robulau
[Sono
la prima che odia le note prima di una storia, tuttavia, suppongo siano
necessarie alla fine della comprensione dello scritto stesso,
trattandosi di personaggi a cui il benedetto Hima (gioia e dolori di
noi fan, risiedono nell'autore stesso. Quanto è speciale
questo fandom.) non ha ancora dato o un nome o un volto.
I nomi
usati nella storia si riferiscono a:
Romania:
Serghei Radulescu
Bulgaria:
Petar Levski
Norvegia:
Sigurd Amundsen
OC!Serbia:
Josif Karadordevic
OC!Albania:
Larush Hoxha
Ungheria:
Erzsébet Hedervary
Germania
Magna: Ariovisto Dei Vosgi
Nonno
Roma: Augustus Vargas.
I due personaggi originali, insieme agli altri, sono stati
sviluppati dai rispettivi creatori nel roleplay su Facebook.
A parte Serghei (modestamente, ruolato divinamente dalla sottoscritta),
ringrazio quindi Nora (Sigurd), Altea (Josif), Larush (che non credo
avrà mai intenzione di dirmi il suo nome reale), Monica
(Ariovisto) e Nadia (Augustus). E Giorgetta, perchè la sua
Ungheria é la mia Ungheria.
Credo di aver finito con i ringraziamenti.
O forse no.
Forse manca la persona che non solo mi ha assistito nella stesura di
questo capitolo (sopportando le mie lacrime) ma che ne é
anche artisticamente coinvolta, considerando che molte delle idee, sono
state partorite da lei. Esattamente come il personaggio di Petar. Voi
non avete idea di cosa significi avere a che fare con una me stressata,
lei si. Ha scritto persino l'intro. Bella lei.
Quindi, ringrazio la mia rolepartner, la mia Valo. Minua
rakasssssssssudelma suudelma suudelma.
Che probabilmente mi bloccherà ovunque, dopo una
dichiarazione del genere e bloccherà qualunque rotta aerea e
ferroviaria.
Buona lettura e grazie per esservi prestati a questo sproloquio assurdo.]
"Ed il futuro stava fuori
dalla new wave da liceale
così speravo
di ammalarmi
o, per lo meno, che si
infettassero i bar."
C'erano venti centimetri che dividevano le finestre delle loro camere.
Quando erano piccoli, era stato divertente legare due scatole di
alluminio vuoto con uno spago e persino venti centimetri diventavano
un'avventura, un esperimento di comunicazione e lo diventarono
così tanto da lasciarli svegli le notti intere a
parlottolare a
stupirsi di quando sembrasse di essere sul serio vicini.
I signori Radulescu e Levski, convennero che sequestrare quei
rudimentali telefoni era la cosa più giusta da fare per
salvare
i loro bambini da precoci occhiaie di stanchezza e frequenti
disattenzioni a scuola. Serghei e Petar, comunque, non si erano mai
persi d'animo ed il pomeriggio, dopo la scuola, giocando in riva al
fiumiciattolo al limite del quartiere popolare, avevano continuato a
confabulare, ad ordire piani e complotti per ritrovare la loro preziosa
invenzione.
A nulla era valso: i loro genitori erano stati davvero furbi. Il
telefono di spago passò nel dimenticatoio nel giro di
qualche
settimana.
Il Serghei bambino, però, nel trovarselo tra le mani
casualmente
-mentre era alla ricerca della felpa nera porta-fortuna, quella che
metteva sempre prima di un compito importante- avrebbe fatto i salti di
gioia e sarebbe corso ad annunciare la vittoria al suo vicino di casa,
il suo migliore amico. Il Serghei adolescente, invece, socchiuse gli
occhi sondando la ruggine sull'alluminio, lo spago ancora intatto, con
perplessità: non sarebbe corso dal suo vicino di casa, ma si
limitò a guardare fuori della finestra a venti centimetri da
quella di Petar. Venti centimetri di invadenza.
Lasciò cadere i barattoli in un angolo dello sgabuzzino e si
avvicinò agli infissi, chiuse le tende dopo aver constatato
che
a dieci minuti dalle inizio delle lezioni, il suo vicino se la stava
ancora bellamente dormendo.
Ora, il suo cervello avrebbe potuto piegarsi a laconici pensieri
rivolti alla labilità delle cose soggette al tempo, a quanto
questo le cambi da renderle quasi irriconoscibili... Ma non lo fece, si
limitò ad arricciare il naso, avvertendo la vibrazione del
cellulare nelle tasche dei jeans logori.
||
Whatsapp > Sigurdino ||
"Fossi
in te, non fermerei la bici al solito posto. Stanno scomparendo
misteriosamente le catene di quelle che ci sono.
Inclusa
la mia."
||
Whatsapp > Arturino ||
"Hanno
fregato la catena della bici di Sigurd, fossi in te non gli rivolgerei
parola oggi. Se già l'hai fatto, procurati dell'acqua santa."
Alzò gli occhi al cielo pigiando il tasto del bloccaschermo
e
giudicando che, sì, forse era il caso di andare a piedi ed
evitare la soddisfazione dell'ennesima catena a quei trogloditi degli
amici del suo vicino, appunto. Irritato anche dal mancato ritrovamento
della felpa portafortuna, si chiese quando avrebbe resistito al compito
di chimica, quanto avrebbe resistito all'impulso di prendere a calci i
propri compagni di classe e -sopratutto- a quanto avrebbe resistito
vivo con Sigurd d'umore nero.
Sorrise furbo, mentre chiudeva l'uscio di casa e passava velocemente
davanti la casa accanto: almeno lui sarebbe arrivato in orario.
***
"Novembre
mio, facevi freddo: la fronte frigo e il polso a zero.
Sporcare specchi era narcosi.
Potrei scambiare i miei "le ore" con te?"
Una vibrazione, proveniva
dal cuscino. Il ragazzo mugugnò e rotolò al lato
opposto del letto.
||Whatsapp
> Jos ||
"Bre,
ma che cazzo di fine hai fatto?"
Ancora vibrazioni, lui si lamentò dopo un respiro profondo,
non intenzionato a dare adito al proprio cellulare.
||
Whatsapp > Larush ||
"Cazzo,
ti sei perso la faccia del frigido più biondo! Petar, dove
cazzo sei?"
Che poi, cosa ci faceva il telefono sotto il cuscino?
Ancora ad infastidirlo.
||
Whatsapp > Jos ||
"Bre,
sul serio, sei vivo?"
Non ci è dato sapere se aprì gli occhi per aiuto
divino o
solo per maledire la tecnologia, fatto sta che appena le iridi
smeraldine guardarono lo schermo del cellulare, lui scattò a
sedere, non per i trenta messaggi non letti ma per l'ora assurda in cui
aveva deciso di svegliarsi: festeggiare il compleanno di Larush, la
sera prima, non era stata proprio una grande pensata ma come avessero
fatto, i suoi amici, a svegliarsi e ad avere la forza di portare a
termine i loro loschi piani, restava un mistero per lui che ancora
doveva riuscire a distinguere la destra e la sinistra.
Evidentemente, esisteva chi ci nasceva con la propensione a fregare il
prossimo: lui non era tra quelli, ci si era solo ritrovato in mezzo.
Sbadigliò profondamente. Avrebbe voluto alzarsi velocemente,
vestirsi velocemente e correre a scuola: era sicuro che l'ennesima nota
di ritardo avrebbe sancito definitivamente l'addio alla promozione.
Rischiava, lo sapeve, ne era conscio e nonostante questo il corpo non
voleva collaborare.
«Cazzo. Cazzo. Cazzo.»
La formula magica: s'era appena ricordato che non aveva potuto evitare
l'ennesimo furto ai danni di chi, tornato a casa, avrebbe disturbato la
sua quiete accendendo lo stereo fisso sul metal, facendo tremare le
pareti della sua camera. Poteva ancora fare qualcosa?
Si alzò iniziando a prepararsi, saltellava e inciampava
nelle
proprie cose disseminate sulla moquette ed abbassandosi sotto il letto,
infilandovi una mano per pescare la scarpa destra, trovò un
tramezzino: da quanto tempo era lì?
Non c'era tempo per pensare a queste bazzecole.
«Cazzo. Cazzo. Cazzo.»
«Buongiorno anche a te, amore mio.»
E se Petar stava correndo, fece la sua entrata in cucina, in moviola,
dopo aver udito la voce dolce della madre. Finse nonchalance quando
prese la tazza di caffè che lei le porgeva e mentre le dava
un
bacio su una guancia: era meglio che la signora Levski non diventasse
connivente della sua drammatica situazione scolastica, risparmiarle
piccole delusioni, almeno di facciata, lo rendeva abbastanza sfrontato
da essere un attore perfetto, quel mattino rannuvolato di speranze di
pioggia.
«Sei in ritardo?»
«No, entriamo un'ora dopo, ti pare!»
