Capitolo
16
Stuart
si svegliò ancora pervaso dalla sensazione di piacere di quel volo.
Si stirò nel letto rievocando nubi così corpose da sembrare solide,
di colori che andavano dall’arancio al rosa, e un mare blu cupo sul
quale i raggi del sole calante si riflettevano in migliaia di
luccichii.
Pensò
al Messerschmitt 109 che aveva pilotato nel sogno.
In
realtà gli era capitato raramente di vedere da vicino il celebre
caccia della Luftwaffe. Una volta ne avevano abbattuto uno vicino
alla base e lui era riuscito ad arrampicarsi sull’ala, ma mentre
stava osservando l’abitacolo c’era stato un allarme antiaereo e
aveva dovuto sospendere la sua ispezione. Poi ne aveva visto qualcun
altro, ma sempre da fuori, e variamente danneggiato dalla contraerea
o dai duelli coi caccia.
Allungò
una mano per scostare la pesante tenda da oscuramento. Fuori c’era
il vago chiarore che precede l’alba e la finestra era un reticolo
nero su un cielo color piombo. Quell’intersecarsi di linee
ortogonali gli ricordò la capottina squadrata del Messerschmitt 109,
ma subito dopo gli evocò un ricordo decisamente meno gradevole: il
soffitto vetrato della galleria delle statue.
Ripensandoci
si accorse che il luogo non era un'invenzione del suo subconscio, ma
uno degli ambienti di rappresentanza dell’Accademia Militare che
aveva frequentato. Ovviamente là non c’erano le statue nude, ma
l’architettura classicheggiante era tale e quale.
E ad un
tratto gli tornò in mente un episodio verificatosi quando era un
cadetto. Tutto pervaso di antica Grecia e sodalizio virile, si era
legato a un giovane di un altro corso, e poiché stavano in due ali
diverse dell’Accademia era solito lasciargli dietro il piedistallo
del busto di Wellington, che troneggiava circa a metà della
galleria, delle poesie composte di propria mano. Nei suoi versi lo
chiamava Fair
Youth,
esattamente come il misterioso giovane
cui si rivolgeva Shakespeare nei sonetti e che si diceva fosse stato
suo amante.
Lo
ricordava ancora: era un ragazzino biondo, dalle fattezze delicate,
con grandi occhi azzurri dall’espressione sognante.
All’epoca
si era invaghito di lui, ma probabilmente solo perché non c’erano
ragazze in giro. E poi perché era giovane e non sapeva ancora niente
del sesso. Fortunatamente, comunque, in tutta la loro frequentazione
non si erano scambiati altro che qualche carezza e qualche casto
bacio sulle labbra.
Molti
palpiti, però, e molte poesie.
Sospirò
a disagio. Avrebbe voluto dimenticare quell’incresciosa faccenda,
ma certi ricordi rimangono piantati nella memoria come chiodi nella
croce di Cristo.
Si alzò
con la sensazione di dover scongiurare una tragedia incombente: quel
sogno gettava una luce nuova – nuova e decisamente inquietante –
sulla presenza di von Rohr.
Perché
si opponeva con tanta veemenza al suo trasferimento? Non voleva che
fosse accusato ingiustamente, certo, ma era davvero il solo e unico
motivo? Non c’era per caso qualche sentimento strano in mezzo?
“Dio
mi scampi,” mormorò passandosi una mano sul viso.
Febbrilmente
cominciò a enumerare tutti gli elementi che deponevano a sfavore
della paventata eventualità, con l’angoscia di un paziente che
valuta i propri sintomi cercando di escludere una malattia
incurabile.
Io
ho una fidanzata, pensò per prima
cosa, una
fidanzata che amo
e con la quale vado a letto tutte le volte che posso. Ce l’ho
sempre in mente. Abbiamo deciso di non sposarci, questo è vero, ma
solo perché c’è la guerra. Sarà la prima cosa che faremo quando
finirà. E poi vogliamo bambini, tanti bambini. Nessun anormale vuole
bambini. E comunque von Rohr è un maschio, e a me i maschi non
piacciono, non c’è altro da dire.
