Episodio
5 –
I’ve found something and I don’t know what to do
Erano
pietrificati. I
singhiozzi di un neonato provenivano chiaramente dalla porta che si era
appena
socchiusa alla loro destra. Non era il pianto di un bambino affamato o
assonnato, ma di un bambino disperato che lottava per respirare tra le
lacrime.
Non avevano scelta: non avrebbero certo potuto tornare indietro dopo
ciò che
avevano visto nel corridoio precedente, dovevano per forza passare
accanto a
quella porta. Evan fece un passo avanti. Aveva solo due anni
più di Jack e
River, ma sentiva il dovere di essere protettivo nei loro confronti.
Era
terrorizzato, un turbinio di ricordi affollava la sua mente, ad ogni
passo
sentiva una voce che, dal passato, lo minacciava. Da un po’
di tempo a quella
parte ogni suo passo si era fatto pesante, come si portasse sulle
spalle una
folla di persone disperate che gli urlava nelle orecchie, ogni singolo
spirito
che aveva incontrato in 8 lunghi anni di investigazioni. Sentiva la sua
vita
appesa ad un filo, ma il suo orgoglio gli impediva di ammetterlo.
“Sono il
pirata del paranormale e nessuno può toccarmi”
ripeteva tra sé e sé come un
mantra, la voce tremante.
Il corridoio era
stretto, stranamente illuminato di una luce soffusa proveniente da
lampade a forma
di fiore, fissate al muro. Le pareti erano dipinte di una
tonalità di marrone
chiaro, c’erano quadri alle pareti e mobili di legno scuro
ornati con centrini
di pizzo: era maltenuta e l’intonaco si stava scrostando, ma
quella era l’unica
area del palazzo che non sembrasse disabitata. Poco più
avanti, sul lato
sinistro, si trovavano due finestre dagli infissi bianchi, come due
occhi che
si affacciavano su un cielo ormai deserto e di un nero quasi denso.
Evan pensò
che la soluzione migliore sarebbe stata attraversare il corridoio
mantenendosi
al centro: di certo voleva evitare che qualcosa – o qualcuno
– saltasse fuori
all’improvviso da dietro il vetro.
Durò
una frazione di
secondo. Mentre Evan pianificava in silenzio, Jack si stava avvicinando
alla
porta. Dubbioso ed intenerito aveva iniziato a chiamare piano:
“piccolo? ..piccolo?”
- “Allontanati da lì” gli
intimò Evan, a metà tra un sussurro ed un urlo.
Ma
Jack si girò tranquillo verso di loro dicendo
“C’è qualcosa là dentro,
sembra
un bagno..”. Gli bastò un altro singolo passo
verso la stanza perché una mano
putrefatta uscisse dal buio e richiudesse con violenza la porta che si
era
aperta poco prima. Il ragazzo per lo spavento si gettò
all’indietro, urlando e
cadendo rovinosamente. A terra, gli occhi sbarrati, si reggeva con il
braccio
destro mentre il sinistro era alzato a proteggersi il volto. River
corse
immediatamente da lui e gli si inginocchiò accanto
preoccupata. “L’hai vista?
L’hai vista??” “Sì Jack.. Stai
bene?” rispose River aiutandolo ad alzarsi. Jack
non rispose, ma sembrava rincuorato dal fatto che River gli stesse
ancora
stringendo il braccio. Evan, come al solito, li riportò alla
realtà toccando
loro le spalle, e fecero gli ultimi metri del corridoio quasi di corsa.
Arrivati
alla fine, Evan spalancò la porta: davanti a loro, una
ripida rampa di scale
scendeva nell’oscurità.
Ken e Kit erano
confusi. Mark era lì un attimo prima, ed in una frazione di
secondo sembrava
sparito nel nulla. Dove poteva essere andato, così senza
avvisare? Se fosse
stato preso da qualcuno..ma non avevano sentito una parola, non un
urlo. Erano
fermi in quel corridoio debolmente illuminato, senza sapere cosa fare.
Kit si
guardò indietro. Non una porta si apriva sulle pareti di
quel luogo, non esisteva alcun
percorso alternativo
che Mark avrebbe potuto prendere. Era un
corridoio. Dritto.
