Capitolo
7
Il
capitano Müller si appoggiò all'indietro sulla sedia e si stirò
con aria soddisfatta. Davanti a lui c'era un piatto sul quale erano
ammonticchiate le ossa di svariate costolette di maiale.
“Ci
voleva proprio!” esclamò. “Non ne potevo più di mangiare
pollo.”
Faber
abbandonò un osso spolpato e rispose: “E a noi è andata bene
rispetto a quelli delle Trasmissioni. Loro sono settimane che
mangiano foie gras.”
“Foie
Gras? Che meraviglia!” intervenne un altro pilota.
“Prova
a mangiarlo per dieci giorni di fila e poi vedi se è una meraviglia.
Ormai vomitano anche solo a sentirne l'odore. E non ti dico il mal di
pancia.”
“Allora
dev'essere per quello che la radio non funziona mai, sono sempre alla
latrina!”
Ancora
risate, giro di birra, qualche stralcio di canzoni di guerra, Gli
aviatori sono vincitori e Scintillano le ali
d'acciaio.
Tutti
erano estremamente allegri. La preparazione del mezzo maiale aveva
creato un clima vagamente festoso e i piloti del primo
Jagdgeschwader, il più vecchio dei
quali arrivava a stento ai
venticinque anni, si stavano divertendo come matti.
L'unico
che rimaneva estraneo al clima di generale ilarità era il tenente
von Rohr.
Si era
trovato un posto ad un'estremità della tavolata e lì sedeva in
silenzio, mangiando educatamente con forchetta e coltello un pezzo di
maiale arrosto. Il suo bicchiere di birra era ancora praticamente
pieno.
La sua
non era spocchia aristocratica. Tutt'altro, anzi: in mezzo a quel
gruppo di valorosi piloti da caccia si sentiva l'ultimo dei paria. I
suoi camerati parlavano con entusiasmo delle vittorie che avevano
ottenuto contro gli inglesi e dei furiosi combattimenti sulla Manica,
e lui che argomenti aveva per partecipare alla conversazione? Un volo
a bordo di uno Storch carico di derrate alimentari.
Aveva
voglia di scomparire sottoterra.
In quel
momento la voce di Müller interruppe bruscamente il corso dei suoi
pensieri: “Tre urrà per il nostro Hans, che con la sua
provvidenziale missione di trasporto ha salvato lo Stormo dalla morte
per inedia! Il Führer la ringrazia, tenente von Rohr!”
Tutti
levarono i bicchieri nella sua direzione gridando urrà,
qualcuno gli batté pacche sulle spalle, qualcun altro si preoccupò
di mettergli in mano un boccale di birra fresca.
Von
Rohr si guardò intorno frastornato. Di certo lo stavano prendendo in
giro. E se non lo stavano facendo, se quella era solo una spontanea
manifestazione di cameratesco affetto, ebbene era la cosa più
umiliante che gli fosse mai capitata.
Si alzò
in piedi repentinamente, facendo cadere la sedia nel movimento, fece
girare sugli astanti uno sguardo da bestia braccata e scomparve di
corsa verso gli hangar.
“E
adesso che gli prende?” volle sapere qualcuno.
La
domanda cadde nel vuoto. Tutti ricominciarono a far festa e
l'incidente fu subito dimenticato.
Il
cigolio della porta metallica turbò il silenzio dell'hangar. Seduto
su una scaletta da meccanico, i gomiti puntati sulle cosce e il viso
fra le mani, Hans non alzò nemmeno la testa. Era avvilito. Era così
avvilito che avrebbe voluto diventare invisibile. Rimase immobile
augurandosi che chiunque fosse entrato non lo vedesse e se ne andasse
senza disturbarlo.
“Tenente
von Rohr?” udì chiamare. “Tenente, è qui?”
Alzò
la testa con uno scatto: era la voce del capitano Müller.
Ebbe un
momento di panico: che fare? Dare segno di sé, passare sotto le
Forche Caudine della predica che sicuramente il suo superiore era
venuto a fargli? Immaginava già cosa gli avrebbe detto il capitano:
lei se n'è andato come una specie di adolescente inquieta da romanzo
dell'ottocento, questa non è la condotta consona ad un ufficiale.
