Capitolo
17
Provvidenzialmente,
l'Intelligence arrivò proprio il mattino dopo. Tornarono i due
ufficiali che aveva già conosciuto, e che frattanto aveva scoperto
chiamarsi rispettivamente capitano Benson e maggiore Linwood,
entrambi col sorriso delle grandi occasioni stampato in volto.
“Salve,
vecchio mio!” salutò il maggiore scendendo dalla macchina. “Le
porto delle ottime notizie!”
“Che
genere di notizie?” chiese Stuart vagamente sospettoso.
“Notizie
di suo gradimento, vedrà. C'è un posto dove possiamo parlare?”
Si
spostarono nella baracca del comando.
“Ecco
qui, guardi!” esclamò il maggiore Linwood non appena si furono
seduti intorno al tavolo. “Guardi che bellezza.”
Solennemente
tirò fuori dalla sua cartella portadocumenti un astuccio di velluto
e lo fece scivolare verso Stuart.
Questi
lo fissò perplesso e poi alzò gli occhi sul collega.
“Lo
apra, lo apra!” disse Linwood con fare incoraggiante.
L'altro
fece ciò che gli veniva suggerito: all'interno della scatoletta,
adagiata su un prezioso letto di seta color porpora, c'era una croce
latina d'argento. Al centro aveva un serto di foglie che conteneva le
lettere R.A.F. ed era sormontato da una corona reale. Lungo i bracci
orizzontali della croce si allargavano due ali.
Stuart
riconobbe la decorazione: si trattava di una DFC, Distinguished
Flying Cross,
e veniva assegnata solo per atti di valore,
coraggio o dedizione al dovere compiuti nel corso di voli di guerra
contro il nemico.
Alzò
gli occhi per fissare in viso il suo parigrado. “Che significa?”
chiese serio.
“Questa
le verrà conferita nel corso di una cerimonia ufficiale.”
“Non
ne vedo il motivo.” Chiuse la scatola con un gesto secco e la
rispedì al mittente.
“Oh,
via, non sia modesto,” rispose Linwood, “in fin dei conti ha
abbattuto un pericoloso pilota nemico.”
“Sarebbe
a dire?”
“Ma
il Cavaliere di Valsgärde, no?”
“Vi
ho già detto che non è lui,” replicò Stuart alzando leggermente
la voce. Poteva anche aver deciso di consegnare von Rohr, ma non gli
andava di prestarsi a quella farsa.
Linwood
assunse l'aria di paterna benevolenza che era solito opporre alle
affermazioni di principio di Stuart. “Suvvia, maggiore, gliel'ho
già spiegato,” disse in tono amichevole, come a cercare una
qualche forma di complicità. “In realtà non importa a nessuno se
quel crucco sia davvero il Cavaliere o no. L'importante è come lo
presenteremo alla gente. Mostreremo un Unno cattivo che viene punito
per la sua perfidia, tutti saranno felici e contenti e odieranno il
dannato Terzo Reich con rinovellato vigore.”
Il
maggiore Stuart lo fissò meditabondo. Dopo qualche secondo di
silenzio chiese: “Non gli farete niente, vero? Intendo, niente di
male.”
I due
dell'Intelligence si scambiarono un'occhiata. “Assolutamente
nulla,” gli assicurò il maggiore.
“Niente
di niente,” ribadì il capitano, che apriva bocca per la prima
volta.
“Voglio
dire, non vi metterete a picchiarlo o cose del genere per fargli
confessare che è il Cavaliere di Valsgärde, spero.”
Linwood
parve addirittura offeso. “Che sciocchezza, non siamo mica nel
Medioevo!” protestò.
Sul
gruppo calò di nuovo il silenzio. Stuart avrebbe dovuto provare
sollievo per quello che stava per succedere, ma chissà perché la
cosa invece gli comunicava una sorda inquietudine. Fissava ora l'uno
ora l'altro dei suoi interlocutori alla ricerca di una conferma che
von Rohr sarebbe stato trattato adeguatamente, ma la loro espressione
non lo rassicurava per nulla.