«Ah. Perchè ho visto Serghei uscire almeno un
quarto d'ora fa.»
«Cosa vuoi che me ne importi se quello preferisce andare a
scuola prima, invece di dormire.»
Un'interpretazione da oscar, seduto al tavolo della cucina. Unico
sintomo di una certa agitazione era il piede che tamburellava a terra,
quello, però, la signora Levski non poteva vederlo. Si
complimentò con sè stesso per la prontezza dei
riflessi
nella risposta e fu impossibile non pensare al proprio vicino di casa.
Il suo cervello, piuttosto, si lasciò coinvolgere in
pensieri
laconici riguardo il tempo 'chè in fin dei conti non aveva
mai
trovato una spiegazione al perché le cose potessero cambiare
senza che ci si potesse opporre. In realtà, non c'era mai
stato
un evento scatenante, un punto di rottura, qualcosa a cui poter
rimediare: percorsi diversi, supponeva, amici diversi, interessi
diversi. Un giorno si era accorto che Serghei non faceva più
parte attiva della sua vita se non come il vicino di casa rumoroso o il
compagno di classe strano, circondato da gente strana.
Ora, non che Serghei fosse mai stato uno sfoggio di
normalità:
aveva questa fissazione per i vampiri e una certa tendenza per il
macabro già da bambino, però, a lui aveva sempre
divertito. Non era mai stato un elemento di divisione ed, ogni tanto,
gli mancava finire al fiume nel completo nulla, come avevano fatto fino
alle medie.
Sembrava che con le superiori, Serghei, non avesse avuto più
tempo per ricordare di essere solo un ragazzino e Petar, certamente,
non aveva avuto le forze per ricordarglielo, giacchè la
situazione, in casa sua, aveva iniziato a diventare sempre
più
asfissiante tra il licenziamento della madre e una crisi cui sentiva il
peso proprio dietro la noce del collo.
Era stato più semplice distrarsi senza aggiungere altre
preoccupazioni: il Petar quattordicenne non sapeva che non avrebbe
più potuto recuperare un rapporto che si stava incrinando,
il
Petar diciassettenne ne prendeva atto e si limitava ad osservare la
testa bionda di Serghei due banchi più avanti e la sua mano
che
scattava per dare la risposta giusta mentre la propria mente non poteva
fare a meno di ricordare che quello, comunque, restava il bambino che
colorava gli alberi di bordeaux alle elementari.
***
"Tremavo un
po'
di doglie blu
e di esistenza inutile
vibravo di
vertigine."
«Lo sapevo che avrei dovuto trovare la felpa, la sfortuna si
è catapultata su di me.»
Le mani tenevano le sbarre del cancello, neanche fosse un condannato in
carcere. D'altronde, vista in un'altra ottica, chi era chiuso in un
edificio erano i suoi amici che lo guaravano dall'interno della scuola.
Andare a piedi non era stata una genialata: aveva visto sbarrarsi
l'entrata a cento mentri senza poter fare nulla.
Saltava il compito di Chimica e aveva vanificato un'assenza per nulla.
A niente sarebbero servite le parole di consolazione dei suoi compagni
anche perchè né Sigurd né Arthur
-tantomeno
Natalya- gliene avrebbero mai rivolte, anzi, lo guardavano con biasimo
e commiserazione.
" Volevi fottere il
sistema venendo senza bici, il sistema ha fottuto te":
il norvegese fu crudele e caustico ma anche terribilmente realista. Ed
anche un po' piccato dal furto di quella mattina. Serghei avrebbe
potuto spiegargli che a fine giornata le catene sarebbero tornate al
loro posto: solitamente, erano a lui che non tornavano mai
perchè un certo albanese si divertiva più del
dovuto a
vederlo tornare con la bici in spalla. Restò in silenzio,
tuttavia, per una piccola vendetta personale.
" Smettila con questa
cazzo di felpa, fa pure schifo.":
che bella cosa l'amicizia. Avrebbe potuto rispondere all'inglese,
invece, che la sua felpa porta-fortuna, poteva fare anche schifo ma
almeno lui non aveva dei procioni al posto delle sopracciglia e glielo
avrebbe detto se solo un'apparizione non gli si fosse affiancata.
"Affiancata" era un eufemismo perchè sembrò quasi
investirlo. Petar correva e si fermò giusto in tempo, con
stridore delle gomme sull'asfalto e puzza di freni bruciati ma almeno,
alla sua bici non mancava nulla. Ad un millimetro da Serghei che,
teatrale, si era appoggiato al cancello con gli occhi sgranati, non
potè fare a meno di scoppiare a ridere, fingendo fosse tutto
calcolato quando aveva sul serio temuto di dover portare il romeno al
pronto soccorso: va bene riallacciare i rapporti ma era sicuro quello
non fosse proprio il piede giusto.
«Complimenti, Levski, vuoi diventare anche un assassino,
ora?»
Corrucciò le sopracciglia alla voce piatta di Amundsen e nel
guardarlo si rese conto, finalmente, che era rimasto chiuso fuori.
Ancora.
La risata scemò fino a diventare un suono secco e gutturale,
quasi gracchiante.
«No. No. No.»
Anche il ragazzo appena arrivato, lasciando cadere la bicicletta, si
appese alle sbarre del cancello, guardando con malcelata disperazione
l'edificio e ignorando l'altro alle prese ancora con il batticuore ed
il fiatone di chi s'è visso passare una -seppur breve- vita
davanti. Scansato l'omicidio, non aveva idea di come scansare, in
ordine: la bocciatura, una delusione alla famiglia ed un manrovescio
dal padre che -nonostante l'età- ne sapeva dare ancora di
belli
tosti. Valutò l'ipotesi che, forse, la vita in cella avrebbe
potuto rivelarsi, sorprendentemente, migliore di quella che gli si
prospettava, d'istinto, quindi, girò il viso a guardare un
Serghei ancora eccessivamente sconvolto e questo gli fece increspare le
labbra in un sorriso.
«Va bene, scusami Serghei.»
«Potevo morire!»
«Sul serio? Dicono che tu sia già morto.»
«Scusa, colpa mia.»
L'ultimo a parlare era stato Amundsen e diceva la verità:
era
proprio lui a mettere in giro voci sulla presunta non-morte di Serghei,
avvalorando le sue tesi con mistici racconti in cui il riflesso nello
specchio del rumeno risultava inesistente. Alle volte erano racconti
così verosimili che persino a Petar sembravano reali, se non
avesse saputo che i Radulesco non avevano perso, davvero, il primo
figlio, probabilmente avrebbe girato alla larga dal tipo strano accanto
a lui, che in quel momento provave ad afferrare un norvegese.
Dopotutto, Sigurd, s'era limitato a fare la propria uscita di scena,
insieme ad Arthur, non appena l'ultima campanella rintoccò
per
l'ultima volta, lasciando un quantomeno distrutto Radulescu sulle
soglie di una crisi di nervi. Perchè, poi, fosse
così
sconcertato, Petar non riusciva a capirlo: non rischiava di perdere
l'anno per un'assenza striminzita. Il compito di chimica fu come un
lampo a ciel sereno che squarciò il buio della sua mente:
ecco
che si susseguivano, una dopo l'altra, disgrazie che lo convincevano
sempre di più a voler scegliere una vita da carcerato.
Sbuffò amareggiato dal destino che sembrava accanirsi su di
lui
e si chinò a riprendere la bicicletta e salire di nuovo sul
sellino, facendo un passo avanti, lasciò che la ruota
toccasse
appena il polpaccio dell'altro.
«Sali, ti do un passaggio.»
«Io non ci torno a casa. Chi lo dice a Vlad che ho saltato il
compito. Manco morto. Ma poi tu che cazzo vuoi da me?»
La ruota fece più pressione sul polpaccio del rumeno. Alcune
cose non cambiano mai: il carattere dolce di Serghei, per esempio.
Petar alzò gli occhi al cielo non intenzionato a restare un
quarto d'ora per convincerlo come quando erano bambini. La ruota
salì sul piede altrui, schiacciandolo appena e l'altro lo
tirò via assumendo una delle espressioni più
funeste di
cui fosse capace. Non attaccava: il bulgaro ne aveva viste di peggiori.
Quella del signor Vlad, per esempio, gli aveva tormentato i sogni per
lunghe notti, alle elementari. Si spalmò una mano sul viso e
gli
fece cenno di salire sul manubrio. Certo, erano cresciuti ma era ancora
sicuro di farcela.
«Muoviti, non ti porto a casa ma se non ti muovi...»
«Cosa? Mi uccidi?»
«Dracula Senior non passa di qui per andare a
lavoro?»
Detto fatto: il ragazzo si catapultò al suo posto e lui
dovette
fare ricorso a tutta la forza per reggere la bicicletta in quelle
condizioni, così, all'improvviso. Non era stato
così
difficile, poi. Sorrise ancora, nascosto dietro la schiena dell'altro,
gli sembrò sul serio, per un momento, di tornare indietro e
dovette convenire sul fatto che non tutti i mali venivano per nuocere.
