano il suo forte, ma Akihiro non
si era affatto sottratto a quel contatto umano così intimo,
probabilmente uno dei pochi che aveva ricevuto nell’ultimo
periodo:
«Santo cielo
figliolo, sei peggio di tua madre in fatto di sdolcinerie!»
rise divincolandosi dall’altra che, giusto per sentirsi parte
della famiglia, aveva avvolto la vita dell’uomo con la coda
in un modo che aveva rasentato il soffocamento:
«Come non
detto, come non detto… ma se fossi in te risparmierei tutte
queste coccole da piccioncini per un'altra, di piccioncina.»
Ecco, quella parola
quella singola parola, aveva subito fatto suonare un campanello
d’allarme nella mente di Hanzo, lo stesso che aveva
già sentito quando Mizuki gli aveva detto che lei sapeva
tutto di Chiharu e della loro relazione:
«P-piccioncina?
Io non vedo… p-piccioncini, proprio… no, no: ma i
p-piccioni sì, i piccioni sono o-ovunque.. sotto i letti,
per esemp-» cercò di giustificarsi
strappando
all’altro una risata che gli aveva fatto accapponare la pelle:
«Ti serve
molto più che un alleato su questo pezzo di roccia per
proteggere quella ragazza… come si chiama? Chinaru? Chicaru?
Cacaru? Cacatua? Cacamia?»
«Chiharu, si
chiama Chiharu.»
«Ah
sì, quella lì, proprio lei» disse
girandogli intorno fino a trovarsi al suo fianco per poi fare spallucce
ammiccando in un modo inquietante:
«Un
uccellino, un uccellino infuocato di quindici metri buoni, mi ha detto
che cerchi di nascondere la vostra relazione con tutte le forze che hai
in corpo, uno sforzo che ti costa buona parte delle giornate che
potresti invece passare con lei a crogiolarti in giardino»
insistette mentre Hanzo lo osservava tremante, il terrore che anche lui
lo potesse dire a suo padre che gli attanagliava le viscere:
«O a
scopartela selvaggiamente, dato che da quel che ho visto sei messo
decisamente meglio di tuo padre: dimmi un po’, secondo te il
culo te lo da o devi pregarla in ginocchio?
Ora che ci penso in
ginocchio iniziereste a fare altro, ma in fond-»
«Non dirlo a
papà, per favore: farò tutto ciò che
mi chiedi ma ti prego, non dirglielo.»
Hanzo sapeva di essere
penoso a pregare suo nonno di tenere la bocca chiusa con suo figlio, ma
era anche vero che se per salvare Chiharu dalla morte certa allora
doveva abbassarsi a tanto allora lo avrebbe fatto, lo avrebbe fatto
senza fiatare.
Akihiro aveva scosso
la testa sorridendo, poi gli aveva appoggiato una mano sulla spalla:
«Non
guadagnerei nulla col dire a tuo padre di questa relazione clandestina,
nipote caro, se non vedere l’ennesimo cadavere in piazza: mi
è già passato abbastanza sangue tra le mani,
sangue che avrei preferito lasciare ad altri, non voglio anche quello
di una ragazza colpevole solo di essersi innamorata di un uomo che se
ne sta ben sopra al suo livello nella piramide sociale, senza contare
che le sacerdotesse non dovrebbero avere compagni ma ehi, tua madre a
quelle ninfomani non dice nulla.» disse con
l’intento di tranquillizzarlo, intento non proprio raggiunto.
E forse fu proprio per
quel motivo, dopo aver notato che il nipote tranquillo non lo era
affatto, che decise di afferrargli il polso e trascinarlo fuori,
seguito a ruota da Sheki’nah che camminava in modo alquanto
buffo imitando un pollo e Shangri-La che sbuffava annoiata mentre
trotterellava dietro i due fuggiaschi superando l’altra
draghessa con un ruggito soddisfatto e strafottente:
«Dove
accidenti mi stai portando?» domandò
all’uomo che però non rispose, così
anche lui si mise il cuore in pace e si diede al pacato mutismo ed alla
mesta rassegnazione.
Mutismo e
rassegnazione che finirono per costargli il respiro mozzato in gola
appena aveva messo il piede fuori dalle stalle di suo nonno.
Akihiro
era impazzito.
Chiharu
era impazzita.
Tutti erano impazziti.
Quando Hanzo aveva
incontrato il suo sguardo non aveva sentito più niente che
non fosse un immenso senso di gratitudine nel rivederla, le
preoccupazioni per la corona che venivano spazzate via
dall’amore che lo teneva legato a quella ragazza da sette
anni.
Sette anni, nemmeno
gli sembrava che fosse passato così tanto tempo dalla prima
volta che si erano incontrati, eppure eccola là: non la
vedeva da quasi due mesi ormai, e la cosa gli pesava per quanto
evitasse di farlo notare agli altri ma alla fine, come le ripeteva lei,
se era riuscito a sopportare di vederla sì e no qualche ora
al mese quando se ne stava dietro le sbarre allora non doveva essere un
problema, ma lo era.
Lo
era eccome.