Aprì
la bocca per parlare, ma prima che potesse proferire verbo Linwood lo
precedette: “E c'è anche una promozione nell'aria,” disse con
una strizzata d'occhio. “Dia retta a me, se gioca bene le sue carte
si ritroverà tenente colonnello prima della fine del mese.”
In quel
momento un aereo passò a bassissima quota sul campo, facendo tremare
i vetri col rombo del motore.
Stuart
non alzò nemmeno la testa, sicuramente si trattava di uno dei suoi
ragazzi in vena di bravate, ma i due dell'Intelligence, non abituati
a tali spettacoli, corsero alla finestra.
Vedendoli
distratti, il maggiore ne approfittò per sbirciare i dattiloscritti
che spuntavano dalla cartella di cuoio. Lo strano atteggiamento
mellifluo dei suoi ospiti l'aveva insospettito e voleva vederci
chiaro.
Sfilò
un documento e gli diede una scorsa. Subito lo sguardo gli cadde su
una parola: impiccagione.
“Che
significa?” esclamò, balzando in piedi senza abbandonare il
foglio.
Tutti i
suoi bei castelli in aria crollarono miseramente: altro che
strapazzarlo un po' e mandarlo in un campo prigionieri in Canada,
quelli volevano ammazzarlo!
I due
ufficiali dell'Intelligence si girarono bruscamente verso di lui.
“Che
cosa significa tutto questo?” ripeté Stuart indietreggiando col
documento sgualcito in mano.
Linwood
sospirò. “Via, maggiore, non faccia il bambino.”
“Come
sarebbe a dire ‘non faccia il bambino?’ Volete processare e
uccidere un innocente, io non sarò mai complice di una cosa del
genere, nemmeno se mi offrite dieci medaglie e il grado di generale!”
I due
dell'Intelligence si scambiarono uno sguardo a metà fra il perplesso
e l'esasperato. “Questa è guerra, maggiore Stuart,” cominciò
poi pazientemente Linwood. “Guerra, ha presente?” Sembrava che
parlasse a un bambino ritardato. “E noi avremmo anche intenzione di
vincerla, possibilmente. Giusto?”
Si
fermò in attesa di una risposta, ma il pilota si limitò a guardarlo
torvo.
Imperterrito,
Linwood riprese: “Capisce anche lei che non possiamo permetterci di
perderla. È in gioco la sopravvivenza della civiltà come noi la
conosciamo, e se il prezzo da pagare per mantenere le cose come sono
è la testa di due o tre innocenti, chiamiamoli così, io lo accetto
ben volentieri.”
Stuart
continuava a tacere. I suoi occhi mandavano lampi.
“Ma
insomma!” sbottò alla fine Linwood. “Mi sembra che lei gli abbia
sparato per abbatterlo, no? Non ha rischiato di ucciderlo in quel
frangente?”
“Non
è la stessa cosa,” fu la cupa risposta. “Quello era uno scontro
onorevole, questo sarebbe un assassinio.”
A
quelle parole l'ufficiale dell'Intelligence si irrigidì. L'aria da
curato di campagna scomparve come per incanto e lasciò il posto a un
cipiglio da freddo burocrate.
“Basta
così,” disse asciutto. “Il suo romanticismo mi commuove, ma io
sono pagato per distruggere il Terzo Reich, non per recitare
melodrammi.”
Sfilò
dalla sua cartella una busta e la porse al maggiore.
“Questi
sono gli ordini. Abbia la compiacenza di attenersi ad essi, se non
vuole finire sotto processo per insubordinazione.”
Attese
che Stuart prendesse i documenti, quindi girò sui tacchi e uscì
seguito dal capitano Benson.
Dalla
soglia, Stuart gli gridò dietro: “Ha sbagliato, Linwood! Invece di
una medaglia e una promozione, avrebbe dovuto propormi trenta
denari!”
Dopodiché
chiuse la porta con un tonfo.
Per
svariati minuti non fece altro che aggirarsi furente per la stanza.