Ma la
cosa non gli dava la sperata tranquillità. Stralci dei versi che
aveva composto in Accademia continuavano a risuonargli in mente
suscitandogli un colpevole imbarazzo, inoltre le allusioni di
Poynter, quelle frasi che buttava lì quando credeva di fare il
simpaticone, continuavano a tormentarlo: il tuo tedesco, sei
più
geloso di lui che della tua fidanzata, abiterete insieme…
Davvero
erano solo battute o aveva capito qualcosa?
O
magari stava cercando di dirgli qualcosa, di fargli
capire
cosa rischiava a tenersi lì quel tedesco.
Perché
in effetti von Rohr era sì un nazista dal carattere sgradevole e dai
modi scontrosi, ma bisognava ammettere che era anche dotato di
notevoli attrattive.
Era
bello, tanto per cominciare. Nonostante la giovane età non aveva
nulla dell’adolescente sgraziato che tenta con fatica di diventare
uomo. Aveva anzi un bel viso dai lineamenti severi, e per quello che
aveva visto anche un corpo armonioso e forte.
E poi
era coraggioso, tenace e risoluto. Forse un po' rigido e
ideologizzato, ma quella in realtà era una cosa che aggiungeva
fascino, anziché toglierne. Tutta quell’intransigenza dava l'idea
di avere a che fare con una specie di templare votato ad una santa
impresa.
Quel
pensiero gli evocò la navata della chiesa, e naturalmente il suo
inquilino. Si voltò a disagio in quella direzione, rimase qualche
secondo come in ascolto, quindi si girò bruscamente e cominciò a
vestirsi in fretta per andare in servizio.
Passò
davanti all'improvvisata prigione alla chetichella, quasi non volesse
farsi sentire. Non c’era pericolo che von Rohr tentasse di
rivolgergli la parola, normalmente quando lui passava il tedesco
stava ben attento a spostarsi verso la parete più lontana e a
girarsi di spalle, ma stavolta non voleva nemmeno correre il rischio.
La
giornata trascorse in voli di guerra. Stuart prese parte a ognuno di
essi, usando addirittura l'aereo di un altro pilota quando il suo
ebbe un'ala sforacchiata e per qualche ora non fu in condizione di
volare. Quando fu troppo buio per le missioni di caccia andò alla
baracca del comando e attaccò febbrilmente un cumulo di burocrazia
arretrata.
Dopo un
tempo imprecisato, Poynter si palesò sulla porta. “Credevo che un
commando di mangiacrauti ti avesse catturato,” disse semplicemente.
“Cosa?”
esclamò il maggiore, alzando bruscamente la testa dal suo lavoro.
Poi, a voce più bassa: “Non ti avevo sentito entrare.” Il tono
aveva una nota di vago rimprovero.
“Non
mi avresti sentito nemmeno se fossi entrato suonando la grancassa,”
rispose noncurante il capitano. “Sembravi parecchio assorto nel tuo
lavoro.” Poi, avvicinandosi: “Che roba è?”
“Stavo
sistemando la corrispondenza.”
“Oh.
Sembra appassionante,” lo canzonò l'amico, quindi soggiunse,
imitando il tono di un maggiordomo della Casa Reale: “Il signor
maggiore intende onorarci della sua presenza in mensa?”
D'istinto
Stuart guardò l'orologio e subito esclamò: “Accidenti, ma è
tardissimo!” Diede un'occhiata fuori dalla finestra e si accorse
che era calata la notte. Scattò a tirare le tende nere e spense la
luce principale lasciando solo quella da tavolo.
Imbarazzato
all'idea di essere stato colto in fallo proprio sull'oscuramento, una
necessità che aveva ribadito ai suoi uomini fino alla nausea, evitò
di guardare in viso Poynter. “Sarà meglio che andiamo,” disse
soltanto, uscendo rapido dalla stanza.