“Non
sono un opportunista, sai’’ disse
all’improvviso
Ken, alle spalle di Kit “Ho avuto fortuna ma non vivo di
rendita. Mi impegno
ogni giorno a fare il mio lavoro anche se i risultati non sono niente
di speciale.
Scrivo i miei articoli..brevi e stupidi, per la verità. Ma
quando cerco di fare
qualcosa di più serio nessuno mi segue più e sono
costretto a lasciare le cose
a metà. I miei lettori non sono più di un
centinaio. I grossi numeri me li
hanno portati le collaborazioni...gli articoli con il suo
nome insieme al mio. Quello che cercano è lui, non
sono io. La
gente che mi segue..io non la conosco e loro non conoscono
me.” Erano soli, Ken
si ergeva in tutta la sua altezza ad un paio di metri di distanza. Si
sforzava
di guardare Kit negli occhi, ma inevitabilmente il suo sguardo si
abbassava,
per l’imbarazzo forse. A Kit quella conversazione in quel
preciso momento
sembrava fuori luogo, ma intuì che Ken aveva bisogno
di dire qualcosa, e lo lasciò proseguire. “Mark mi
è
capitato tra capo e collo. Avevo letto qualche suo lavoro e, cavolo,
lui sì che
aveva potenziale. La prima volta che lo incontrai e mi fermai a
parlargli, con
quel suo fare spaesato ci ha messo 10 minuti per realizzare che gli
stavo
parlando perché sapevo chi fosse. Penso che con la sua
estrema semplicità sia
quello che vorrei essere io. Per questo certe volte lo evito: io non lo
sopporto..”
Ken era scosso,
irriconoscibile, e non aveva mai parlato così tanto in vita
sua probabilmente.
Kit a questo punto si trovò nella condizione di cambiare
idea o, per meglio
dire, di non sapere più cosa pensare. Ken poteva essere un
codardo, poteva aver
approfittato della situazione o anche solo esserci rimasto incastrato
dentro.
“Poveraccio” pensò. Ma non solo non
aveva avuto il coraggio di crearsi una sua
personalità, ma nemmeno di ammettere i suoi veri sentimenti
per Mark. E quello
che è peggio è che Mark lo considerava una
certezza, un amico, forse il suo
unico amico in una città sconosciuta. E tutto questo si
basava su fatti
taciuti. Kit non poteva passarci sopra. Poteva anche avere una
mentalità
rigida, ma questo gli permetteva di sapere cosa fosse giusto e cosa
sbagliato, e
Ken stava sbagliando.
Tante persone
guardavano a Mark per ricevere conforto in
momenti difficili, e lui trovava sempre il tempo di rispondere alle
lettere di
tutti, ringraziandoli poi per il loro sostegno. Questo era quello che
rendeva
Mark così speciale agli occhi di tutti: “Io non
sarei niente senza di te”
diceva ai suoi lettori. Era dedito al suo lavoro, giorno e notte, e
quando si
ammalava –il che accadeva piuttosto spesso per la
verità, era infatti di salute
cagionevole- si scusava pubblicamente, perché sarebbe
riuscito a scrivere un
solo articolo giornaliero invece dei canonici due. La sua simpatia, la
sua
intelligenza, illuminavano le giornate di chi gli stava vicino.
Possedeva
qualcosa che attirava la gente a lui, qualcosa che Ken non possedeva.
Ma nessuno
dei due aveva alcuna colpa..
“..torniamo
indietro. Deve essere qui
da qualche parte.” disse Kit con decisione.
Le scale erano
ripide,
ogni gradino strettissimo, tanto da costringerli e scenderle in
diagonale.
River si reggeva alle spalle di Jack, che essendo un gradino
più avanti fungeva
da solida base per la discesa.
