Capitolo
8
In volo
a bordo del suo Hurricane, il maggiore Stuart perlustrava il cielo
alla ricerca di qualcosa di rosso.
Stavolta
gli aveva preparato proprio una bella trappola, al Crauto, e tutti i
suoi giochetti da Asso della Grande Guerra gli sarebbero serviti a
ben poco.
Per un
attimo fu attraversato da una fitta di rimorso. Per quanto fosse un
nemico, quel tedesco aveva sempre combattuto secondo le regole. Non
aveva mai commesso scorrettezze. L’idea di attirarlo in un tranello
gli dava un certo fastidio.
Avrebbe
preferito affrontarlo in un combattimento onorevole.
Questa
è la guerra, George, non è una partita di golf con le regole e gli
arbitri.
Gli sembrava ancora di sentire le parole di John
Poynter, l’ideatore del piano. Lui farebbe
esattamente la stessa
cosa con te se tu fossi, poniamo, il Cavaliere di Westminster e tutti
i giorni abbattessi da solo due o tre aerei della Luftwaffe.
Il
ragionamento filava, ma non lo convinceva del tutto.
Si
chiese con raccapriccio se fosse vero quello che Poynter aveva
insinuato per scherzo alcuni giorni prima, ovvero che in realtà lui
si fosse in un certo senso invaghito del Cavaliere.
Iddio
non voglia,
pensò inorridito.
“Signor
maggiore, eccolo!” gridò qualcuno distogliendolo bruscamente dalle
sue meditazioni. “A ore tre, contro il sole!”
Stuart
si voltò: come nelle migliori tradizioni degli Assi tedeschi, il
Cavaliere di Valsgärde attaccava col sole alle spalle. Come aveva
fatto ad arrivare fin lì senza che nessuno se ne accorgesse?
Mistero.
Alle
volte i trucchi di quel mangiacrauti avevano del paranormale.
“Alzate
il sipario,” disse semplicemente nella frequenza radio. Quello era
il segnale convenuto: da tutte le basi della zona decollarono i
caccia pronti ad intercettare il Messerschmitt.
Stuart
era rimasto piuttosto stupito quando il comando gli aveva autorizzato
quell’operazione. Pensava gli avrebbero detto di no, troppo
dispendioso far alzare cinquanta caccia per abbatterne uno solo. E
invece gli avevano detto subito di sì. Gli avevano chiesto se aveva
bisogno di rinforzi, anzi, e avevano mandato due uomini
dell’Intelligence nel caso il crucco fosse stato catturato vivo.
Li
aveva lasciati nel suo ufficio. Due tizi grigi e torvi, dall’aria
di burocrati più che di militari. Si chiese cos’avrebbero fatto
una volta avuto il tedesco fra le grinfie. Probabilmente l’avrebbero
portato via e interrogato. Per chiedergli cosa, poi? Non era certo un
mistero quello che il Cavaliere di Valsgärde faceva tutti i giorni.
E se
l’avessero torturato?
Non nel
suo Squadron, stabilì categorico. Non finché era lui il comandante.
E poi
si costrinse a lasciar perdere quei pensieri per concentrarsi sulla
situazione contingente: il pesciolino stava arrivando ed era ora di
chiudere la rete.
Ed era
un pescecane, più che un pesciolino, per cui non era il caso di
sottovalutarlo.
Il
Messerschmitt arrivò come un fulmine. Invece di evitare lo stormo di
aerei inglesi ci si buttò in mezzo, lo attraversò da una parte
all’altra e quando cabrò per sganciarsi, con una virata così
stretta che le ali si lasciarono dietro due grosse scie di condensa,
uno Spitfire stava cadendo in vite.
Che
classe, non
poté far a meno di pensare il maggiore.
Il
tedesco intanto si stava lasciando dietro gli inglesi con la classica
manovra evasiva dei Messerschmitt, ovvero una picchiata quasi
verticale non preceduta dalla rovesciata d’ala, seguita da una
brusca richiamata alcune centinaia di metri più in basso.
Quella
manovra era così tipica – e così impossibile da eseguire per un
aereo inglese – che si erano basati proprio su di essa per
elaborare il piano di cattura: la picchiata avrebbe portato il
Cavaliere dritto in mezzo agli Squadron decollati per intercettarlo.
Sulle
prime Stuart era stato scettico, figurarsi se una vecchia volpe come
quel mangiacrauti si fa fregare da un trucco del genere, eppure vide
che il tedesco stava andando a finire proprio dove avevano previsto.
La
soddisfazione fu però di breve durata, perché un attimo dopo il
Messerschmitt 109 si rese conto del pericolo, diede tutto motore e
guizzò via con straordinaria agilità.
Si
scatenò l’inseguimento. Come tante volte era accaduto, il tedesco
filava come una volpe con dietro una muta di cani, schivando con
abilità i traccianti degli inglesi. Il cielo però era pieno di
Spitfire e Hurricane, il Messerschmitt non poteva né picchiare né
cabrare senza finire di nuovo in mezzo ai nemici, per cui era solo
questione di tempo e poi una raffica l’avrebbe colpito.
Stavolta
qualcuno si sarebbe portato a casa le spoglie del Cavaliere di
Valsgärde.
A quel
pensiero il maggiore si sentì stranamente oppresso da un vago senso
di tristezza.
E poi
lo vide arrivare: Muso Rosso, dritto verso di lui. Gli stava
sparando, raffiche di traccianti così precise che nonostante la sua
brusca manovra evasiva pezzi di rivestimento alare schizzarono via
luccicando al sole.
Una
sferzata di adrenalina lo attraversò come una scossa elettrica. “È
mio!” gridò in frequenza e si mise all’inseguimento del
Messerschmitt.
Duellarono
furiosamente. Il tedesco probabilmente aveva capito di essere in
trappola, ma vendeva cara la pelle. Stuart si trovò a sudare ai
comandi del proprio aereo con i traccianti che gli passavano a pochi
centimetri dalla capottina di plexiglas o dalla fusoliera.
Muso
Rosso era un diavolo di pilota, c’era poco da dire.
Alla
fine il maggiore riuscì a piazzare una raffica fortunata in pieno
nel motore del Messerschmitt. L’aereo sembrò inchiodarsi a
mezz’aria, poi si rovesciò e cominciò a precipitare in vite
lasciandosi dietro una scia di fumo nero.
Stuart
rimase a guardarlo ansante, mentre la radio impazziva di
congratulazioni e manifestazioni di entusiasmo e tutti i piloti dei
vari Squadron si davano a sfrenate acrobazie per festeggiare
l’incredibile avvenimento.
Mentre
il maggiore continuava a seguire la sua caduta, il Messerschmitt
precipitò per almeno duemila metri, poi inaspettatamente si riprese.
Stuart si trovò a trattenere il respiro mentre il tedesco rimetteva
in assetto il suo caccia e pur con il motore fermo riusciva a
compiere un atterraggio di fortuna.
Scese
di quota e sorvolò un paio di volte il relitto adagiato in mezzo a
un campo, ma non gli parve di vedere movimenti né dentro l'aereo né
intorno. Forse Müller era rimasto ferito, o magari aveva fatto come
von Richthofen, che aveva portato a terra l’aereo ma era morto
subito dopo.
Se ne
andò con una strana sensazione di disagio.
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