Camminava su e giù come una belva in gabbia senza riuscire a
capacitarsi di quello che aveva appena udito.
Quel
ragazzo sarebbe stato impiccato come un criminale e lui non avrebbe
potuto fare niente per impedirlo.
Guardò
fuori dalla finestra quasi augurandosi che qualche Heinkel 111 della
Luftwaffe avesse a bordo delle bombe di troppo e decidesse di mollare
l'eccedenza proprio sopra la macchina dei due ufficiali di rientro a
Londra.
Com'era
possibile far la guerra in quel modo?
Lui
combatteva tutti i giorni contro i tedeschi. Ne aveva abbattuti
parecchi, certo, sicuramente ne aveva anche uccisi, esattamente come
i tedeschi avevano abbattuto e ucciso tanti dei suoi, ma non aveva
mai provato odio nei loro confronti, né tentato di vincere le
battaglie con gli inganni che l'Intelligence voleva portare avanti.
A suo
modo di vedere ci dovevano essere delle regole nella guerra, che
anche negli scontri più cruenti facevano sì che gli uomini non si
trasformassero in bestie.
Sospirò
interrompendo il suo nervoso aggirarsi. L'avevano definito romantico.
Con disprezzo, come se fosse stata una cosa di cui vergognarsi,
quando gli unici che avrebbero dovuto vergognarsi erano loro.
Scosse
desolato la testa, impotente a contrastare ciò che stava accadendo,
ma al tempo stesso disgustato e furioso.
Lesse
gli ordini che gli erano stati lasciati: si trattava di un'asettica
serie di istruzioni circa il trasferimento del prigioniero. Rifletté
che se non fosse riuscito a sfilare quel foglio dalla cartella del
maggiore non avrebbe mai saputo cosa stava per accadere a von Rohr.
Quella era la considerazione che l'Intelligence manifestava nei
confronti degli ufficiali delle Forze Armate: galoppini idioti, da
tenere il più possibile all'oscuro delle sue mene.
Ripensò
al giovane pilota della Luftwaffe. Era terribile che dovesse fare
quella fine: accusato ingiustamente di essere un criminale di guerra
e giustiziato. Si chiese per l'ennesima volta se ci fosse un modo per
evitarlo, ma per quanto ci ragionasse non gliene veniva in mente
nessuno.
Aprì
un cassetto della scrivania per riporre la busta con gli ordini e nel
movimento gli rotolò sotto gli occhi un distintivo che vi aveva
dimenticato dentro giorni prima. Lo raccolse con un vago sorriso e se
lo infilò in tasca, poi abbandonò la baracca del comando per andare
alla ricerca di Poynter.
Quel
giorno c'era burrasca sulla Manica, il che erigeva un muro pressoché
invalicabile tra la caccia della RAF e quella della Luftwaffe.
Condannati all'inattività, i piloti del 19° Squadron cercavano di
ingannare il tempo in qualche modo. Alcuni ne approfittavano per
recuperare un po' di sonno arretrato, altri scrivevano a casa, altri
ancora se ne stavano semplicemente a ciondolare in giro senza saper
bene che fare.
Poynter
stava giocando a golf. Aveva tirato fuori il suo fedele wedge e con
quello cercava di spedire delle palline dentro una tinozza. Siccome
non ci riusciva quasi mai, c'erano palline disseminate un po'
dappertutto in un raggio di dieci metri intorno a lui.
“Qualcuno
potrebbe inciampare,” disse Stuart avvicinandosi.
Il
capitano interruppe il suo allenamento. Si voltò senza fretta verso
di lui e rispose: “Anch'io sono felice di vederti, George.”
Si
appoggiò alla mazza assumendo una posa vagamente simile a quella del
Re Sole.
“Qual
buon vento?” chiese poi, visto che il suo interlocutore continuava
a fissarlo cupo senza proferire parola.
“Quei
bastardi!” sbottò allora Stuart.
“Prego?”
“Sono
degli schifosi bastardi, non meritano di indossare l'uniforme.”