“Dove
diavolo siamo??”
sentirono esclamare Evan sconsolato, che era arrivato a destinazione
qualche
secondo prima di loro. Sceso l’ultimo scalino River si
guardò intorno: sembrava
un seminterrato. Le pareti erano in cemento grezzo, la stanza
completamente
vuota, fatta eccezione per un angolo della grande stanza, occupata da
un cumulo
di attrezzi impolverati e, lì accanto, sulla destra,
l’ennesima porta. Evan si
passò le mani tra i capelli. Non
c’era
un seminterrato quando erano entrati - chissà quanto tempo
prima ormai. Ognuno
di loro ricordava chiaramente di avere esplorato in lungo ed in largo
il
pianterreno, seguendo Wesley mentre cercava un luogo adatto e fissare
le sue
attrezzature. Non avevano trovato nessuna scala che conducesse ad un
piano
inferiore. Iniziavano ad essere stanchi, avevano camminato per ore
probabilmente, e non avevano chiuso occhio. “Fermiamoci un
attimo, devo
pensare” disse Evan rassegnato, e si sedette a terra con un
tonfo, a gambe
incrociate, i gomiti puntati sulle ginocchia. Jack e River lo
raggiunsero, appoggiandosi
al muro gelido. Jack teneva la bocca serrata, assumendo
un’espressione seria,
quasi perplessa. I suoi occhi grandi persi nel vuoto, come a cercare di
afferrare il filo di quella notte priva di senso. River si sedette
accanto a
lui, erano così vicini da sfiorarsi. Aveva bisogno di
sentire che c’era
qualcuno con lei, la loro presenza era la sua salvezza. C’era
qualcuno su cui
avrebbe potuto contare se fosse stata in difficoltà,
qualcuno che non l’avrebbe
lasciata indietro. Guardando gli occhi blu del ragazzo pensò
a quanto fosse
contenta che lui fosse lì. Sapeva che probabilmente
affidarsi a Jack non era la
migliore delle idee: era impulsivo, sprovveduto, eppure in qualche modo
la sua
presenza la rassicurava più del povero Evan, che di fatto li
aveva portati fino
a lì. River non riusciva a comprendere Evan fino in fondo:
sembrava ostentare
fiducia in se stesso, sembrava sapere cosa fare. Eppure a volte era
certa di
vedere in lui un sorriso tirato, come se dovesse difendersi da
qualcosa,
rifiutando di mostrare qualsiasi altra emozione che non fosse la sua
forza.
C’era qualcosa che Evan non aveva detto, ma qualsiasi cosa
fosse per il momento
sembrava riuscire a tenerlo sotto controllo.
Non era il
momento di fare domande scomode, riportare alla luce i loro
dubbi e le loro debolezze avrebbe potuto causare un danno irreparabile.
Dovevano mantenere la calma.
Il sonno doveva
aver
preso il sopravvento perché si svegliarono tutti di
soprassalto all’udire il
fischio del vento notturno. “Che ore sono?” chiese
Jack con un sobbalzo, ancora
praticamente nel dormiveglia. Possibile che nessuno ci avesse pensato
prima di
allora? Quante ore di buio rimanevano ancora? Evan avvicinò
il viso al suo
orologio da polso finché la sua debole vista gli permise di
scorgere le
lancette. “Le..otto di mattina?” disse infine, a
metà tra un’affermazione ed
una domanda. Non era possibile. Era primavera inoltrata, come poteva
essere
ancora buio a quell’ora? Probabilmente qualsiasi cosa
abitasse quel luogo aveva
messo fuori uso qualsiasi strumento, anche il più semplice.
Questa ultima
scoperta risvegliò in loro un ulteriore senso di smarrimento
profondo. Ci fu un
attimo di silenzio, interrotto da un’esclamazione di sorpresa
di Jack: si alzò
un istante dopo, dirigendosi deciso verso gli oggetti abbandonati
accumulati
poco lontano. “Questa
me la prendo”
disse Jack deciso, caricandosi sulle spalle una motosega. “E
a che cosa ti
servirebbe” disse Evan, appoggiando la testa al muro.
“..non me ne frega un
cazzo.” disse Jack dopo qualche secondo di riflessione. Poi
si sistemò il
cappello, aprì la porta con un calcio ed uscì
dalla stanza senza dire parola.
I due
ripercorsero il corridoio in senso opposto fino
all’atrio precedente. Non avevano smesso un attimo di
chiamare Mark, sottovoce,
quasi non volessero disturbare chi abitava quelle stanze.