Non che sperasse in un ritorno al passato, tuttavia, tra il trascorrere
una giornata in solitudine a patire per le disgrazie, dividere il peso
con qualcun'altro risultava la prospettiva migliore: mal comune mezzo
gaudio. E quello che era il suo amico di una volta, doveva essere
nascosto lì, oltre la t-shirt degli Haggard, dei piercing
alle
orecchie e le parole mai gentili, doveva essere nascosto da qualche
parte e, forse, non sarebbe stato difficile trovarlo tra quattr'ossa
che sembrava si tenessero unite per scommessa. Preso in quei pensieri,
sbandò leggermente, perdendo l'equilibrio e fermandosi
giusto in
tempo per evitare una rovinosa caduta.
«Gesù Cristo, spero non ti mettano mai in mano una
macchina!»
«Se magari la smetti di agitarti!»
«Se magari la smetti di attentare alla mia vita!»
Non riuscì a trattenere una risatina e si sporse di poco per
poggiare il mento sulla spalla dell'altro per guardare in che direzione
andare.
«E dai, stai calmo, Sergino...»
Quel vezzeggiativo era "il"
vezzeggiativo: non lo sentiva da quanto? Qualche anno? Fu abbastanza
per farlo stare zitto per qualche momento, il momento giusto
perchè Petar potesse riprendere a pedalare in pace e lui,
Serghei, strinse solo le mani intorno all'asse di ferro che lo
manteneva. 'Chè fu prepotente lo slancio che lo
riportò
ai pensieri che quel mattino aveva scansato abilmente e si chiese se
l'altro avesse voluto catapultarlo consciamente nei ricordi o se, molto
più probabilmente, era solo stato un caso dovuto ad una
presa in
giro. Com'era stato possibile, trasformare facilmente uno squallido
quartiere popolare in un posto fantastico e mitico, con lui e perderne
le tracce in modo altrettanto facile.
C'era stato un tempo in cui le mura umide e grigie delle villette a
schiera avevano smesso di spaventare due bambini, diventando rifugi
perfetti per un qualunque attacco zombie. Un tempo in cui, in vicoli
nascosti perennemente dal sole, riuscivano a trovare tesori: che si
trattasse di una molletta caduta da qualche balcone, poco importava. E
poi, poi c'era il fiume che in fin dei conti era solo un rivoletto
d'acqua che impietoso delimitava le loro abitazioni da quelle
più illuminose. Quando pioveva, c'era la piena e loro
uscivano
nei loro impermeabili gialli e nelle piccole galosce a costruire dighe
di pietre che il giorno dopo non avrebbero ritrovato.
Si mantenne meglio, ridusse gli occhi a due fessure.
C'erano quegli alberi che non riusciva mai a colorare bene ed una volta
Petar aveva ascoltato dai suoi genitori che Serghei era daltonico,
quindi il giorno seguente di alberi bordeaux, s'era fatto coraggio e
fingendo sicurezza aveva rimbeccato tutti i compagni di classe: non
dovevano ridere, perchè, "Sergino è dalonico" .
Quando avevano iniziato a cambiare così
prepotentemente?
La frenata brusca quasi non lo faceva cadere.
«Gesù Cristo Pastore di Giudea!»
«Allora, Serghei, abbiamo tre opzioni. Opzione a.: il fiume;
Opzione b.: il centro. E poi ci sarebbe l'Opzione C.»
«E cioè?»
Petar restò in silenzio e provò a non ridere,
nello sforzo poggiò la fronte sulla schiena di Serghei.
«Il cimitero.»
«Vaffanculo, ma quanto sei coglione.»
***
"Vespe
d'agosto: un caldo sciame
per
provinciali bagni al fiume"
Anche se il sole primaverile, dopo giorni di tempesta, riscaldava senza
scottare, Serghei aveva tirato sui capelli biondi il cappuccio della
felpa. Non è che non si godesse i raggi che illuminavano la
riva
e la roccia sulla quale lui era seduto e Petar era steso. Il rumeno
aveva le gambe incrociate ed oscillava a destra e a sinistra seguendo
un motivetto che canticchiava a labbra strette, unico suono umano oltre
lo scrosciare dell'acqua.
Petar sii potè concedere di osservare più da
vicino le
sue spalle, indisturbato. Erano ancora sottili e minute, quelle di un
adolescente sottopeso: chissà se ancora nascondeva il cibo
nelle
maniche della maglietta, dopo averlo masticato per dieci minuti.
Probabilmente, ora, si decideva solo a lasciarlo nel piatto. Petar
chiuse gli occhi beandosi del tepore e del silenzio almeno fino a
quando Serghei non lo urtò per prendere qualcosa dalla sua
borsa, proprio la sua, quella di Petar. Quest'ultimo nell'alzarsi di
scatto e nell'urtarlo, rischiò di farlo scivolare in acqua:
ancora si stupì della propria prontezza di riflessi, quando
allungò una mano per afferrargli il braccio. In quel
contatto ed
in quella presa forte si guardarono, in silenzio ma con le labbra
schiuse per lo stupore e le espressioni spontanee di chi non
s'aspettava una tale velocità.
Furono istanti di limbo e di sospensione oltre i limiti di tempo e
spazio ed entrambi si chiesero se fossero soli in quella inspiegabile
sensazione di predestinazione. Loro non potevano certo saperlo ma era
un'impressione pienamente condivisa che non si estinse neanche con
l'interruzione del contatto fisico e del contatto visivo.
«Guarda che non volevo rubarti nulla, volevo solo prendere il
tuo
libretto delle giustifiche per controllare la firma dei tuoi.»
La voce di Serghei risultò quasi infantile e mortalmente
imbarazzata mentre tornava ad infilare le mani nella tracolla sotto lo
sguardo perplesso del bulgaro che ancora doveva scuotersi dalla
sensazione. Non riusciva ad identificarle se solo come diversa o anche
disagevole.
«Cosa--- cosa vuoi fare?»
Ma l'altro non gli rispose, strappò un foglio dal quaderno e
si
appropriò anche di una penna che fece scattare sul proprio
ginocchio. Poggiò poi il quaderno sulle gambe di Petar e si
bloccò ad osservare i quadretti bianchi.
«Sono un grafomane. Riesco a imitare quasi perfettamente
qualunque firma.»
«Un cosa?»
«Sh.»
Alzò due dita per zittirlo, premendogliele sulla bocca. Si
guardarono ed entrambi inarcarono le sopracciglia, ognuno stupito da
quella familiarità che sembrava essere tornata d'improvviso
e
senza che potessero accorgersene. Serghei deglutì e
scrollò le spalle, tornò al foglio giustificando
il
proprio comportamento con uno: "Se parli non mi concentro." e Petar
obbedì restando in silenzio, non sapendo cosa aspettarsi di
veder accadere sulle proprie gambe, o meglio, sul foglio poggiato sulle
proprie gambe.
In effetti, qualcosa accadde: con la penna, il romeno
tracciò
perfettamente la firma del Signor Levski. Era sorprendente: non poteva
credere ai suoi occhi. Alzò il quaderno davanti ai propri
occhi
assottigliando lo sguardo: era assurdo. L'altro, d'altronde, si godeva
lo stupore altrui con un'espressione quantomeno tronfia e
soffiò
sulla penna come fosse la canna di una pistola.
«Nessuno dei due avrà grattacapi a casa. Guarda
come la mano di Dio si poggia sul tuo libretto e crea.»
A parte la teatralità, ben presto entrambi i libretti furono
forniti di firma sotto lo sguardo ancora incredulo del bulgaro.
Chi al liceo imparava a fottere il prossimo, chi imparava cose ancora
più strabiliante. Gli passò per la mente di
proporgli una
collaborazione ma conscio del modus pensandi del romeno, sapeva che si
sarebbe comportato alla stregua di uno strozzino quindi decise di farsi
bastare quel piccolo favore.
«Ma ti rendi conto che hai una dote che non sfrutti? Non fai
praticamente mai assenza!»
«Prego, tu sei scemo. Io faccio assenze
intelligenti.»
Ora, Serghei aveva scansato già una volta una rovinosa
caduta
nel fiume. Non poteva andargli bene anche la seconda ed, in
realtà, le intenzioni di Petar erano solo quelle di dargli
una
lieve spinta, non quelle di farlo tuffare interamente. Inutile dire che
iniziò a ridere anche in quel caso senza riuscire a dargli
una
mano per uscire.
«Ah, porca puttana se sei stronzo!»
Ma lui continuava a ridere fino alle lacrime mentre lo sfortunato si
liberava di felpa e di shirt ormai zuppe e fu allora che la risata gli
morì in gola diventando una tosse fastidiosa, sintomo di un
grave imbarazzo che dissimulo coprendosi gli occhi con entrambe le
braccia, giustificato da un: "Oddio, sei così bianco da
riflettere la luce del sole", seguito da un perentorio: "Ma mi hai
preso per Edward Cullen, cosa sei: una ragazzina in calore?!".
