ReggaeFamily
Il
sole oltre le nubi
La
vita è ingiusta certe volte. Anzi, direi quasi sempre.
Ora
sono qui, rinchiusa nel bagno della scuola, a versare lacrime di
delusione. Piangere non serve a niente, lo so, ma quando per
l'ennesima volta vedi il tuo futuro allontanarsi sempre più da
te, cadere nella disperazione è pressoché inevitabile.
I
meritevoli non vengono mai premiati, questa è la verità.
Fin
da piccola avevo un sogno: diventare una maestra, o forse una
psicologa. In ogni caso lavorare con i bambini in qualunque modo
possibile, vederli crescere e sorridere, ma soprattutto aiutarli nei
momenti di difficoltà.
Per
questo mi sono sempre impegnata nello studio e ho ottenuto buoni
risultati nel corso degli anni. Avevo il mio sogno a portata di mano.
Ah,
che illusa!
La
campanella che annuncia l'inizio dell'intervallo è suonata da
qualche minuto e io getto un fazzoletto dietro l'altro nel cestino
dei rifiuti. In bagno c'è un caldo soffocante; vorrei uscire,
ma non riesco a smettere di piangere e non voglio che qualcuno mi
veda in queste condizioni.
All'improvviso
la porta dell'antibagno si spalanca. Rimango in perfetto silenzio e
mi rannicchio a terra con le ginocchia al petto e la schiena contro
la parete.
Qualcuno
richiude la porta, si avvicina con passi leggeri ai bagni e poi si
ferma, restando immobile. Tra me e questa persona c'è solo il
sottile strato di legno della porta.
“Mia,
lo so che sei lì” esordisce una voce che conosco fin
troppo bene.
Mi
sorprendo del fatto che Michele, il mio migliore amico dall'infanzia,
sia piombato nei bagni delle donne nel bel mezzo della ricreazione.
Ma del resto da lui ci si potrebbe aspettare di tutto.
Le
sue parole mi procurano subito un po' di sollievo, ma pochi secondi
dopo mi rabbuio nuovamente. Non voglio parlare con nessuno in questo
momento.
“Mia!”
ripete nuovamente.
“Michi,
vai via” sibilo, sperando che non si sia accorto del tremito
della mia voce.
Capisco,
dai suoni attutiti che mi giungono, che anche lui si è seduto
davanti alla porta.
“Che
ci fai nel bagno delle ragazze? E se ti dovessero scoprire?”
proseguo nella speranza di convincerlo ad andarsene.
“Non
mi interessa, è molto più importante stare vicino a
te.”
Mi
lascio sfuggire un singhiozzo più forte degli altri. Michele
sospira. “Mia, così non va bene: rinchiuderti in te
stessa non servirà a niente, apri la porta” mi ordina
dolcemente.
Apparentemente
Michele non è affatto serio: gli piace scherzare e non mostra
a nessuno i suoi sentimenti. Per lui è più comodo
passare per un ragazzino immaturo che spiegare seriamente al prossimo
i suoi pensieri e il suo punto di vista. Ma io lo conosco più
delle mie tasche e so che possiede un grande cuore e dei grandi
valori.
E
so anche che quel tono di voce così dolce lo dedica solo a me,
nei momenti più delicati.
“Michi,
voglio mollare, non ce la faccio più! Oggi mi hanno annunciato
che dovrò ripetere l'anno! Non posso andare avanti così,
ho diciannove anni e dovrei già essere all'università,
invece sono ferma alla quarta liceo!” mi sfogo, ricominciando a
piangere più forte di prima.
Queste
lacrime non servono a niente, non alleviano la rabbia e la
frustrazione che provo.
“Quante
assenze hai totalizzato durante l'anno?”
“Novantacinque.”
Per
qualche secondo cala il silenzio.
“Mia,
esci dal bagno, per favore” mi supplica.
“No,
non ci penso nemmeno!”
“In
questo modo mi dimostri che ti vuoi arrendere!”
“Sì,
mi voglio arrendere, va bene?” sbraito con rabbia.
“Fai
come vuoi. Ma sappi che non me ne andrò di qui finché
non aprirai la porta. A costo di passare la notte a scuola, io non ti
abbandonerò.”
La
rabbia mi monta dentro e ho una voglia pazzesca di prendere a calci
la porta. Voglio che tutti mi lascino in pace!
Nessuno
sa cosa significa rinunciare ai propri sogni per via di un destino
troppo crudele, nessuno sa cosa si prova a dover soffrire ogni giorno
e combattere contro il proprio corpo per potersi alzare e andare a
scuola. Nessuno mi può salvare.