Poynter
inarcò le sopracciglia assumendo un'espressione di cortese
interesse. “Si può sapere di chi stai parlando?”
“I
due ufficiali dell'Intelligence. Schifosi, stavolta hanno passato
ogni limite.”
Il
capitano notò che nel parlare l'amico stringeva nervosamente i
pugni, cosa che faceva unicamente quando era fuori di sé dalla
rabbia.
“Cos’è
successo?” gli chiese.
“Ti
conosco, alla fine darai ragione a loro,” brontolò Stuart per
tutta risposta. “Dirai che non ti aspettavi niente di diverso e che
è un modo molto razionale di fare la guerra.”
“Ma
di cosa stai parlando, in nome di Dio?”
“Lo
vogliono ammazzare!” rispose il maggiore con improvvisa veemenza.
“Organizzeranno un processo farsa in cui lo faranno passare per
criminale di guerra e poi lo impiccheranno.”
Prima
di rispondere, Poynter si prese un mezzo minuto di riflessione. Colpì
una pallina, che rimbalzò sulla tinozza e rotolò via, quindi
proferì: “Non si può negare che sia una porcata.”
Tornò
a concentrarsi sul golf.
“Ma?...”
buttò lì Stuart, consapevole che il parere dell’amico non si
sarebbe limitato a quella scarna constatazione.
“Ma
non mi aspettavo niente di diverso,” rispose il capitano con
un’alzata di spalle. “Hanno un’occasione e la sfruttano, tutto
qui.”
Altro
colpo, altra pallina a rotolare sul prato. “Piuttosto…” riprese
poi cautamente.
“Cosa?”
“Forse
ti stai prendendo la faccenda un po’ troppo a cuore.”
Stuart
gli rivolse uno sguardo torvo e ringhiò: “Sarebbe a dire?”
“Suvvia,
hai capito benissimo,” replicò Poynter prendendo di mira
l’ennesima pallina, “von Rohr è un prigioniero di guerra, non
hai nessun motivo per tenerlo qui.”
“Ma
lo vogliono uccidere!” insisté indignato il maggiore.
“Posso
ricordarti che tu hai cercato di fare la stessa cosa non più di
dieci giorni fa?”
“Et
tu, Brute!”
“Non
cominciare col latino,” lo ammonì Poynter, che ben conosceva la
tendenza dell’amico a ricorrere alle citazioni classiche quando si
trovava a corto di argomenti. “Te lo tieni in gabbia come una
specie di animale da compagnia e sai benissimo che è una cosa fuori
da ogni regola. Sicuramente in altre circostanze avrei giudicato von
Rohr un simpatico giovanotto e un abile pilota, ma purtroppo adesso
siamo in guerra e lui è un ufficiale nemico.”
“E
quindi?”
“E
quindi? Sai quanti dei nostri avrà fatto fuori? Lascialo perdere, è
una porcata accusarlo ingiustamente, ti capisco, ma non è nemmeno
opportuno che tu ti faccia tutti questi scrupoli per lui.”
“Oh,
scusa tanto,” replicò Stuart sarcastico, “probabilmente hanno
ragione quelli dell’Intelligence, sono un romantico.”
“Temo
proprio di sì.”
Detto
questo, Poynter riprese gli allenamenti di golf. Stuart fece qualche
tentativo di proseguire il discorso, ma l’udienza era terminata. Il
suo amico gli aveva già detto quello che aveva da dire, e ora lo
lasciava libero di ragionarci sopra.
Il
maggiore rimase per un po' a guardarlo mentre provava il suo celebre
swing, poi tornò
rassegnato e deluso sui propri passi.
Avvertiva una sgradevole sensazione di solitudine: lui era lontano
mille miglia da quei prosaici ingegneri della guerra, gente per cui
lealtà e onore non erano altro che ingranaggi da oliare
adeguatamente per far funzionare meglio la macchina.
Non
aveva niente da spartire con loro.
Paradossalmente,
gli parve di avere molte più cose in comune con von Rohr, che in fin
dei conti come lui era un romantico che combatteva
mosso da
ideali.
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