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Capitolo revisionato e corretto.
CAP. 2
IL
TEMPO NEMICO GIURATO
BELLA
«Bella!»
Voci
indistinte, lontane, agitate.
«Bella!»
Stavo
sognando? Non riuscivo a muovermi, ad aprire gli occhi. Ero distesa a
faccia in giù nella terra bagnata, il volto coperto di
fango, i capelli mi ricadevano fradici sulle guance. Tentai di spostare
il viso di lato, ma lo sforzo mi sembrava immane. Non mi ero mossa che
di qualche centimetro, ma smisi subito, sfinita.
Mi
stavano cercando.
Cercai
di alzare una palpebra, ma non ci riuscii. Aprii la bocca, ma nessun
suono ne uscì.
Stavo
morendo? Dal dolore che mi pulsava nel petto, credetti di
sì. Le labbra si piegarono in quello che avrebbe potuto
passare per un sorriso triste. Non ci sarebbe voluto ancora molto, e,
tanto ormai, a cosa mi serviva vivere?
Lui non
c’era più. Io non c’ero più,
non esistevo davvero prima di incontrarlo e ritornavo nel nulla ora che
non sarebbe più stato al mio fianco. L’idea del
tempo senza di lui mi sembrò insopportabile.
Mi
uscì un gemito strozzato dalla gola.
All’improvviso
dei passi affrettati calpestarono i rami poco distanti da me, si fecero
sempre più vicini, più veloci, più
chiari.
«L’ho
trovata!»
Il
sollievo nella voce dello sconosciuto era evidente. Qualcosa mi
sfiorò i capelli, una mano mi girò delicatamente
verso l’alto.
«Bella
… Dio ti ringrazio!» Due braccia forti mi
sollevarono senza sforzo.
«L’HO
TROVATA!»
Le voci
si fecero più concitate, più vicine. Lo
sconosciuto si faceva strada nel bosco senza sforzo reggendo il mio
peso, come fossi un ramoscello. La mia testa e il mio braccio
penzolavano inermi.
«Non
avere paura, è tutto finito, sei salva» mi
mormorava lo sconosciuto dolcemente all’orecchio.
Già
è tutto finito, e no, non sono affatto salva. Quanto alla
paura, quella che più di tutte temevo si era concretizzata
… quanto tempo fa ormai? Mi sembravano giorni. No, di sicuro
non avevo più paura ora che lui se n’era andato
per sempre.
Tenevo
gli occhi chiusi, il respiro un flebile alito.
Sentivo
le voci non più confuse, ma sempre più distinte,
più chiare. Altre mani mi toccavano, una voce fra tutte si
fece largo.
«BELLA,
piccola mia …» Charlie aveva la voce rotta
dall’emozione, credetti che stesse piangendo.
«Pa
… pà, non … c’è
… più» balbettai, sconnessa, con un
mormorio indistinto.
«Shh,
non ti sforzare, tra poco sarai a casa tua.»
Sussurrò lo sconosciuto al mio orecchio.
Quella
voce … mi sembrava di conoscerla. Sì
l’avevo già sentita, ma non apparteneva a qualcuno
che conoscevo bene, non riuscivo ad associarvi un volto.
Sentii
chiaramente il rumore dei passi sulla veranda, qualcuno teneva aperta
la porta, forse era Charlie.
Passi
veloci sulle scale. Poi, le forti braccia che mi stavano reggendo da
non so quanto tempo, mi depositarono sul letto come se fossi fatta del
più delicato dei cristalli.
Lo
sconosciuto disse con voce appena udibile, rivolto a mio padre
«Non mi pare che sia ferita, ma sarebbe meglio che la
visitasse un medico, credo che sia in stato di shock.»
«Certo,
certo … un medico. Lo chiamo subito, ti prego aspetta con
lei fino a che non ritorno.»
Silenzio.
Passi di Charlie verso il basso.
«Bella,
Bella mi senti?» Delle dita morbide, mi sfiorarono la fronte.
«Ti
ha lasciato sola nel bosco, vero?» Era rabbia repressa quella
che sentivo nella sua voce?
Un
sospiro basso, poi: «Glielo concedo, basta che si sia tolto
di mezzo per sempre.»
Ma
chi diavolo era costui? Come faceva a sapere tutte queste cose di me,
di noi?
Non
trovavo la forza di aprire gli occhi, volevo guardare il viso
dell’uomo che mi aveva soccorso, ma la stanchezza pesava
sulle mie palpebre come un macigno, e dei brividi cominciarono a
scuotermi violentemente. Sembrava che fossi in preda a delle
convulsioni.
Mi
sentii avvolgere da una coperta pesante e stringere forte.
Tra i
miei capelli un sussurro: «Calmati, calmati … Con
il tempo passerà, dimenticherai tutto. Nessuno ti
farà più del male, lo giuro.»