Il
capitano fece spallucce e gli tenne dietro senza replicare.
Dirigendosi
a grandi passi verso la mensa, il maggiore si sentiva però quasi
sollevato per la prima volta nella giornata. L'apparizione di Poynter
aveva in un certo senso fatto da catalizzatore per certe idee che da
parecchie ore andava rimuginando senza riuscire a concludere nulla.
Vederlo
sulla porta e pensare alle sue battute caustiche era stato tutt'uno.
Chissà cosa
direbbe se sapesse del mio sogno, si era chiesto
con apprensione.
E da
lì, in un immaginabile concatenarsi di pensieri, era giunto alla
conclusione che era arrivato il momento di allontanare il
prigioniero.
Non
c'era più motivo di tenerlo lì. Anzi, con la sua destabilizzante
presenza gli toglieva sonno e concentrazione, mettendolo a rischio di
commettere errori potenzialmente fatali durante le missioni di
guerra, quindi era imperativo che fosse allontanato quanto prima.
Era ora
di consegnarlo all'Intelligence come gli era stato richiesto.
Sicuramente alla fin fine non intendevano fargli chissà che, ci sono
delle regole per certe cose. L'avrebbero sballottato un po' in giro,
magari, l'avrebbero messo in qualche finto documentario per mostrare
alla gente gli Unni cattivi e poi l'avrebbero spedito in un campo
prigionieri dall'altra parte del mondo ad aspettare la fine della
guerra. Certo non era corretto, e non era nemmeno una gran
prospettiva per un giovane ufficiale ansioso di fare il proprio
dovere, ma un sacco di gente aveva fatto una fine ben peggiore,
quindi von Rohr non avrebbe potuto lamentarsi più di tanto.
Stuart
trascorse la cena nel più ameno degli stati d’animo. Si sentiva
sollevato come uno che fosse riuscito a scongiurare una minaccia che
da tempo lo terrorizzava. Partecipò alle conversazioni, lodò il
cuoco per la sua abilità e proferì addirittura alcuni garbati motti
di spirito. Relegato in un angolo della sua mente come un metaforico
pacco da spedire, il tedesco sembrava aver cessato di esercitare la
propria nefasta influenza su di lui.
Non gli
faranno niente, si ripeteva, alla fine lo strapazzeranno un po’ e
poi lo manderanno in Canada, magari, o da qualche parte nel Pacifico.
Clima buono e belle ragazze, sempre meglio di una trincea piena di
fango. O di una fossa comune.
“George?”
La voce di Poynter lo fece quasi trasalire.
“Eh?”
“Eri
di nuovo nel tuo mondo, stasera mi sembri Alice nel paese delle
meraviglie. Si può sapere a cosa stai pensando di così piacevole?”
Stuart
ritenne che nominare von Rohr non sarebbe stata una buona idea,
quindi prontamente disse: “Stavo pensando a Margaret. Credo sarebbe
meglio se ci sposassimo.”
“Mi
pareva che fossi stato proprio tu a dirle che preferivi aspettare la
fine della guerra.”
“Lo
so, ma forse non è stata una buona idea. Un uomo si deve sistemare a
un certo punto, no?”
“Immagino
di sì,” fu la diplomatica risposta del capitano.
“Ma
certo che sì!” rispose Stuart con entusiasmo. Poynter valutò che
faceva pensare a un sensale mentre cerca di piazzare un cavallo.
Ostentava una strana allegria forzata, decisamente diversa dal suo
solito atteggiamento pacato e silenzioso.
“Tutto
bene?” s’informò con discrezione.
L’altro
assunse un’espressione stupita. “Perché me lo chiedi?”
“Non
lo so, mi sembri strano.”
“Strano
perché parlo della mia fidanzata? E di cosa dovrei parlare secondo
te per non essere strano?” E
provvidenzialmente s'interruppe
prima che gli scappasse detto: “Di quel dannato
tedesco?”