Abbassò di poco le braccia per guardarlo uscire dall'acqua
mentre saltellava a destra e sinistra per liberarsi dell'acqua in
eccesso, lo vide strizzare gli indumenti e benedì che non si
fosse tolto anche i pantaloni, preferendo non interrogarsi su un tale
imbarazzo per qualcuno che conosceva sin da bambino.
«Cosa guardi? Mi si stanno gelando le palle.»
«Aspetta... ma che sono quelli?!»
Sulle anche di Serghei, brillavano quelli che sembravano a tutti gli
effetti due placche di metallo, gli faceva senso persino guardarli
eppure l'altro si guardò intorno costernato, come a cercare
qualcosa prima di intercettare a cosa si riferisse.
«Questi? Sono microdermal. Mai visti prima?»
Il bulgaro boccheggiò e non dovette tenere troppo lo sguardo
altrove perchè l'altro si girò. Pensò
che le
sorprese fossero finite ed invece, dietro il collo aveva il tatuaggio
di una croce che finiva tra le scapole. A quel punto annaspò
togliendosi la giacca di pelle, ben intenzionato a mettere fine a
quello scempio visivo.
«Vuoi la mia giacca?»
Non lo ringraziò, quando allungò le mani per
afferarla e
per infilarla. Non lo ringraziò semplicemente
perchè
riteneva il minimo, un gesto del genere, considerando che la colpa era
del bulgaro se ora si trovava fradice persino le mutande.
«Ma... Non serve un permesso per farli? Non sei ancora
maggiorenne.»
«Allora, se tu sei un cretino non è colpa mia.
Ricordi: grafomane.»
Alzò le mani davanti al viso, agitando le dita.
«Queste fanno miracoli. Sono o non sono le mani di
Dio?»
«Quanto sembri frocio con quei cosi, Sergino.»
«Ti piacerebbe lo fossi. Le ragazze li amano.»
Né l'uno specifiò che sì, non gli
sarebbe
dispiaciuto se l'altro fosse vagamente tendente al frocio,
né
l'altro specificò che non aveva la più pallida
idea, in
realtà, di cosa piacesse alle ragazze. Petar
saltò
giù dalla roccia e battè le mani tra di loro per
pulirle,
poi restò a guardare Serghei che sembrava davvero iniziare
ad
avere freddo, scosse il viso accorgendosi che la giornata iniziava a
prendere davvero contorni misteriosi ed enigmatici.
Ed era solo la prima mattinata: cosa sarebbe successo ancora? Un attaco
nucleare?
Il romeno infilò la tracolla e le mani nelle tasche della
giacca, vi trovò le sigarette e senza neanche chiedere il
permesso ne prese una e l'accese. Iniziò a camminare e
Petar, recuperata la bicicletta, lo accostò portandola in
mano e senza salirci e senza capire dove fossero diretti. Avrebbe
voluto dire qualcosa di brillante per rompere il silenzio che era
caduto su di loro ed invece aveva il vuoto nella mente. Guardava
Serghei con la coda dell'occhio, il ragazzo era accigliato, con i
capelli che bagnati gli aderivano al viso e fumava con una tale fretta
da sembrare ancora più irritato. In realtà lui
non si era mai sentito in dovere di rompere i silenzi solo che quello
che incombeva su di loro, iniziava ad intinuarsi tra loro. Era un
silenzio saturo di parole che nessuno dei due era intenzionato a dire.
L'ammasso di case e grattacieli si faceva sempre più vicino
e la luce del sole diventava più rada ad ogni passo.
Ritornare al contemporaneo, il tempo in cui le cose che avevano in
comune erano poche fu veloce come la familiarità di qualche
momento prima.
Allungò una mano per prendere le sigaretta dalla tasca della
giacca ancora addosso al rumeno e ne accese una anche lui, quello gli
trattenne il polso per guardare l'ora.
«Posso tornare a casa. Saranno usciti e io mi sto
congelando.»
«Vengo con te.»
Di nuovo non seppe spiegarsi quel volerlo seguire a tutti i costi come
non seppe spiegarsi il perchè l'altro avesse annuito,
suggerendo poi di entrare dal retro.
Più la realtà del quartiere si avvicinava,
più i colori diventavano sbiaditi.
Espirò del fumo e si fermò un attimo a guardare
la serie di piccole villette a schiera.
Abbandonò la sigaretta neanche a metà e la spense
con un piede. Serghei, qualche passo più avanti, si
girò nella sua direzione, lo interrogò con gli
occhi.
«Sì, sì. Andiamo.»
Gli rispose con la voce perchè i suoi occhi si rifiutarono
di guardarlo oltre.
***
"Dei giorni scarni,
tutti uguali
fumavo venti
sigarette
e groppo in
gola di secca sete di te."
«OH DIO! OH DIO!»
L'aveva rifatto e Petar ci era ricascato, saltando seduto sul tappeto
con il controller della playstation in mano. L'altro, come le ultime
tre volte, finì a ridere rotolandosi.
Una cosa era certa: Silent Hill non faceva per il bulgaro anche -e
sopratutto- con Serghei che continuava ad urlare
all'improvviso trovando infinitamente divertente vederlo beccarsi dei
veri e propri colpi al cuore.
Si limitasse solo a deriderlo: il rumeno quasi piangeva per le risa
convulse e lui -finiti gli accenni di infarto- sorrideva quando
poggiava lo sguardo su quel cumulo di ossa e vestiti che si rotolava
sulla moquette. Mise in pausa il gioco ed aspettò
pazientemente che si calmasse e con tutta la serenità e la
sfacciataggine di cui era capace gli infilò il controller
tra le mani per poi spostarsi comodo dietro il ragazzo: la schiena
poggiata e le gambe piegate a circondare l'altro, si
sbilanciò persino a poggiare il mento sulla sua spalla per
guardare più comodamente lo schermo.
Serghei si zittì, si concentrò sul videogame,
sentendosi vagamente teso ma non fece nulla per sottrarsi a quel
contatto e neanche alle braccia che gli circondarono la vita.
«Cos'è? Troppa paura?»
«Sto meglio qui, mh?»
«Mh.»
Questa volta, il silenzio che era calato, non era tanto pesante quanto
complice di altri sensi: il rumeno sentiva, percepiva estremamente bene
la guancia dell'altro muoversi piano contro il suo collo, sentiva la
pressione del mento sulla sua scapola e le mani leggere poggiate sul
suo addome. Lo riconobbe in quella gestualità e si
riconobbe, nell'ignorare la sensazione di predestinazione dovuta a quel
tepore che sembrava cullarlo, cadde in un'inconscia e celata
accettazione dello stesso, rilassandosi gradualmente contro il petto
dell'altro che, d'altronde, avvertì il cambiamento e
preferì mantenere il silenzio, non più
perché non trovava cosa dire ma perché le parole
sarebbero risultate sempre troppo sbagliate, sempre troppo ridondanti.
Petar abbassò le palpebre sugli occhi verdi e in una piccola
frizione fece scivolare le labbra sul collo, il naso ed alla fine vi
poggiò la fronte.
«Serghei?»
Le parole del bulgaro gli accarezzavano la pelle, in un modo dolce ed
accennato come lo era stato il tono ed avrebbe risposto adeguatamente
se solo un rumore non avesse distrutto la sensazione e la situazione:
Petar alzò di scatto la testa, si guardarono interrogativi.
I signori Radulescu non sarebbero tornati a casa, vista la partenza per
un viaggio dopo il lavoro, quindi quella interruzione li
lasciò privi di qualunque difesa e vittime di un'improvvisa
ansia, di una certa confusione dovuta alla diramazione della nebbia che
si era impossessata delle loro menti.
«Se'?»
Avevano dimenticato qualcosa, effettivamente. Un piccolo particolare e
"piccolo" era una definizione giustissima perchè, appunto,
il piccolo fratello di Serghei era appena rientrato in casa da scuola
irrompendo nel salotto come solo un bambino poteva fare: lasciando lo
zaino e il giubetto leggero in giro per casa e saltellando entusiasta
di qualunque cosa. Nell'ingenuità di un bambino, il vedere
Petar risultò solo l'ennesima fantasmagorica cosa che gli
era capitata in una bellissima giornata di sole, complice perfetta di
giochi nel cortile della scuola elementare.
Se Serghei era fermo a boccheggiare calmando un principio di sincope,
l'altro si alzò tirandosi sopra anche lui.
Dimitrie si avvicinò tronfio sventolando un foglio sul quale
troneggiava una bellissima "A+" e non ebbe il tempo di dire altro
perchè si trovò a mezz'aria, sollevato da Petar:
era troppo, trovarsi davanti ad un mini-Serghei diametralmente opposto
nel carattere e sprizzante felicità e dolcezza, era
veramente troppo per resistere.