Il
tempo, ancora lui, ancora una volta mio nemico.
Altri
bisbigli, sussurri incomprensibili, un dolce dondolio. Scivolai
lentamente nell’incoscienza e nel torpore.
EDWARD
Ero
all’aeroporto. Non mi interessava davvero raggiungere una
meta precisa.
Avevo
scelto l’America Latina. Abbastanza caotica, affollata da
derelitti e disperati da poter passare di sicuro inosservato. Uno in
più non faceva di certo differenza. In fondo un posto valeva
l’altro.
Era
notte, vagavo tra un terminal ed un altro assente, fino a che non mi
lasciai cadere su una poltroncina in una piccola ed anonima sala
d’aspetto. Dovevo attendere la coincidenza con Rio, il
display segnava un’ora di attesa. Erano le 2.23. Ma tanto il
tempo non era più un problema, ed io sapevo essere molto
paziente.
Non ero
tornato a casa, ma mi ero diretto subito all’aeroporto. Non
stavo raggiungendo la mia famiglia, no, credo che loro si fossero
diretti ad Ithaca. Non potevo restare vicino ai miei familiari, non
l’avrei sopportato. Sentire i loro pensieri, ascoltare il
loro biasimo, la loro compassione … non ero da
compatire, ma solo da condannare. Ero io la causa del mio male, io mi
ero cacciato in questa situazione, avevo cacciato entrambi in questa
situazione. Non mi importava di soffrire e di ardere
all’Inferno per l’eternità, ma
trascinare Bella con me era tutto un altro discorso. Non avrei mai
potuto permettere che succedesse: essere io la causa della sua
sofferenza, il motivo per cui avrebbe abbandonato tutto senza battere
ciglio, famiglia, amici, la possibilità di avere figli, il
motivo per cui avrebbe rinunciato alla sua anima … la sua
anima, la più pura tra tutte, la più meritevole
… No, non l’avrei mai fatto.
Aprii
gli occhi, osservando l’orario sul tabellone elettronico.
Le
2.45. Sospirai, abbandonandomi allo schienale della mia seduta e
reclinando la testa all’indietro. Chiusi gli occhi. Da
lì dietro vedevo chiaramente il sorriso di Bella, sentivo
perfettamente il suo profumo.
Altra
occhiata all’orario.
Le
2.47. Era morbida, calda. Le sue labbra sulle mie, il più
gentile e soave dei tocchi …
Mi
agitai sulla poltroncina, divenuta improvvisamente scomoda.
Le 2.48
. L’avevo desiderata con ardore, ma avevo saputo celare bene
i miei sentimenti ed ero riuscito sempre a ritirarmi quando la
situazione si faceva troppo … incandescente.
Ora la
poltrona era diventata carbone ardente. Con uno sforzo immane della mia
residua volontà cambiai il corso delle mie riflessioni.
Pensare
a lei mi faceva male, mi scoppiava il cranio. Ma non pensarla era
ancora peggio, era solo tormento senza un attimo di sollievo. Quanto
male le avevo fatto? Non ci eravamo allontanati troppo dal sentiero che
conduce a casa sua, ma se non fosse riuscita a ritrovare la strada?
Avrei dovuto aspettare nell’ombra, per assicurarmi che stesse
bene.
Scossi
il capo, raddrizzandomi. No, non avrei resistito alla tentazione di
avvicinarmi, implorarla di dimenticare tutte le terribili bestemmie che
avevo proferito poco prima e stringerla a me.
Avevo
lasciato un biglietto a Charlie in cucina, giusto per sicurezza. Poi,
ero salito in camera di Bella, nascondendo alla sua vista tutto quello
che, in futuro, avrebbe potuto ricordarle la mia presenza, senza
indugiare troppo. Mi ero voltato lanciando un ultimo, fugace sguardo al
mio santuario personale. Avevo inspirato profondamente
un’ultima volta, registrando l’immagine della
stanza, memorizzando il suo odore, ed ero fuggito via.
Altra
occhiata all’orologio, altro sbuffò.
Le
3.14. La speranza che il mio gesto avrebbe permesso a Bella di vivere
la vita che meritava, era l’unico balsamo che avrebbe potuto
lenire le mie ferite, e che mi avrebbe dato la forza per restarle
lontano. Mi torturava, però, l’incertezza.
Forse,
quando fosse trascorso un tempo ragionevole, sarei potuto andare a dare
un’occhiata, solo per assicurarmi che stesse bene
… e se l’avessi trovata felice, mi sarei eclissato
immediatamente.
Le
3.20. L’ora era finalmente passata.
Sospirai,
alzandomi e dirigendomi al mio imbarco. Il tempo non sarebbe stato
più un problema, è vero, ma, lontano da Bella,
sarebbe diventato il peggiore di miei tormenti.
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