“Così non funziona,
non può funzionare” disse Kit “Questo
posto è enorme, non possiamo tornare
indietro ad oltranza. Ci metteremo un’eternità a
ripassare da ogni sala”. Ken
sapeva che Kit aveva ragione, ma non poteva accettarlo. Il senso di
colpa lo
divorava: dopo tutto quel tempo non aveva mai detto una parola sincera
a Mark,
che lo considerava un amico, un fratello, che gli voleva bene
sinceramente. Mai
una volta ciò che aveva pronunciato era stato uguale a
ciò che aveva pensato.
Non poteva abbandonarlo. Non ora. “Solo questo
piano” disse infine Ken. Kit fece
un cenno di assenso, e si diressero verso il corridoio precedente.
Quando
aprirono la porta ciò che si mostrò ai loro occhi
fu raccapricciante. Avrebbero
dovuto trovarsi ad un piano relativamente basso, certamente non
all’ultimo,
dato che erano proprio partiti da lì ore prima. Ed invece si
trovarono in un
sottotetto. O meglio, in una soffitta adibita a studio pittorico. Una
fievole
luce filtrava dalle finestre, e piccole particelle di polvere
galleggiavano
nell’aria. Poteva quasi sembrare un luogo pacifico, se non
fosse stato per il
contenuto della stanza. Le pareti erano ingombre di tele, la maggior
parte
incorniciate, altre appese semplicemente con delle puntine, storte e
lacere.
Erano senza alcun dubbio quelle stesse tele di cui Wes giorni prima
aveva parlato,
e che aveva mostrato loro: i grumi di colore rosso scuro erano in
rilievo sulla
tela scurita dal tempo, ed il pavimento era appiccicoso. Evidentemente
quello
sulle tele non era colore. Era indubbiamente sangue, carne, materia. I
pezzi
del puzzle si stavano lentamente incastrando. La pittrice che sembrava
non
riuscire ad avere figli, i testimoni che invece raccontarono di aver
sentito
dei pianti di bambino, ed il marito che all’improvviso
impazzì. Il silenzio era
assordante. La storia era lì davanti a loro ma nessuno dei
due osava collegare
le ultime tessere. Non entrarono nemmeno in quella stanza. Richiusero
la porta
ed indietreggiarono di qualche passo, il respiro pesante, nemmeno in
grado di
sbattere le palpebre. Quando finalmente furono abbastanza lontani si
voltarono.
Non osarono nemmeno correre, solo camminare a passo spedito verso il
corridoio
in cui si erano fermati poco prima ed arrivati nel punto esatto in cui
Ken
aveva confessato i suoi sentimenti, proseguirono verso il termine del
corridoio.
“..Mark” era tutto quello che Ken riusciva a
pensare “..dove diavolo sei..ho
bisogno di te..” ma non dissero una parola finché
non aprirono la porta davanti
a loro, pronti ad affrontare l’ennesimo passaggio scuro. Ed
invece per la prima
volta dopo ore non poterono fare a meno di spalancare la bocca per la
sorpresa.
“….Wes??”
Jack stava
correndo a balzelloni giù per le scale, seguito da
River ed Evan, che faticavano a stargli dietro. In lui scorreva una
rinata
energia, e chissà da dove veniva. “Jack
aspetta!” lo chiamò River “dove stai
andando?” “Giù!” rispose Jack
aspettando finché non poté afferrarle la mano
“andiamo!” disse, incrociando lo sguardo di Evan
per un secondo. Lì Evan capì:
Jack doveva aver intuito, in qualche modo, che stava perdendo le forze,
e lo
stava aiutando a prendersi una pausa. Sapeva che Evan si sentiva
responsabile
delle loro vite, e che allo stesso tempo c’era qualcosa
che gli pesava enormemente. Gli stava dando tempo per
occuparsi di quel qualcosa
prendendo in
mano la situazione. Quello che Jack non poteva sapere era che
quell’ombra
oscura che Evan si portava dietro non era nient’altro che le
minacce ricevute
nelle sue passate escursioni, il ricordo del suo cuore che smetteva di
battere
per qualche interminabile secondo, e che si faceva ad ogni passo, ad
ogni
rumore sempre più presente e terrificante. Scesero
un’altra rampa di scale,
pronti a proseguire il loro cammino nei meandri di quella casa, quando
guardando al centro della stanza scorsero ciò che non
speravano più di vedere:
i computer di Wes.