Il rumeno, benedì la vibrazione nelle tasche dei suoi
pantaloni per dissimilare quel velo di imbarazzo che si era appropriato
delle sue guance. La benedizione durò poco: aveva appena
appreso una notizia che "raggelante" sarebbe stato eufemistico.
«Sigurd dice che siamo finiti insieme per il progetto di
storia. Perchè eravamo entrambi assenti.»
«Sigurd,chi?»
«AH! Aiuto,
sto morendo!»
Nel salvare il fratello, staccandolo dalle braccia di Petar, non si
risparmiò la più funeraria delle espressione e
potè poggiare solo una carezza sulla testa del minore che,
liberò, scappò via, correndo sulle scale.
Sospirò irritato e si concesse un buffetto sulla spalla del
bulgaro.
«Siamo in classe da quattro fottuti anni. Quanti Sigurd
conosci?»
Non ricevette risposta, l'altro si era avvicinato grave, preoccupato,
si guardava intorno circospetto con l'impressione di chi ha da
confessare uno spaventoso segreto, si abbassò su di lui per
parlargli all'orecchio.
«Noi non diciamo ma il suo nome...»
Gli poggiò una mano sul petto per allontanarlo ma non
servì a nulla.
«Petar, no.»
«Lo chiamiamo...»
«Petar, basta.»
«...Tu-Sai-Chi.»
Il profondo respiro che partì dalle labbra strette del
romeno era sintomo di grande irritazione e il bulgaro sapeva bene di
star camminando, candidamente, sul filo della labile paziena romena,
sul punto di non ritorno e si sarebbe anche fermato se non fosse
così divertente punzecchiarlo. Serghei chiuse gli occhi,
respirò ancora profondamente, forse, stava ragionando sul
modo più semplice per ucciderlo e nascondere il cadavere.
Gli diede le spalle, portando entrambe le mani a massaggiarsi le tempie.
«Guarda che il progetto si fa "insieme", nel senso che studi
anche tu. Nel senso che non lo faccio da solo. Ora, togliti dalla mia
vista e... Devi uscire senza farti vedere. Prendi il retro.»
Petar avrebbe voluto fermarsi, avrebbe voluto non andare
così oltre, prendendo a calci immaginari la benevolenza
dell'altro che ancora non aveva provato a tagliargli la gola ma le mani
partirono da sole poggiandosi entrambe sulle natiche del più
basso che aprì gli occhi di scatto guardando davanti a
sè. Non era imbarazzato e neanche arrabbiato, quanto
raggelato dall'assurdità di quelle vicente.
«Di grazia. Posso chiederti che cazzo t'è passato
per quella particella di sodio che ti ostini a chiamare
cervello?»
«Me l'hai detto tu. Oh, tu: "Prendi il retro".»
Di come un giovane fu trascinato fuori di casa, letteralmente a pedate
sul suo di retro, gentilmente, uscito dal retro, questa volta della
casa, è sicuramente un'altra storia.
***
Come la realtà sia labile e soggetta agli occhi di guarda le
cose ed alla mente che le metabilizza, non è certamente una
novità, è una cosa ovvia che, tuttavia, s'era
fossilizzata nella mente di Serghei a cui poco importava delle lasagne
appena riscaldate nel proprio piatto. Spiluccava, elucubrava e tra una
tortura a una polpetta e l'altra, non s'era neanche accorto di
trovarsi, alle venti, seduto ancora al tavolo della cucina a guardare
la porta da cui era uscito Petar. Stava ancora capacitandosi che tutto
quello che era accaduto fosse, a tutti gli effetti, reale. Non era mai
stato un amante dei cambiamenti, anzi, per abituarsi anche alla minima
cosa ci metteva un tempo abbastanza lungo e, nonostante l'abitudine,
provava sempre un certo disagio al solo pensiero delle cose che
cambiano.
L'idea che il mondo intero, incessantemente, mutasse e si modificasse,
in definitiva, gli aveva sempre messo una certa ansia. S'era abituato
all'idea di fare a meno della presenza del suo vicino, come migliore
amico, nella sua vita, con non poche difficoltà.
Non è che avesse potuto fare molto: la distanza che s'era
instaurata fu infima perchè percepita davvero troppo tardi e
sembrò davvero che nessuno dei due avesse mai avuto
intenzione di riallacciare i rapporti.
Non una parola, non un saluto fino a quando di parole non ce n'era
più bisogno ed i venti centimetri che dividevano le finestre
delle loro stanze avevano iniziato a diventare davvero fastidiose:
Serghei finiva per ascoltare i discorsi di Petar, le risate dei suoi
amici che aveva detestato dal primo giorno di scuole ed alzava il
volume della musica all'inverosimile. Si alzò e raggiunse la
sua stanza, d'istinto scostò la tenda dal vento chiuso e
guardò la luce accesa della camera di fronte.
Petar non aveva scostato le tende e lui si chiese, davvero, cosa si
aspettava senza riuscire a trovare risposta. Uscì
chiudendosi la porta dietro, esattamente un secondo prima che una mano
scostasse il tessuto dalla finestra che lui s'era fermato ad osservare.
Nel suo maniaco programmare e riordinare tutto, quella giornata aveva
rappresentato una gigantesca ad anomala cosa fuori posto e dovette
ammettere che, dopo il trillo del campanello, trovandosi
Erzsébet sulla soglia con un ematoma sullo zigomo ed il
labbro inferiore spaccato, non accennava a sembrare normale.
Si scostò dall'uscio e con un pollice le fece cenno di
entrare.
«Ti ho portato il materiale per il progetto, me l'ha chiesto
Sigurd.»
Non l'ascoltò, lasciando la porta che si chiuse con un
rumore sordo. La osservava con le sopracciglia corrucciare, analizzando
ogni ombra scura del suo volto.
«E mi serve il vocabolario di francese, domani ho la
verifica.»
Con il mento le indicò le scale, sicuro che la seguisse
iniziò a salirle e la lasciò entrare nella sua
camera, lei si sedette sul letto come fosse in un ambiente familiare.
Serghei si arrampicò a una sedia per poter prendere il
vocabolario e glielo lanciò accanto, senza smettere di
guardarla accigliato. Le si avvicinò restandole in piedi, di
fronte e le alzò il mento con due dita per guardarla meglio
alla luce artificiale, passò il pollice sul taglio sul
labbro ed assottigliò lo sguardo.
«Che cazzo hai combinato?»
«Rissa a mensa. Larush è messo peggio.»
«Cazzo, che bulla che sei.»
«Cazzo, quanto sei sfigato tu.»
Il ragazzo lasciò scorrere la mano dal mento ad una spalla
per trovare appiglio e farla alzare. La guardo meglio, analizzandole
l'ematoma sotto l'occhio e cacciò uno sbuffo divertito.
Indietreggiò di un passo e -dopo aver cercato nell cassetto
del comodino- tirò fuori un tubetto di lozione. Le
lanciò anche quella e lei la prese al volo, senza
ringraziare.
«Comunque, le catene a Sigurd non sono tornate a fine
giornata. Lo sai che questo implica un susseguirsi di giornate di
merda?»
«No, cristo. Un momento, forse posso chiedere a
Petar.»
«Ma va'?!»
«Non. Iniziare. Nessuno è un personaggio di quei
tuoi fottuti giornaletti froci.»
Le tende della finestra del Bulgaro coprivano ancora il vetro ma
tentare, non costava nulla. Era come se avesse aspettato fino a quel
momento, l'attimo giusto, la giusta scusa per tornare a parlargli, ad
avere la sicurezza che di quella giornata appena trascorsa non fosse
svanito nulla e che qualcosa fosse rimasto all'altro, esattamente come
era rimasto a lui. Si sporse oltre la finestra, abbastanza per riuscire
ad arrivare a battere due colpi con la mano.
«Pet. Petar.»
E prima che potesse capire che lui l'aveva perfettamente sentito, si
ritrovò bagnato dalla testa ai piedi di acqua saponata.
L'unica cosa che seguì il tutto non fu una spiegazione ma il
vetro dell'altra finestra che sbatteva, il rumore di un
secchio che si spiaccicava a terra e le risate di Erzsèbet.
Come la realtà sia labile e soggetta agli occhi di guarda le
cose ed
alla mente che le metabilizza, non è certamente una
novità, è una cosa
ovvia che, tuttavia, non era neanche passata per l'anticamera del
cervello di Petar.
Era tornato a casa di buon'umore, così sereno che a nulla
erano valse le solite parole dure del padre per rovinargli il sorriso.
S'era anche offerto di pulire le stoviglie, tant'è che la
Signora Levski se ne stava affacciata alla finestra che dava sulla
strada, tranquilla. Lei ragionava su quei tipi di cambiamenti che solo
una madre può riuscire ad avvertire in un figlio: avvertire
ma non spiegare ed andava bene lo stesso perché si
prospettava una pacifica serata in famiglia, la conclusione di una
giornata che, per lei, era stata davvero estenuante alla ricerca di un
lavoro che non aveva comunque trovato.