Chiharu aveva
aspettato qualche secondo prima di ricambiare lo sguardo piantandogli
quelle sfere d’oro liquido addosso, ma c’era voluto
poco perché gli si avvicinasse e si fiondasse a cercare
rifugio appoggiandosi al suo petto mentre l’altro gli cingeva
i fianchi con una delicatezza che non sembrava appartenergli, poi si
erano guardati per un tempo che sembrò infinito ad entrambi:
lei per cercare l’approvazione della persona che aveva
davanti, lui per capire se potesse meritarsi ancora la sua fiducia dopo
che l’aveva lasciata nella tana dei leoni, o delle fenici,
per tutto quel tempo.
Hanzo non era mai
stato un tipo da baci e abbracci, era più da accoltellamenti
e omicidi, ma Chiharu aveva il potere di renderlo più docile
di un agnellino e far uscire da quel pezzo di marmo che aveva al posto
del cuore i sentimenti che il dolore di tutta una vita aveva sepolto
sotto chilometri di rancore e rabbia che però, quando
c’era lei, finivano sempre per essere rimpiazzati da un senso
di iperprotettività e amore incondizionato che teneva in
piedi la loro relazione da così tanti anni, carcere o meno
che fosse, ma dall’altra parte aveva sempre una certa
difficoltà nel manifestare i propri sentimenti anche a lei.
Chiharu lo sapeva,
d’altronde era per quello che era sempre lei a fare il primo
passo, ed anche questa volta aveva fatto lo stesso senza protestare: le
sue mani si erano intrecciate intorno al collo dell’altro, il
rosa pallido della pelle liscia di quelle esili dita che incontravano
in un violento contrasto cromatico le lucide chiazze lasciate dalle
profonde cicatrici rossastre, poi gli aveva preso il volto fra le mani
e lo aveva tenuto stretto a sé in un bacio appassionato di
quelli che si concedevano così di rado da rendersi conto
solo ora di quanto ne avessero bisogno entrambi.
Il tempo sembrava
essersi fermato in quegli istanti, in quei rari momenti dove Hanzo
dimenticava tutte le volte in cui avrebbe dovuto fare buon viso a
cattivo gioco e Chiharu si ricordava del motivo per cui lo aveva
aspettato per sette anni senza cercare un altro uomo che, se solo lei
avesse voluto, avrebbe potuto starle vicino ogni minuto di ogni giorno,
a differenza di Hanzo stesso.
Quando lui aveva fatto
per staccarsi dopo qualche minuto, ma lei lo aveva trattenuto ancora un
attimo per godersi quel minimo di tregua fra tutte le preoccupazioni
del mondo che li circondava; quegli istanti però, per quanto
lei si convincesse che sarebbero stati eterni, durarono solo fino
all’istante in cui il compagno interruppe quello scambio di
effusioni per stringerla a sé guardandola negli occhi, poi
le prese le mani fra le proprie:
«Ti amo con
tutte le mie forze, non smetterò mai di ripetertelo
piccola.»
«Sappiamo
entrambi che è così, e vorrei stare qui a
parlarne per ore intere, ma ora devi andare: se qualcuna delle
sacerdotesse ci vede è la fine per te e la tua
coron-»
«Non voglio
la corona, non è quella che mi interessa» le
sussurrò accarezzandole i capelli come se si fosse perso in
quell’oceano fatto di sottili filamenti azzurrini:
«Se non puoi
essere la mia regina io non farò il re di questa fredda
roccia, non pensarci nemmeno: se mi vogliono qui devono accettare anche
te, altrimenti possono anche prendere quel pezzo di latta ed
infilarselo dove nemmeno le fiamme di Ignis arrivano.»
A quelle parole la
ragazza era rimasta spaesata e terribilmente confusa, motivo per cui
tentò di allontanarsi dal compagno senza volersi staccare
davvero:
«Se ci
scoprono siamo rovinati, te ne rendi conto?» gli disse con il
terrore negli occhi
«Tu perdi
tutto ciò per cui hai sputato sangue fino ad oggi, ed
io… io…»
«Non possono
farti del male fino a quando non hanno me, sono indispensabile a mio
padre per firmare l’alleanza con quelle lucertole troppo
cresciute: stai tranquilla Chiharu, non devi preoccuparti di come
sopravvivere fra le sacerdotesse, penserò io a coprirti le
spalle» disse mentre Shangri-La, con un curioso tempismo ed
un’improbabile comportamento che ricordava vagamente quello
di un gatto altezzoso, si era avvicinata e si era interposta fra lei ed
Hanzo ringhiandole addosso:
«Volevo dire
noi, ci pensiamo noi a coprirti le spalle, vero signorina?»
domandò alla dragonessa che, soddisfatta, lo
ringraziò con una leccata decisamente meno delicata dei baci
di Chiharu.
Hanzo non aveva paura,
non ne aveva mai avuta: la corona sarebbe stata di sicuro il modo
perfetto per riscattarsi da tutto ciò che aveva dovuto
sopportare fino a quel giorno, ma Chiharu non era il prezzo da pagare;
non aveva colpa di tutto quel puttanaio che si stava scatenando per
mandarlo al trono, ma vi si era trovata invischiata ed ora doveva
iniziare anche lei a recitare il proprio ruolo nel leggendario gioco
che la sua famiglia portava avanti da chissà quante
generazioni per mantenere l’assoluto controllo su Iga intera.