Wes si
alzò da terra e
corse verso Evan, stringendolo a sé. “Hey
amico” disse lui dandogli delle
pacche sulla schiena ed a stento trattenendo le lacrime.
Pensò che forse se la
sarebbe cavata anche quella volta. River si diresse velocemente verso
Kit, che
si trovava in piedi accanto ai monitor, e si scambiarono un abbraccio
caloroso,
mentre Ken non riusciva a stare fermo e chiedeva con insistenza a tutti
“avete
visto Mark? Qualcuno ha visto Mark??!”, ma nessuno aveva
avuto sue notizie.
Wes
ascoltò
attentamente i racconti dei due gruppi mentre, seduto a terra, medicava
il
braccio ferito di Evan. La storia iniziava a prendere corpo: la donna
doveva
aver avuto dei figli, come testimoniavano i pianti sentiti dai vicini -
e, a
questo punto, come sapeva bene anche Jack - ma doveva essere impazzita
ed
averli uccisi. Questa scoperta aveva condotto anche il marito alla
pazzia, ma
di cosa ne fosse stato della donna nessuno lo immaginava. I monitor di
Wesley
non trasmettevano nessuna immagine, ma lo schermo scuro era
retroilluminato. Wes
era riuscito a far funzionare anche il piccolo riflettore che aveva
portato con
sé e, sistemato poco lontano e puntato a dovere, la stanza
era relativamente
ben illuminata. Nessuno di loro sapeva che ora fosse, e niente sembrava
quadrare: Kit e Ken ricordavano chiaramente come la luce entrasse dalle
finestre della soffitta, mentre Evan, Jack e River non vedevano la luce
del
sole da quando erano entrati in quell’edificio per la prima
volta. Ken e Kit
avevano forse visto il ricordo di qualcuno che abitava in quella casa?
L’orologio
di Evan, l’unico disponibile, segnava ora le 13, ma fuori il
cielo era buio
come a notte fonda.
Tutti sapevano
che la
porta, la salvezza, si trovava al piano inferiore. Così
vicina eppure.. quanto
tempo ci avrebbero impiegato per arrivarci? L’edificio
sembrava cambiare a suo
piacimento, guidarli verso ciò che voleva
vedessero. “Abbiamo vagato per ore..non siamo arrivati qui
insieme per caso”
realizzò River seguendo quel pensiero “ci hanno permesso di arrivare qui insieme.
Vogliono qualcosa”. “E allora insieme
andremo a cercare Mark” disse
Wesley deciso, dispiegando sul pavimento la mappa
dell’edificio che portava
nella tasca dei pantaloni “ho bisogni di tutti, cerchiamo di
trovare un
pattern”
“è
inutile, Wes.” disse Evan da un angolo dell’atrio
“ogni
volta che viene aperta, ogni porta dà su una stanza
diversa”.
-EPISODIO
5-
FINE
------------------------Angolino!
E così eccoci al 'capitolo' 5!
Nei lontani giorni in cui ebbi modo di leggere questa fanfic ad un
certo punto
ci fu una specie di pausa tra due capitoli,
dovuta a varie problematiche personali, e non ricordo se si trattava
del 4/5 o
del 5/6, sembra come esserci una sorta
di raffreddamento, di cambiamento nel tono di scrittura ma
può darsi che fosse
solo una mia impressione.
Ad ogni modo, spero che qualcuno faccia davvero lo sforzo di scrivere
qualcosa
e ci dia un giudizio..! Vi fa davvero così schifo? .-.
O la considerate noiosa? Boh, ditelo!
Non sto 'pregando' per delle recensioni, solo che, non so, credo di
aver
scritto cose molto peggiori e di aver comunque ricevuto un parere!
Va beh, liberi..!
Alla prossima
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