Andava bene, andava bene sul serio se tornata a casa riusciva respirare
lo spiraglio di una certa stabilità. Lasciando vagare lo
sguardo sulla strada poco illuminata dai lampioni, aveva intercettato
la figura di una ragazza. La preoccupazione di madre, la
portò a tenerla sott'occhio, conoscendo un quartiere che non
si rivelava sempre uno dei più indicati per girare soli, una
volta calato il sole e le sopracciglia si rilassarono mentre le labbra
si increspavano in un sorriso furbo.
Lo sguardo era complice quando cercò quello del figlio.
«Ma guarda, Serghei ha la fidanzatina?»
Complici, gli occhi della madre, non trovarono altrenttanta
complicità in quelli del figlio che, asciugate le mani, si
fiondò accanto a lei alla finestra. Una madre le cose le
avverte, le nota: come una mascella tesa e le labbra serrate ed
irritate, laddove prima erano impegnate a fischiettare un qualche
motivetto.
«Quanto sono cretino.»
L'unica spiegazione che la signora Levski potè darsi di
quell'improvviso cambio di registro nel cambiamento del comportamento
di Petar -che scontrosamente se n'era andato, salendo le scale
furiosamente e sbattendo la porta della sua camera- fu che,
evidentemente, il figlio dei Radulescu aveva fatto colpo sul primo
amore di suo figlio. Sorrise, ripensando ai tempi del suo primo amore e
lo sguardo cadde direttamente al marito. Stanco, dormiva sul divano.
Lei sospiro e gli si avvicinò lasciandogli una carezza prima
di riprendere la pulizia della cucina.
Non poteva sapere che aveva ragione e diametralmente torto,
'chè il figlio steso sul letto si malediceva per aver
creduto in qualche cambiamento. Si chiedeva quanto valevano le
sensazioni e le percezioni se, dopotutto, ci si convince solamente che
siano condivise ed in fin dei conti si rivelano solo un'abissale presa
per il culo.
Eppure.... Eppure, lui aveva creduto, perchè sì:
ci aveva creduto in quella scossa elettrica che era partita da un
contatto e che s'era irradiata da corpo a corpo. Invece no, i fatti
parlavano chiaro o -almeno- parlavano chiaro a lui: la ragazza che
aveva visto, non era altri che quella tale della V B che vedeva spesso
a battibeccare con il rumeno.
Si sentiva un idiota: come poteva essere stato così cieco. A
quel pensiero, lanciò ancora più forse la pallina
di cuoio che aveva in mano, contro il soffitto: un piccolo antistress
che aveva sperimentato negli anni ma questa volta non la raccolse e
lasciò che gli cadesse prima in fronte per poi rotolare sul
letto e quindi a terra.
Si alzò a sedere e, girando il viso, nella direzione della
finestra di Serghei, allungò una mano a chiuedere la
tendina, indispettito. Cosa si aspettava, scostando una stupida tendina
qualche istante prima?
Ed appena chiusa, notò le ombre. Avrebbe voluto distogliere
lo sguardo ed ignorare ma fu difficile, vedere quelle sagome scure
così vicine ed ecco che la mente galoppava, immaginando
chissà quali scenari romantici. D'altronde, erano in piedi e
i loro volti sembravano troppo vicini.
Sbuffò irritato, intenzionato a pensare ad altro: non era
colpa di nessuno se non la sua che, evidentemente, s'era sul serio
immaginato qualunque cosa. Sarebbe stato più semplice,
certo, razionalizzare se solo Serghei non l'avesse persino cercato.
Sfrontato, sfacciato, insensibile rumeno.
Solo dopo aver vuotato il secchio che fortuitamente si trovava in
camera sua -che sua madre avesse lavato a terra?- si domandò
cosa cavolo gli fosse passato per la mente. Non aveva senso.
Eppure... poggiando la testa sul cuscino, non potè fare a
meno di sentirsi un minimo soddisfatto.
***
Serghei era sempre stato un tipo molto vendicativo, basti pensare alla
costanza con la quale faceva trovare, ogni mattina, le migliori delle
peggiori banane marce sul banco di Larush Hoxha. Perseguiva la sua
vendetta godendosene ogni momento, in generale: era freddo e
calcolatore se si trattava di agire per pareggiare i conti, anche con
una certa crudeltà. Ecco perchè le voci sul suo
presunto vampirismo, avevano avuto un ottimo terreno fertile.
Non aveva la minima intenzione di lasciare impunito il gesto del
bulgaro che gli avrebbe fatto meritare prese in giro per mesi, da parte
di una certa ungherese. La prassi delle sue vendette era uguale: lui
dava un certo preavviso, perchè, non si dica mai che non ha
avvisato. Lui è un gentiluomo.
Solitamente compariva all'improvviso davanti al malcapitato, godendo
degli attimi di smarrimento per poi annunciare in modo sempre teatrale
e mitico, che sfortune nefaste sarebbero accadute per mano di Baphomet
e Belial a cui lui -in un tempo non meglio precisato- aveva venduto la
sua anima in cambio di poteri misteriosissimi.
Era ancora un fascio di nervi mentre si trascinava nei corridoio della
scuola ed avrebbe anche ordito il migliore dei suoi complotti contro il
suo vicino di casa se solo, incrociatone lo sguardo sulla soglia del
bagno dei ragazzi, questi non gli avesse rivolto un'espressione di
disprezzo mista a malinconia che lo gelarono nell'anima che aveva
sempre finto di non avere.
Petar non lo salutò, lo ignorò superandolo e
lasciandolo in compagnia degli orinatoi. Serghei aveva perso il momento
per la sua annunciazione drammatica.
Si convinse che la morsa alla bocca della stomaco fosse dovuta solo a
quella superficiale delusione ma non era abbastanza cretino da
convincersene.
Trascorrevano i giorno e l'altro si limitava a quegli sguardi
raggelanti e lui non riusciva a spiegarselo.
Non poteva credere sul serio che si fosse immaginato tutto, che le
sensazioni e le remembrance fossero solo illusioni indotte dalla
speranza di poter aver ritrovato una parte importante della sua vita.
Non poteva credere che Petar fosse diventato così infimo da
finire a prenderlo per il culo in modo così completo e
perfetto.
"Il problema",
spiegò un pomeriggio ad un Sigurd quantomeno distratto dal
coltello della mensa che non voleva saperne di sbucciare la mela, "Il problema fondamentale
è che, alle volte, mi rendo conto che non sono
così cretino da non pormi certi problemi. Ma neanche
così poco cretino da potermeli risolvere. Che cazzo, sono un
cretino a metà, lo capisci?" ("Il problema"
rispose il norvegese, comunque, lasciando andare indispettito mela e
coltello sul tavolo "Il
problema fondamentale è che questi coltelli, probabilmente,
non mi serviranno ad ammazzare nessuno se non tagliano una mela. Anni
di speranze liceali andati in fumo.". Che bella cosa
l'amicizia. Ed alla fine, glielo sbucciò lui, quel maledetto
pomo della discordia.)
In ogni caso, il fatto di continuare ad essere ignorato di buona lena,
iniziò a passare dall'infastidirlo, al ferirlo lentamente:
era avvilente non trovare una spiegazione alle finestre sempre
ermeticamente chiuse e coperte dalle tendine, 'chè i venti
centimetri sembravano ormai incolmabili.
Era stato facile accantonare l'idea di Petar, in passato, adducendone
la motivazione solo allo scorrere del tempo ma avere la prova che il
tempo è relativo se le cose esistono e sono tangibili, per
poi ritornare al dimenticatoio, era qualcosa che lo rosicchiava da
dentro. Non trovare una spiegazione plausibile in tutto quel
razionalizzare, lo stava facendo letteralmente impazzire.
Un pomeriggio, dopo almeno due settimane di arrovellamenti, complice
una traduzione di Lucrezio davvero improponibile, con la mente
stressata da tutte quelle coniugazioni, all'ennesimo
"Perchè?", la risposta spontaneo fu un "Mi manca":
'ché con quale prepotenza s'era infilato di nuovo nella sua
vita per poi tornare ad ignorarlo? Perchè riportare
cambiamenti e disordine di ventiquattro ore e lasciarlo da solo a
smaltire le conseguenze? Perchè ritornare a ricordargli
com'era averlo accanto per poi mancargli così
prepotentemente?
Chiuse il dizionario al suono della campanella: avrebbe fatto qualcosa,
lo avrebbe messo alle strette laddove non avrebbe potuto sfuggirgli.
E Petar non poteva sfuggire alla lezione di ginastica. Non con il
professorone tedesco a tenerli d'occhio e pronto a riprenderli per ogni
calo di allenamento o rallentamento del passo. Non poteva.