Allora
era meglio non farsi trovare? Era un atteggiamento da vile. Nessun
tedesco degno di questo nome si sarebbe comportato così.
“Oh,
ecco dove si è nascosto!” esclamò il capitano, sollevandolo in
quel modo dal peso della decisione. “L'ho cercata dappertutto, von
Rohr.”
“Rohr
e basta, prego,” rispose meccanicamente il giovane.
“Perché?
Non le piace il suo cognome?”
“È
un cognome aristocratico.”
L'altro
lo guardò senza capire. “E allora?”
“Voglio
che la gente mi consideri per quello che valgo io, non per la
famiglia da cui provengo.”
“Io
non mi farei tanti problemi, se fossi in lei,” rispose disinvolto
il capitano. “In aria non contano né gradi né famiglie
altolocate. Lassù c'è il vero socialismo, in un certo senso.”
Detto
questo si sedette accanto a lui sulla scala di ferro e gli diede una
pacca sulla spalla.
“Magari
potessi arrivarci, in aria,” sospirò il tenente continuando a
guardare fisso dinnanzi a sé. “Ma se il maggiore continua a farmi
fare qualsiasi cosa tranne i voli di guerra, come farò?”
“Oh,
ci arriverà. Ci arriverà. Lo sa com'è fatto il vecchio: vuole
essere sicuro che lei sia in grado di uscire vivo da un combattimento
coi Tommies.”
“Ma
io sono in grado!” protestò il giovane. “Sono stato il primo del
mio corso, ero già istruttore di volo a vela a sedici anni!”
“Sì,
beh, indubbiamente si vede da come pilota, ma i duelli aerei sono
un'altra cosa.”
“Davvero
si vede?” chiese il tenente, di colpo emozionato da quell'elogio,
ignorando la seconda parte della risposta di Müller.
“Ha
una buona mano,” rispose l’altro, “l’ho notato subito.”
Per
quanto si fosse ripromesso di rimanere impassibile, von Rohr non poté
evitare di sorridere.
“Per
questo sarebbe un peccato che lei ci lasciasse le penne alla prima
missione,” concluse allora il capitano. “I buoni piloti non sono
così frequenti, quando se ne trova uno è meglio cercare di
conservarlo.”
Scese
dalla scaletta, si sistemò brevemente l’uniforme. “Ora torno dai
ragazzi,” disse. “Si unisca a noi, se ne ha voglia. Le garantisco
che non mordiamo.”
Se ne
andò senza attendere risposta.
Il
giovane tenente rimase immobile. Era soddisfatto delle parole del
capitano Müller, ma non del tutto. Cosa significavano quei discorsi?
Avevano tanto l’aria di disfattismo mascherato da senso pratico.
Lui si
era arruolato nella Luftwaffe proprio per combattere e possibilmente
per eliminare i nemici del Reich, e se il suo destino fosse stato
quello di cadere alla prima missione l’avrebbe accettato
serenamente. Dulce et decorum est
pro patria mori, pensò, poi
gli venne in mente che il latino era retaggio di una classe
reazionaria e conservatrice. Nulla di ciò doveva esistere nel Terzo
Reich.
Dolce
e onorevole è morire per la Patria, tradusse in buon
tedesco.
Ma
prima di morire avrebbe dimostrato quanto valeva, pensò. Avrebbe
fatto vedere al maggiore Graf, e sì, anche al capitano Müller che
lui non era un bamboccio stupido, e che era perfettamente in grado di
compiere missioni di guerra esattamente come tutti gli altri piloti
del Geschwader.
E che i
polli li facessero portare a un sottufficiale con la Kübelwagen, se
avevano tutte quelle esigenze culinarie. Lui nella Hitlerjugend non
si era mai lamentato per il rancio. Questo voleva ben dire qualcosa,
no?
Significava
che lui non faceva storie, che era un soldato né più né meno degli
altri, e quindi aveva il diritto di combattere come
gli altri.
Sorrise
fra sé e sé. Gli avrebbe fatto vedere lui, al maggiore Graf. Oh, se
gli avrebbe fatto vedere.
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