Tese il
piatto affinché fosse riempito di nuovo e riprese a mangiare in
silenzio. Così
non va,
pensava indispettito, così non va
per nulla.
Perché,
nonostante tutti i suoi sforzi, quel dannato von Rohr tornava sempre
fuori? Per quanto cercasse di cancellarlo dalla mente, nelle
occasioni più inaspettate si trovava a pensare a lui.
Era
decisamente ora di allontanarlo, se lo ripeté per l’ennesima
volta. Non poteva sperare di condurre le missioni di guerra con la
necessaria lucidità se l'assillo di quel giovanotto non voleva
lasciarlo in pace. Molto meglio liberarsi di lui e non pensarci mai
più.
Era
piuttosto tardi quando Stuart fece ritorno al suo alloggio. Si era
trattenuto a chiacchierare con gli altri piloti, una cosa che
normalmente non faceva, e anche nel dirigersi verso la canonica aveva
indugiato in modo insolito.
Si
fermò per l'ennesima volta a scrutare l'edificio, che nel buio
dell'oscuramento appariva come una sagoma indistinta e vagamente
oppressiva. Prese in considerazione l'idea di andare a dormire nella
baracca del comando. Là c'erano una brandina e un cambio di
biancheria per ogni evenienza, ma soprattutto non c'era quel dannato
crucco ad aspettarlo.
In
realtà di sicuro il tedesco non lo stava aspettando, anzi con ogni
probabilità stava già dormendo della grossa, ma la sola idea di
accorciare le distanze tra sé e lui aveva il potere di metterlo a
disagio.
Si
voltò speranzoso in direzione della baracca del comando, ma dovette
a malincuore rinunciare al suo proposito: se avesse fatto una cosa
del genere avrebbe dovuto dare ai suoi piloti una giustificazione
plausibile del perché abbandonava le comodità del suo alloggio in
favore di una brandina sgangherata, e purtroppo non gliene veniva in
mente nessuna. Si augurò che arrivasse un'incursione aerea e
risolvesse lo spinoso problema obbligandolo a trascorrere la notte
nel rifugio, ma quella sera i ragazzi di Goering non sembravano avere
voglia di intervenire in suo favore.
Con un
sospiro raggiunse a malincuore la canonica.
All'interno
il silenzio era perfetto. Stuart rimase in ascolto qualche secondo,
ma non udì il più piccolo rumore. Von Rohr dormiva, o se non
dormiva era immobile da qualche parte come faceva di solito, ben
attento a non dar segno di sé per non attirare la sua attenzione.
Invece
di dargli lo sperato sollievo, quell'idea in qualche modo lo
intristì. Provò fugacemente la stessa costernazione di quando da
bambino aveva tentato di dare da mangiare a un cerbiatto e quello,
invece di prendere il pane dalla sua mano, era scappato via.
Fece un
cauto passo avanti, tastò nel buio finché non trovò una candela e
l'accese.
A
quella pur tenue luce notò immediatamente una cosa insolita: la
tenda che separava la canonica dalla chiesa stava oscillando.
Subito
si guardò intorno alla ricerca di correnti d'aria, ma la fiammella
palpitava perfettamente dritta, segno che l'aria era immobile.
Fissò
di nuovo la tenda, le cui oscillazioni si andavano lentamente
smorzando.
Mi
aspettava? pensò turbato. Poi stabilì che probabilmente von Rohr
voleva solo essere sicuro di non farsi sorprendere dal suo rientro.
Magari i suoi vestiti non erano ancora asciutti e non voleva correre
il rischio di essere visto nudo una seconda volta.
L'idea
gli strappò un sorriso. Ripensò alla comica espressione di
imbarazzo che il giovanotto aveva assunto trovandosi improvvisamente
in tenuta adamitica e per un attimo si sorprese a desiderare di
scompigliargli affettuosamente i capelli.
Poi
intervenne la voce della coscienza a ricordargli che von Rohr era un
ufficiale nemico.
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