E Serghei, non aveva mai avuto così piacere a recarsi in
palestra, laddove aveva sempre odiato qualunque spreco di energie
celato dietro le mentite spoglie di un "allenamento":
Ora, il professore di Educazione Fisica, tale Ariovisto De
Vosgi, non era null'altro che una montagna di un metro e ottanta,
lunghi capelli biondi e una mascella delineata che ispirava il massimo
del timore reverenziale in tutti -tranne che nel collega di Storia
dell'Arte, tale Augustus Vargas-, un ostacolo trascurabile come un
dirupo alla fine di un binario morto sulle cui rotaie, ignaro, corre un
treno della transiberiana. La sensazione dei suoi occhi addosso, dopo
essersi fermati durante il riscaldamento, appunto, era vagamente simile
allo smarrimento seguente la consapevolezza di dover cadere nel vuoto.
Quindi, trovandosi accostato dal rumeno, cercato con gli occhi il
professore, dovette accettare il fatto di non potersi estinguere
altrove e dovette guardare davanti a sè per evitare un
sorrisino nel vedere un Serghei arrancante, provò ad
accellerare il passo e la prontezza dei riflessi dell'altro, lo
anticiparono: gli afferrò un polso costringendolo a fermarsi
mentre lui era chinato a tenersi il fianchi sinistro per riprendere
fiato. Gli occhi verdi guizzarono al professore che proprio in quel
momento riprendeva il maschio dei gemelli Edelstein, forse peggiore del
romeno, in attività fisiche.
«Ma quanto corri? Ti alleni facendo rapine?»
Il bulgaro fu tentato di scostargli i capelli dalla fronte sudata ma si
trattenne, tenendo in attenzione i movimenti della montagna bionda che
non s'era risparmiata uno scappellotto dietro il capo di qualcuno che
non riuscì a intercettare. Tornò a guardare
Serghei ancora affannato ed in quel momento esatto anche lui
alzò lo sguardo. Petar indietreggiò,
completamente privo difese in quel contatto fisico e visivo
inaspettato. Avvertì di nuovo la scossa di qualche settimana
prima, quella che si irradiava da corpo a corpo e provò a
sottrarsi alla presa ma le dita dell'altro la resero più
forte.
Non ebbe la forza di
scostarle e sarebbe stato semplice scacciarlo con uno spintone se solo
gli occhi spalancati e cremisi dell'altro non fossero puntati nei suoi
e le sue guance non fossero così anomalamente tinte di rosse
per lo sforzo fisico. Era una visione a cui risultava difficile
sottrarvisi, lo lasciava sospeso in una dimensione che trascendeva
anche il timore di una manata del professore.
«Petar, qual
é il tuo problema?»
«Mi
lasci?»
La voce non risultò
convincente neanche alle proprie orecchie, fu un sibilo poco deciso che
pareva lasciare intendere il contrario e persino Serghei lo
avvertì, capendo di dover battere fino a quando il ferro era
caldo, per cavarne un ragno dal buco. Ad interrogarsi sulle motivazioni
che gli avevano reso così indispensabile quel chiarimento,
ci avrebbe pensato dopo.
Petar sapeva che un gesto del genere doveva essere stata una grande
sfida per l'orgoglio del rumeno e neanche il ricordo delle due ombre
troppo vicine gli diedero la forza per allontanarsi.
«Dopo scuola, andiamo...
Ti offro una birra, mi spieghi qual é il tuo
problema.»
Non era una domanda e il bulgaro
non riuscì a rispondere, fece un passo indietro
trascinandosi anche l'altro, cercò con gli occhi una via di
fuga: non poteva permettergli di entrare ancora, scoprendo tasti che
avrebbe toccato con poca delicatezza e senza neanche accorgersene.
Sentì il battito cardiaco accelerare alla sola idea di
ritrovarsi nuovamente alla presa con l'orribile sensazione sperimentata
nelle ultime settimane: la presa di coscienza di un qualcosa che non
sarebbe stato mai ricambiato. Il melanconico sentimento di impotenza
davanti a cose già vissute, vestiti odiosi già
indossati che diventavano più stretti ogni volta che l'altro
si avvicinava. Ed avrebbe voluto chiedergli di allontanarsi,
perché iniziava a diventare difficile respirare, che il
problema non aveva senso di esistere: non era un problema quanto una
situazione asfissiante e priva di risoluzione. Con calma, avrebbe
potuto spiegarglielo perché non c'era colpa da nessuna delle
due parti e -probabilmente- la colpa era stata la sua a portare
all'estremo una situazione a causa di una delusione seguita a castelli
di illusioni della propria mente, cui Serghei non era , a tutti gli
effetti, connivente. Scosse il viso, la gola secca gli impediva di
proferire parola, si leccò le labbra per umettarle ma,
ancora una volta, fu l'altro ad anticiparlo.
«Petru, sul
serio. Mi manchi.»
Le ultime due parole stupirono
persino chi le aveva pronunciate che assunse un'espressione perplessa,
prima di scostare lo sguardo ad un angolo indefinito della palestra,
essere riuscito a racimolare il coraggio di affrontare la situazione,
si era risolto in un imbarazzante momento di sincerità non
programmata e non richiesta. Ci mancava solo facesse la parte del
frocio eppure Petar non sembrò sconvolto, quanto imbarazzato
e spiazzato almeno quanto lui.
Il più alto abbassò lo sguardo sui lacci delle
proprie scarpe che erano diventati stranamente interessanti e prima di
partorire alcun pensiero, si ritrovò già ad
annuire senza riuscire, davvero, ad opporre resistenza al fiume che lo
stava coinvolgendo e sperò di dire qualcosa per non fare la
figura del demente di turno.
Non arrivò parola alle sue labbra: il demente di turno. E
anche del turno successivo.
«Sì? Sul
serio, sì? E non fare 'sta faccia che mi sembri uno
stoccafisso. Sì o no?»
«Sì,
sì, dopo scuola, sì.»
«Aspettami,
fuori i cancelli, allora, devo prima passare a casa a prendere una
cosa.»
Non ci fu tempo per altre parole
'ché le
carezze di Ariovisto beccarono prima l'uno e poi l'altro
dietro la nuca.
***
Quando era piccolo, Serghei, aveva visto la propria vita come qualcosa
di roseo e perfetto. Aveva una spiccata ambizione in qualunque cosa:
voleva arrivare più in alto sugli alberi, trascorreva intere
giornate a leggere e, fondamentalmente, lo faceva per il velleitario
fine di sentirsi ammirato ed invidiato. Già da bambino
avvertiva una certa differenza tra sè e ciò che
lo circondava e nel sentirsi diverso, aveva sviluppato una certa
superbia per mascherare il pensiero costante che, forse, era a lui che
continuava a mancare qualcosa.
Sostituì l'impossibilità del suo riuscire a
comunicare con la sicurezza che fossero gli altri a non riuscire ad
arrivare a lui, si gonfiò ed autoproclamò
migliore. Il non essere compreso, capito era una conseguenza del suo
essere troppo intelligente, troppo sopra il resto. Perse velocemente
l'interesse verso chi, già dall'infanzia, guardava come una
massa informe di mediocrità, cadendo nel silenzio della
supponenza e negli sguardi di superiorità senza avvertire la
solitudine intrinseca ad un modus pensandi del genere: c'era Petar
accanto a lui e Petar aveva sempre spiccato nella pece nera.
Non ricordava come fosse iniziata l'amicizia con il figlio dei vicini,
subito dopo il trasferimento. Come ricordare avvenimenti
temporaneamente posti ai loro primi sei anni di vita? Ricordava solo di
un processo naturale, una voglia di stupirlo. Ed ecco che tutte le cose
che imparava, non servivano più solo ad impressionare gli
adulti ma anche -e sopratutto- a stupire lui, 'chè Petar
sgranava gli occhi e lo ascoltava su qualunque cosa avesse da dire,
come quando aveva imparato a leggere l'ora, anche senza i numeri
scritti sul quadrante: quella sembrò davvero un'impresa
degna dell'entusiasmo del bambino bulgaro.
Non si era mai accorto, lui sul serio non si era mai accorto di avere
iniziato ad isolarlo insieme a sé. Più che
isolarlo, era l'altro ad ignorare gli altri per lui, perché
Petar andava sempre d'accordo con tutti i bambini ma li lasciava da
parte per tendergli la mano, sempre.
Serghei non si era mai accorto, lui non si era mai accorto di essere
stato tanto egoista da impedirgli qualunque altra scelta,
infinitamente egoista anche perché era sicuro che comunque
avrebbe scelto lui. Ma chi dei due aveva più bisogno
dell'altro?
«Oh, mi hai aspettato.»
«Non ho mai infranto una promessa, hm?»
«Andiamo.»
Nessuno dei due salì sulla propria bicicletta, iniziarono a
camminare accanto portandole in mano.