Salto
in piedi e sfogo tutto il mio odio contro il cestino di rifiuti,
rischiando di rovesciarlo e spargere a terra il suo contenuto.
“Mia,
pensaci. Ricordi quanto ti sei impegnata per arrivare fin qui? Vuoi
abbandonare tutto proprio adesso?”
Alle
parole di Michele mi immobilizzo.
Non
so più che fare, non capisco più cosa sia giusto o
sbagliato, nemmeno io riesco ad ascoltare me stessa.
Ricado
a terra in preda a una confusione troppo profonda, mentre le lacrime
mi rigano il viso.
Sono
stanca di piangere, stanca di tutto.
In
quel momento il suono della campanella inonda i corridoi della scuola
e tutti si apprestano a rientrare in classe, ridendo e chiacchierando
con indifferenza.
Tranne
Michele. Lui non si sposta e so che non lo farà.
“Che
senso ha tutto questo? Fino alla seconda superiore andava tutto così
bene, poi cos'è successo? Ho fatto qualcosa di sbagliato?”
mi lamento, soffiando per l'ennesima volta il naso ormai dolorante.
“Tu
credi che io sia scemo, vero? Questa situazione la sto vivendo con
te! Ogni volta che stai male vengo da te e ti sto vicino in tutto e
per tutto, quando ti vedo giù sto male anch'io. Non è
forse vero che ogni cosa che ci è capitata l'abbiamo sempre
condivisa?”
Dopo
circa un minuto di silenzio, ribatto: “Dammi una ragione
valida, una sola, per cui dovrei continuare a venire a scuola”.
Lui
si avvicina ancora di più alla porta e mi rendo conto che
vorrebbe potermi abbracciare e consolare.
“Ti
potrei dare mille ragioni per andare avanti, ma quella più
importante sei tu. Ricordi quanto rimanevi affascinata dai bambini,
già da quando ancora eri una di loro? Mi guardavi negli occhi
e, serissima, mi dicevi: i bambini sono e saranno la mia vita, li
adoro. Già a quell'epoca avevi passione, ne avevi da
vendere! Si vedeva da come ti impegnavi a scuola, da quanto hai
lavorato per arrivare fin qui. Poi è successo. A quindici anni
hai cominciato a stare male, a fare troppe assenze e a non eccellere
più nello studio come prima. Hai accettato il fatto che non
fosse colpa tua e hai voluto proseguire per questa strada, sapendo di
essere comunque in svantaggio rispetto agli altri. Ogni volta che
stavi male e non potevi venire a scuola, andavo nella tua classe e
chiedevo ai tuoi compagni gli appunti perché sapevo che ci
tenevi. Ti ammiro molto per questo, sai? Non tutti avrebbero fatto
come te, sei una vera forza! Hai dovuto rifare la terza due volte e
non ti sei arresa, perché vuoi farlo proprio ora? Manca così
poco al tuo traguardo, non farti abbattere. Se molli tu, che sei il
mio mito, mollo anch'io.”
Rimango
in silenzio a lungo, cercando di assimilare tutte quelle
informazioni. Prendo qualche respiro profondo per scacciare via il
nodo in gola che mi toglie quasi il respiro, poi domando: “Che
c'entri tu con me? Quest'anno hai l'esame di maturità, hai
praticamente chiuso con la scuola.”
“Non
sono passato all'esame di maturità, dovrò ripetere la
quinta. Ormai è troppo tardi per recuperare, oggi è 9
giugno e me l'hanno già comunicato.”
Rimango
interdetta. Non posso crederci.
Mi
raggomitolo su me stessa, anche se il pavimento del bagno non è
il massimo dell'igiene, e mentre inspiro profondamente una marea di
ricordi mi travolge, schiaffeggiandomi con violenza.
Rivedo
me a quindici anni, la prima volta che sono stata male. Ero a scuola
e quella mattina mi girava tremendamente la testa. Ero svenuta
durante la ricreazione e mi ero risvegliata in ospedale quasi un'ora
dopo. Mi pare di sentire ancora oggi l'emicrania che mi devastava, è
il ricordo più vivo che ho di quella giornata.
Dopo
una serie di analisi che durarono vari mesi, mi diagnosticarono una
serie di problemi che non mi avrebbero portato alla morte, ma che mi
avrebbero per sempre segnato.
Da
allora è iniziato l'incubo: avevo continui svenimenti,
emicranie e spesso febbre molto alta. Tutto questo mi stancava
tantissimo e molte volte ero costretta a restare a letto tutto il
giorno per riposarmi.
Nell'estate
tra la seconda e la terza superiore sono arrivati gli attacchi di
panico, che sono probabilmente la peggior cosa che potesse capitarmi.