Perché al
gioco del trono, Hanzo lo sapeva bene, o si vince o si muore.
Buio, il buio
più totale: niente luce, niente suoni, niente colori.
Niente di niente, il
nulla più totale.
Da
milioni di anni.
Poi c’era
stato un rombo sordo, un ruggito che aveva riempito l’aria di
una sofferenza nemmeno lontanamente immaginabile all’orecchio
umano.
Ma non
all’orecchio di un drago, ovviamente.
E allora
l’aria si era improvvisamente riempita di una moltitudine di
rumori, luci e sensazioni finora sconosciute a quel luogo
così tetro rivelando un paesaggio alquanto sovrannaturale:
centinaia e centinaia di rocce nerastre galleggiavano
nell’etere sospese da filamenti diafani di un azzurro
elettrico caricando di un pungente quanto frizzante odore di zolfo, lo
stesso che si avverte dopo un violento temporale estivo.
Probabilmente era a
causa della carica statica prodotta da quei sottili fulmini formato
tascabile che anche il terreno di quella specie di grotta,
un’immensa e sterile distesa di rocce appuntite e stalattiti
grandi come case, fosse cosparso di intricati disegni azzurrognoli che
parevano recare antiche iscrizioni dimenticate dal mondo, un labirinto
degno di Dedalo in persona che sfociava in un’ampia stanza,
se così si poteva chiamare quell’enorme atrio con
una sola apertura verso l’alto.
Il silenzio vigeva
sovrano in quel luogo, o almeno lo aveva fatto fino al momento in cui
un rumore metallico si era fatto strada fra le orecchie delle pietre
circostanti: le spire che si srotolavano una dopo l’altra in
una danza ipnotica, le squame dure come diamanti che sfregavano le une
contro le altre che tagliavano come se nulla fosse il duro cuore di
granito delle rocce, gli immensi veli azzurri delle ali che riempivano
lo spazio a loro disposizione ergendosi in tutta la loro imponente
grandezza accompagnando la fierezza e la ferocia contenuta nelle due
sfere che riflettevano il colore delle profondità
più remote degli oceani poste sul capo, praticamente non
osservabile da chi l’avesse guardato standosene a terra.
Dunque il momento era
giunto, la tempesta era arrivata: lo aveva chiamato, alla fine, si era
finalmente deciso a rinunciare ad uno scontro ben poco alla pari ed
aveva fatto uno squillo interdimensionale agli alti vertici.
Che non si erano certo
tirati indietro, ovviamente.
Aveva alzato il muso
verso le stelle un'ultima volta prima di portarsi sulla grande apertura
superiore innalzandosi in tutta la sua imponenza verso le vaste terre
che si intravedevano all'orizzonte, prima di apparire come un obelisco
sulla sommità di quella grotta con le ali spalancate e la
propria ombra che oscurava i soli di quel pianeta:
«A myrn hain
gavénnir taur aglàr elenath, Draego-Orn, na medui
mòrnie estelie adartha ustùlie» il
ruggito si levò alto, accompagnato da altri che sembravano
delle risposte:
«Lasto beth
lamèn vinya, Naer-Sk'owa: atlantièr orath
telithàr vinya urulooke, indyo silque ataui
devithà sikke Terrakion, na palan-diriél
endòrenna.
Aska'roth, Naer
Sk'owa, ad erynna darthanner.»
Ora
niente poteva
fermarli.
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Angolino dell'autrice
CE L'HO FATTA.
HO AGGIORNATO.
FINALMENTE.
Comunque sia, sono
felice di essere finalmente riuscita ad aggiornare
quest’adorabile fan fiction, ci tenevo parecchio dato che ero
impaziente di scrivere i capitoli che verranno dopo questo di
intermezzo: lo ammetto, i capitoli di transizione non sono proprio
ciò che amo fare, soprattutto se non contengono sangue e
draghi sputafulmini gigaenormi, ma alla fine sono riuscita a
completarlo e mi soddisfa non poco :D
Cosa dire su questo
capitolo: ho preparato il terreno per l’incoronazione di
Hanzo e per altre entrate trionfali che si vedranno nel prossimo
capitolo, sono così emozionata nel poterlo finalmente
iniziare (anche se in realtà un pezzo l'ho già
fatto), e vogliamo discutere su questa scena di amore stile Hiccup e
Sdentato? xD
Non voglio dirvi
altro, tranne che no, non accadrà nulla di ciò
che può essere considerato decisamente scontato
né sulla Terra né su Iga :3
Ma soprattutto: cosa
vogliono dire le ultime frasi?
Chiamate Adam Kadmon e
lo saprete (?)
Detto questo, vi
lascio con le draghesse di Akihiro ed Hanzo, rispettivamente Sheki'nah
(la simil viverna) e Shangri-La (quella verde): non sono adorabili? :D
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