Quando era piccolo, Petar, non aveva mai pensato alla sua vita ma se
glielo avessero chiesto, lui avrebbe risposto che voleva qualcosa di
semplice che gli permettesse di tenere a bada le piantine che curava
sul davanzale della cucina. Una volta aveva messo delle lenticchie ed
un po' d'acqua in un vasetto vuoto di yogurt, dell'acqua e le aveva
spostate al sole, il giorno dopo avevano già iniziato a
spuntare i primi germogli. Da allora, ogni mattina si precipitava a
guardare i progressi e ben presto tutto il marmo fu coperti di vasetti
di yogurt opportunamente verdeggianti. Un mattino, tornando con gli
occhi attenti, aveva incrociato due iridi rosse e più che
spaventarsi, lo incuriosirono e alzando il volto per guardare oltre, il
proprietario di quegli occhi, arrampicato sotto la finestra della
cucina, fece lo stesso. Fu allora che si era spaventato trovandosi un
bambino a testa in giù, a mantenersi solo con le mani sugli
infissi. Era caduto all'indietro dallo sgabello, esattamente come
l'altro era rotolato fuori sull'erba.
Simultaneamente tornarono in piedi a guardarsi e scoppiarono a ridere.
Il piccolo Petar non si crucciò su quella sensazione che lo
portava più vicino al nuovo bambino strano, non se ne
interrogò, la assecondò.
Fu un processo naturale: aveva sempre cose interessanti da dirgli,
qualche volte un po' strambe ed inquietanti. Altre volte troppo
inquietanti per dormirci la notte ma, tutto sommato, era divertente
guardarlo correre da lui a raccontargli mirabili novità.
Non capiva, lui proprio non capiva come gli altri non riuscissero a
vedere quando meraviglioso potesse essere quel bambino e più
lo allontanavano, lui più li snobbava, poteva anche non
esserci posto per loro, 'ché Serghei riempiva tutto.
Serghei sapeva tante cose ma non sapeva andare in bicicletta, fu
davvero faticoso insegnarglielo.
Non capiva, lui proprio non capiva che ad allontanare la cattiveria
degli altri lo isolava persino da sé stesso. Pensava avesse
bisogno di lui.
Ma chi dei due aveva più bisogno dell'altro?
«Entriamo qui, non ci chiedono i documenti.»
Petar indicò un bar poco illuminato e fermò la
bicicletta ad un lampione, imitato dall'altro e restando sempre in
silenzio, si accomodarono al bancone ed ordinarono due birre. ll
bulgaro non capiva perchè avesse accettato, visto che
trascorreve il tempo cercando con gli occhi le uscite di sicurezza e le
possibili vie di fuga e, questo, Serghei lo avvertiva perfettamente.
Servì un lungo sorso di birra, al rumeno, seguitò
dal tonfo del vetro sul legno un po' marcio. Girò il volto
verso quello dell'altro ed iniziò a dondolarsi sullo
sgabello per poi decidere di tornare a guardare il proprio boccale. Una
mano andò a massaggiarsi il collo e a torturare l'orecchio
dell'orecchio destro.
«Sul serio, Petar, io non mi spiego che cosa ti sia preso.
Riconosco di non essere una persona facile ma lo sono sempre stata, non
capisco questo tornare ad ignorarmi. Non lo so, forse ho capito fischi
per fiaschi, che ne so. Vuoi dirmelo?»
Ma Petar non gli rispose, si limitò a guardarlo, mordendosi
l'interno della guancia: parlare con sincerità, avrebbe
potuto voler dire perderlo definitivamente, forse. Questa previsione
gli fece tornare quell'orribile sensazione di asfissia e lui
contrì il viso, d'istinto portò una mano al
colletto della maglietta per allargarla, nonostante sapesse che non
serviva a nulla. Respirò profondamente ed alzò
una mano dargli un colpetto sulla guancia, accennò a un
sorriso sollevando un angolo delle labbra.
«No, è-- è stata colpa mia,
scusami.»
«Non prendermi per il culo. Se non vuoi dirlo a me
direttamente, dimmelo indirettamente.»
Non capì a cosa si riferiva sino a quando il rumeno non
tirò fuori dalla sua borsa -probabilmente- quello che era
tornato a prendere a casa. Per chiunque potevano essere solo due
scatole di alluminio legate da uno spago però, Petar, non
potè fare a meno di regalargli un sorriso sincero
prendendone in mano una delle sue, macchiate di pittura. La
rigirò davanti a gli occhi e sbuffò divertito,
Serghei arricciò il naso e portò l'altra
all'altezza dell'orecchio, come fosse la cosa più normale
del mondo: così, in mezzo ad un bar semi-popolato. Ma che il
rumeno se ne fregasse altamente del contorno, era cosa risaputa. Lo
sguardo verde indugiò ancora sulla figura altrui,
soddisfatta e rilassata, attento a non perdersi neanche una parola.
Sospirò sentendo la tensione salire insieme ad un imbarazzo
quasi pietrificante, quando decise di iniziare a parlare.
«Serghei?»
«Hm? Ti sento, la ruggine non impedisce il
funzionamento.»
«Non è ruggine, è pittura.»
«Dannato daltonismo.»
«Credo che il ragazzo di cui sono innamorato sia
etero.»
Non ci fu alcuna reazione eclatante, non una reazione schifata. Serghei
non gli rovesciò la birra in testa come nei migliori dei
suoi pronostici, lui semplicemente sbuffò, poi
sospirò come rilassato, chiuse gli occhi e poggiò
il mento alla mano ferma sul bancone. Rilssato lo era sul serio,
credeva di aver trovato la soluzione: Petar era davvero convinto che
l'avrebbe giudicato? Che l'avrebbe preso in giro per una cosa del
genere? S'era arrovellato settimane per poi scoprire che non s'era mai
trattata di una situazione irreparabile. Sentì i nervi
sciogliersi e fece un profondo respiro rilassando il volto.
Portò la scatola alle labbra.
«Siamo in un'età particolare, Petru, non devi dare
per scontate certe cose. Capita che, alle volte, ci serva qualcuno che
ci indirizzi verso qualcosa. Se le cose sono fatte con buona fede, non
porteranno mai nulla di orribile. Non puoi trascorrere i tuoi anni
migliori, il fiore dei tuoi anni, a rimuginare: sii chiaro, coraggioso,
schietto. D'altronde, cosa può capitarti? Abbi il coraggio
delle tue idee e la responsabilità delle tue
parole.»
Il rumeno, quelle cose, le pensava sul serio. Aveva sentito Josif e
Larush prendere in giro Petar riguardo una certa cotta per il ragazzo
altissimo e biondo della loro scuola -quello con gli occhiali che a
lui, personalmente, metteva ansia- ma trovò certe
preoccupazioni infondate, potevano risolvere tutto e salvare la loro
amicizie. Tanto ne era sicuro, che le mani di Petar e circondargli il
viso furono un fulmine a ciel sereno.
Tanto ne era sicuro, tanto sentì il vuoto totale e la terra
mancargli da sotto la suola degli anfibi quando le labbra del bulgaro
si poggiarono sulle sue. Fu un bacio talmente irruento ed intenso:
sapeva della frustrazione di settimane, la stessa che in qualche misura
avevano condiviso, sapeva persino di un retrogusto malinconico e
rabbioso, laconico al punto da renderlo irresistibile e
sentì che le mani fredde di Petar, scottavano sulle sue
guance.
Non esisteva più il bar, non esisteva la gente. Non
sentì il rumore dell'alluminio che cadeva a terra,
sentì solo la lingua dell'altro accarezzargli le labbra.
Fu un bacio talmente fuori da qualunque schema e da qualunque logica da
farlo sentire prepotentemente vicino, prepotentemente privo di
qualunque difesa, qualunque pensiero coerente. Al punto da
destabilizzarlo.
Al punto da riscaldarlo.
Al punto che si ritrovò a ricambiarlo.
"E
già ti amavo dal profondo
avevo piombo da sparare
se stereofonica posavo
d'imbarazzante giovinezza lamé
e fantascienza ed erezioni
che mi sfioravano le dita
tasche sfondate e pugni chiusi
"avrei bisogno di scopare con te"
tremavo un po' di doglie blu
e di esistenza inutile
vibravo di vertigine
di lecca-lecca e zuccheri."
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Se
siete arrivati sino a qui, complimenti in primis. In secundis, se la
mia partner non mi avrà bloccato sul serio,
arriverà anche il secondo capitolo.
Lieta di avervi divertiti, se l'ho fatto. Ancor più lieta
serei, se avessi fatto nascere un interesse, seppur minimo, per ogni
personaggio di questa storia che ha lasciato qualcosa in me,
esattamente come lo hanno fatto le persone che ci sono dietro.
Grazie a chi a letto e grazie a chi avrà voglia anche di
recensire.
A presto.
Ps: Valo non mi bloccare.
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