Nonostante
tutto, io avevo ancora tanta voglia di uscire con gli amici e
sorridere, non avrei permesso a niente e nessuno di buttarmi giù.
Ma ormai quasi tutti mi avevano abbandonato perché a nessun
quindicenne va di passare il proprio tempo con una malata.
La
mia vita sociale – e di conseguenza la mia autostima –
sarebbe stata pari a zero se non fosse stato per Michele. Lui aveva
quattordici anni, era prossimo ai quindici, ma era molto più
maturo rispetto alla media. Mi è sempre rimasto accanto,
rischiando di essere giudicato per quest'amicizia bizzarra. Nessuno
lo costringeva, nessuno lo pagava, eppure lui ogni pomeriggio veniva
a casa mia per farmi compagnia e accudirmi quando ne avevo bisogno.
Quanti
dei miei svenimenti e dei miei attacchi di panico ha visto! Penso che
un ragazzino non si meriterebbe di vedere tanto dolore e tanta
sofferenza.
In
terza mi hanno bocciato due volte per le numerose assenze, ma alla
fine sono riuscita a superare l'anno.
Ora
sono in una classe in cui non mi sento molto a mio agio; non perché
i miei compagni mi escludano o mi stiano antipatici, ma perché
abbiamo molti anni di differenza e sento questa situazione troppo
stretta per me.
Ho
lottato per il mio futuro, ma ora tutto mi sembra inutile e
insignificante.
“Michi?”
sussurro, dopo un tempo a me ignoto.
So
che è dietro la porta, ma voglio accertarmene, come se il
suono della sua voce fosse il mio unico appiglio per salvarmi da quel
turbine di pensieri.
“Sì?”
“Non
voglio che tu lasci tutto per me.”
Nella
stanza cala di nuovo il silenzio. Un silenzio denso e insopportabile,
che mi ferisce e mi assorda più di qualsiasi suono.
Qualche
minuto dopo la campanella prende a trillare.
Mi
sembra incredibile: è passata un'ora da quando sono qua dentro
e Michele non si è spostato neanche per un secondo.
Nel
corso di quest'ora in bagno è entrata qualche ragazza che ha
chiesto al mio amico cosa ci facesse nel bagno delle donne e lui ha
spiegato che doveva stare vicino a una persona che si sentiva poco
bene. Nessuno ha chiesto altro perché sicuramente lui ha
portato fuori uno dei suoi sguardi ammonitori.
Lo
conosco troppo bene e so che finché non uscirò, non se
ne andrà. Non gli importa cosa potrebbero pensare gli altri.
Basta,
sono stanca di nascondermi in un sudicio buco. Il mio amico ha
ragione: rinchiudermi in me stessa non mi servirà a niente.
Non
mi sollevo da terra, mi limito a far scattare la serratura. La porta
si socchiude leggermente.
Il
mio amico subito la spalanca e si precipita nel bagno, per poi
sbatterla sgraziatamente alle sue spalle. Quella non si chiude
completamente, ma lui non se ne cura; subito mi è accanto sul
pavimento, mi avvolge in un tenero abbraccio e mi attira a sé.
Io a mia volta mi aggrappo a lui e gli sorrido tra le lacrime.
“Allora
che vuoi fare? Abbandoniamo la scuola insieme?” sussurra,
giocando con una ciocca dei miei capelli.
“Nessuno
di noi lascerà la scuola, entrambi ci diplomeremo. Niente e
nessuno ci può impedire di inseguire e realizzare i nostri
sogni.” Mentre gli rispondo, sento il cuore gonfiarsi di una
nuova speranza, di una grinta che non avevo mai conosciuto finora. Mi
rendo conto di quanto siano vere le mie parole e mi accorgo anche che
non è una risposta campata per aria.
Voglio
andare avanti per Michele, per i miei genitori e per me stessa. Non
deluderò nessuno.
Michele
mi stringe più forte a sé e, con un sorriso colmo di
dolcezza, afferma: “Se mai un giorno ci dovessimo arrendere, lo
faremo assieme. Ma siamo troppo forti perché accada, ci diamo
forza a vicenda. Prenderemo la laurea insieme e io diventerò
un medico, così potrò trovare una cura per te”.
Solo
ora mi rendo conto che la mia forza, il mio raggio di sole in mezzo a
una tempesta, è proprio Michele. E mi sento fortunata ad
averlo accanto, tengo a lui più di quanto non tenga a me
stessa. Ogni giorno mi insegna che, in una giornata nuvolosa, il
cielo grigio non va visto come un cielo grigio a sé, ma come
un luminoso e caldo sole che si nasconde oltre le nubi.
Io
non mi arrenderò, lui non si arrenderà.
Noi
non ci arrenderemo.
|